Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO TERZO

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO TERZO

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO TERZO

CAPITOLO 3

Quella mattina mi ero immerso, era inizio settembre, con il sole delle prime ore non ancora velato dalla parte basa dell’atmosfera. Esatto, mi ero immerso.
Mi ero immerso e basta.
Contava poco come, quasi niente dove, ancora meno per cosa, assolutamente non mi chiedevo perché.
Mi ero immerso e basta.
Più o meno come seguissi il piffero di una magia lusingatrice che mi spingesse lontano verso abissi di strane dimensioni, astratte, immateriali, quasi da vivere in altri tempi cosmici.
Magia dissimile certo, forse opposta, rispetto all’irripetibile incantesimo che, durante l’indolente sfrontata giovinezza, sentii trascinarmi semplicemente verso un altrove, corposo, multiforme, edonistico, attimizzato in ogni sfaccettatura. Sapore di sale.
Una melodia, intrufolatasi per vie misteriose nella parte della mente addetta agli addobbi acustici delle decisioni importanti, prima che io cominciassi a nuotare aveva suonato il tema “maestoso” che caratterizza la sinfonia numero sette di Beethoven, cui aveva fatto seguire, senza alcuna soluzione di continuità, le prorompenti battute iniziali che aprono l’Uccello di fuoco di Stravinsky.
Prepotentemente, questi ultimi accordi, come una esplosione d’artiglieria narrata in tante vecchie storie di trincee e di orgogliosi disprezzi del pericolo, mi scoppiavano intorno e dentro, mentre la mia testa traboccava d’immagini e ripeteva l’ultima frase con la quale Gilda, la sera prima, uscendo di casa, aveva sbattuta la porta.
-“Il tuo scetticismo uccide la tua fortuna”.
Volevo, sapevo di volere, e sapevo di poter volere.
Cosa?
Volevo volere.
Io non mi ero bardato con cinture e boccaglio per inseguire pesci impauriti o sconvolgere come fulmine tra i licheni nel bosco, le alghe e gli avannotti.
Neppure avevo armeggiato intorno ai tridenti allo scopo d’infilzarne le punte limate e stralimate, molate, scartavetrate e lucidate, nelle squame di scorfani immobili o nei morbidi opercoli delle seppioline…
Ancora non sapevo che un flauto magico mi spingeva verso di lei.

In effetti, senza averne coscienza, non altro che per lei mi ero gravato in vita con tre chili di piombo. Un simbolo: la murena.
L’immobile predatrice.
La bestia mai impaurita dal progressivo avvicinamento della morte che si accosta mimetizzata in una macchia scura: la tuta nera del subacqueo che piomba in discesa dal cielo.
Feroce se mostra la bocca spalancata, già pronta a ghermire.
Tenace, lascia scoperti i denti arcuati: ganci indeformabili come l’acciaio.
Solitaria.
Rinchiusa in una tana in cui lo spazio è minimo.
Arrotolata su se stessa in modo da aderire con forza alle pareti al fine d’impedire alla preda azzannata di fuggire trascinandola con sé.
Volevo la murena: una poesia.
Ne andavo alla ricerca.
Senza averne consapevolezza.
Attende il momento atto a coglierti di sorpresa, e se ti morde un dito, non puoi far altro che tagliarlo per non restare ancorato al fondo dalla tenacia del suo aggancio.
Molti Cacciatori sono stati cacciati, cioè molti Pescatori sono stati pescati, voglio dire che molti Sub sono rimasti sub, molti Poeti non hanno mai affrontato una murena.
Molti Traditori sono stati traditi.
Quella mattina, come ho già detto era inizio settembre, Gilda
era rincasata quasi all’alba perseguendo a suo modo l’intento di dare un segnale concreto ed immediato alla ennesima litigata che avevamo protratto per tutta la sera precedente, prima che sbattesse la porta uscendo:
-“Hai chiamato l’idraulico?”
-“No.”
-“Perché?
Quanto tempo dovremo stare con la goccia che cade nel lavello?
Possibile che la casa non debba mai essere in ordine?
Mi senti?
Mi ascolti?
Dico a te, mi odi?
Non solo non gli hai telefonato, ma fai pure l’offeso.
Il silenzioso.
L’insofferente.

Quando mi portavi le rose rubate, ai tempi del nostro amore, non aspettavi due volte per accontentare un mio desiderio! Era bello.
Ero bella.
Ti piaceva.
Ti piacevo.
È sempre stato solo questo.
Piacere.
La molla che fa girare il mondo attraverso i coglioni…”
-“E basta.
Appena ti mollo, cazzo, non la finisci più.
Non l’ho chiamato.
Capito?
Non l’ho chiamato.
E non lo chiamo.
E basta… ”
-“No, basta lo dico io.
Che molli, che cazzo, che basta.
Che basta, che cazzo, che molli.
E una, e due, e tre, e insomma quanto pensi che potremo andare avanti così?
Un giorno litighiamo per il cibo, una sera discutiamo per la gente, una notte sbuffiamo per una toccata, e poi gli orari, e poi la macchina, e poi, e poi l’idraulico.
Sono stanca.”

Quella mattina di settembre, giunto ormai a quasi la metà del tempo che di solito prevedevo di utilizzare per l’immersione, mi resi conto che dovevo almeno per un attimo tentare di designare, sebbene posticcio, un qualche obiettivo da prospettare per la mia battuta di caccia, ed occuparmene, tralasciando sia le immagini dei totani filosofeggianti e delle attigue pantegana in attenta adorazione, e sia le considerazioni relative alle ossessioni che mi stavano procurando le ultime vicende affettive.
Optai per stanare una murena, credo seguendo la tentazione cosparsa mellifluamente dallo stesso piffero magico che aveva accompagnato da protagonista l’inizio della mia immersione, ed effettuai un rapido controllo, sia degli agganci tra la sagola, la cintura, ed il pallone, e sia della posizione in cui era avvitato il tridente all’asta d’acciaio.
Pigiai con due dita sui baffi per agevolare l’aderenza della maschera fra la bocca e il naso.
Spinsi leggermente il tubo del boccaglio verso il punto di contatto tra la molla della pinguino ed il lato frontale della mia tempia.
Per un attimo, di sfuggita, immaginai ancora che il totano originato dalla mia fantasia stesse penzolando a mezza acqua, poco sovrastante il fondo, proprio in un preciso punto sul quale mi si era fermata l’attenzione durante una precedente immersione per avervi visto intrattenere numerosi sciami di novellame, brulicanti con movimenti sincronizzati, e ciascuno sempre nella sessa buca.
Tuttavia, subito dopo, volgendo una rapida occhiata al sacchetto per le catture che portavo agganciato al pallone di segnalazione, partendo dalla ricostruzione di come, alcuni giorni prima io avessi in parte modificato il sistema di aggancio del pallone-boa alla cintura che stringevo in vita per gravarmi dei pesi necessari ad una comoda e veloce discesa, mi arruffai nel ricordo di quando, parlando con uno dei fratelli di Gilda, abile sì nella pesca subacquea, però di una fortuna sfacciata, mi ero lamentato che la conformazione di quel fondale, altalenante, con grossi promontori quasi emergenti ed immediate cadute a picco, non solo rendesse problematica una buona visione e costringesse quindi ad immersioni prive di riferimenti, ma in alcuni casi configurasse degli ostacoli, tra il pallone stesso ed il sub, in grado di bloccarne la discesa.
La parte superiore del cavetto legato al pallone incagliava tra gli interstizi e le protuberanze degli scogli emergenti, opponendo resistenza alla immersione.
Quel mio cognato, esperto fortunato predone delle profondità marine, che aveva un suggerimento per ogni situazione, non mancò l’occasione per dimostrarmi la sua maestria mettendomi a conoscenza di un trucco, a suo dire segreto, che lui usava praticare:
-«Metti la cintura con i pesi intorno alla vita.
Giusto?
Leghi ad essa la fune del pallone boa.
Vero?
Per far sì che il pallone non s’incagli nelle fenditure degli scogli affioranti, devi legare ad un anello un peso tra i cento ed i centocinquanta grammi e farlo scorrere liberamente sulla corda tra la cintura che hai in vita ed il pallone.
Guarda ti faccio un disegno.
In questo modo hai più di un beneficio.
In primo luogo, durante il nuoto in mare aperto, se tu galleggi il pallone sarà quasi attaccato a te in quanto il gancio che sostiene il piombo, spostandosi attraverso l’anello scorrevole, affonderà gran parte della corda, impedendo al pallone di allontanarsi; in secondo luogo, se vorrai immergerti, questo stesso movimento di pesi spingerà la boa a stazionare precisamente sulla tua verticale.
Nell’uno e nell’altro caso, il sistema contribuirà finanche ad una maggiore sicurezza, per quanto riguarda eventuali tardivi avvistamenti da parte di natanti a motore.
Ma ciò che a te interessa è che la boa da segnalazione non si blocchi tra le cime degli scogli, e con il mio artifizio il risultato positivo è sicuro, perché il pallone, non essendo trascinato dalla corrente, seguirà docilmente da vicino il tuo percorso, il quale, ovviamente, non andrà in collisione con speroni emergenti.»
-«Bella idea.
Un piombo, un anello.
Semplice.»

Esauriti i pensieri intorno all’argomento piombo-anello-sagola, immediatamente, come in un rosario monotono, ripetitivo, inutile, sciocco, allucinante, altri momenti di vita antecedente, altre meditazioni, altri altari alla ragione incontrastata scompaginarono il già disordinato approccio per il controllo relativo ala corretta sistemazione delle attrezzature che mi portavo appresso nuotando, lentamente, nel profondo mare azzurro cupo steso, come un velo d’odalisca, sotto il dirupo digradante dall’antico borgo rurale di Campagnano.
Ed allora mi coinvolsi nel tentare di chiarirmi il giusto e l’ingiusto dei comportamenti che avevo posto in atto negli ultimi tempi.
Forse tentando di risalire ai motivi, se non ai moventi, della crisi che ormai opprimeva il mio rapporto con Gilda.
Una analisi in piena solitudine, tra cielo e mare, tra sole ed abisso. Da quando ero tornato in maniera definitiva sull’isola d’Ischia, lasciando via via deperire ogni precedente contatto con il mondo dei viaggi e degli incontri, non rispondevo al telefono e, peggio, neanche leggevo un libro o ascoltavo una musica che fossero prodromi di nuovi interessi culturali.
D’altra parte schifavo da sempre la televisione, non avevo mai smesso di considerare i giornali come impapocchiamenti della verità, e l’unico modo intrigante per trascorrere il tempo, oltre ad utilizzarlo nella normale amministrazione familiare, mi era parso utile scorgerlo nella ricerca di inezie complementari ai flussi delle vite che mi passavano accanto.
Da amplificare con tale parossismo da far sì che esse mi provocassero valanghe di vertigini.
Gilda non mancò di notare questi precipitii, a volte staccati dall’algido massiccio della mia ragione, in altri casi appiccicati ad una parte della mia epidermide sentimentale, quasi sempre sviluppatisi nell’apparentemente definitiva discesa di uno yo-yo, le quali tutte mi spingevano comunque verso il centro di singole attività umane, quasi che in esse fossero stipati i segreti del bello e dell’amore.
Lei seguì con cura le tracce che tali mie innocue divagazioni mentali lasciavano attraverso gesti, parole e frasi inserite nel racconto che stavo scrivendo, ed appena ne ebbe certezza, indicò con l’indice il centro della mia fronte e scandì con eccezionale chiarezza, lentamente:
-”Niente di più falso.
Nel piccolo non risiede il complesso, e niente è più complesso del bello e dell’amore.”

Mi ero certamente esaltato.
Avevo certo dilatato la tranquillità a volte grigia e passiva di un rapporto consolidato, trasferendo su di essa, pur senza volerlo, ciò nondimeno in maniera automatica ma indubbiamente con pensieri ed atteggiamenti, sfilacciati brandelli di una inarrestabile sindrome distruttiva della ipocrisia e delle colpevoli prevaricazioni.
Se io fossi il loro dio – pensavo, proponendomi un particolare del rapporto tra un dio ed i suoi uomini – m’incazzerei tremendamente per quanta irrisoria partecipazione personale pongono nella difesa della mia universalità.
Urlando nel giardino di casa, iniziai ad urlare che, al suo posto, avrei urlato per tutte le galassie:
-“Cosa discutete con quei peccatori originari delle province romane!
Così agendo vi prestate al gioco di profeti che non ho mai annunciati e che hanno ignorato il figlio mio e le mie colombe bianche, imbecilli.
Va bene… vediamo… forse… non ho detto questo… ogni religione è figlia del creatore… il mio creatore è più antico del tuo… il tuo modello è senza barba bianca… vogliamoci bene… siamo tutti nella stessa barca… nessuno deve prevaricare l’altro… una moschea a te, una basilica a me… grande rispetto reciproco per le nostre fedi… una porpora in più, un cappellino in più… un pellegrinaggio… una devozione… una statuina… un libricino… una via…un muro… una sinagoga… un altare… un muro… una cappella… una campana… un muro… un’ostia che significa inganno.
Avete raggiunto la comodità?
Poltroncine, tronetti, portantine, limusine, schiavetti, frocetti, chiavetti, chiav…
Volete altro?
Potere, ricchezza, santità, alleluia, adorazione, potenza, fetenziacce, fetenziaccissime…
Tutto in nome mio.
Restando al riparo della mia invincibilità.
Con in bocca le palline di un rosario che appartengono alla mia verità.
Per effetto di un disonesto proclama e di collettivi auto riconoscimenti d’imbecillità.
Ma io non ho mai dato questi attestati!
Né ho chiesto aiuto per propagandare il nome mio!
Neppure ho offerto difese ai cialtroni ed agli imbonitori di povere anime ingenue!
Io non impongo preghiere!
Io non ho lamenti per la mia solitudine, né patisco l’ignoranza di chi sfugge a se stesso, e poi, e poi, e poi, e poi.
È però certo senza poi e senza ma che io schifo profondamente l’ignavia dei vostri comportamenti incoerenti, finanche con la truffa sfacciata che vi rende sovrani.”

Gilda non poteva non udire, dovunque fosse, e non voleva tacere nei confronti di qualunque provocazione io producessi, quindi, lasciò che terminassi il proclama, e punse l’evidente allitterazione verso cui non ponevo remore:
-“Ciascuno è re dei sudditi che riesce a conquistare.
Ciascuno è dio dei fedeli che riesce a creare. vuoi ricrearti re, dio, suddito o fedele?
Non credo che tu lo sappia, e non lo scoprirai urlando.”

Ma io aspettavo da lei lozioni odorose, dolci linimenti, melasse e dolcezze, infusi inebrianti, vibrazioni sottocutanee, suadenti passionali serenità, il volo silenzioso di abbracci mai privi di… mai privi di tutto intero il nostro passato!
Ciò non avvenne neppure quando iniziai a scrivere un capitolo nel quale riportavo di aver fermato la mia attenzione su un profilattico usato e lasciato per terra, in una calda giornata autunnale, accanto al muro di cinta di un parcheggio confinante con un terreno incolto. … qualcuno al mio posto l’avrebbe fatto segno di considerazioni dai vaghi risvolti cannibaleschi?
Dal mio totalizzatore la risposta positiva non è data vincente. Eppure di un così fetente gesto d’inciviltà – parcheggio Cava dell’isola 14 ottobre 2006 ore 13 – per me sarebbe stato divertente parlarne con lo strafottente autore.
Egli, senza dubbio sfacciato e prepotente, incolto e superficiale, maschio ma per niente uomo, forse sarebbe rimasto disorientato se fosse stato condotto a vedere le migliaia di formiche nere freneticamente impegnate a distruggere annientare e trasportare nei loro depositi alimentari i poveri resti dei suoi spermatozoi.
Eppure, quasi certamente, egli fa sua la fede che assegna a quella schifezza – da lui lasciata in balia dei fieri predatori – i diritti inalienabili riconosciuti a beneficio delle forme vitali preposte alla riproduzione della specie umana, negli stessi termini nei quali, questa ultima, riceve gloria per essere stata plasmata personalmente dal creatore in cui lui, lurido zozzone, finge di credere.
I massimi requisiti della fertile potenza di quel porco eiaculatore, i codici del suo patrimonio genetico, assaliti da legioni di formiche nere, devastanti distruttrici dell’unico elemento di civiltà che gli era dato di possedere!
Lo sperma è spesso migliore dell’uomo”.

.“Maniacale ricerca dell’orrido”, fu il commento che Gilda lasciò a margine della pagina.
Ed allora iniziai, solo iniziai, per mia fortuna iniziai soltanto, a cercare di ricavare un nesso dal fatto che a mia sorella dopo la menopausa crebbero le unghie.
Una spuma d’onda sgocciolò nel tubo della maschera richiamandomi a riprendere il controllo della situazione in cui mi trovavo.
Quasi a fuggire da questi nuovi e vecchi invadenti ed inopportuni pensieri, effettuai di botto un profondo respiro, spinsi la testa sottacqua, ruotai il capo verso il basso, e, dando un deciso colpo di pinne, mi lasciai cadere nella profonda fenditura tra due masse rocciose.
Nel chiarore indeciso delle strisce di sole che, penetrando i circa otto metri di profondità, in una prospettiva parevano sciamare entro gruppi aghiformi tra i filari delle posidonie, mentre invece, in un angolo opposto, squarciavano il fondale trafiggendo l’incastro della falda sulla scogliera, come un fantasma di pura luce, seguendo la corrente sottomarina con un docile movimento a pendolo che non ne spostava granché la posizione, un fantastico enorme agglomerato, perfettamente mimetizzato tra le rare pietre, le variegate alghe, e gli spigoli di sabbia, giaceva come un polpo.
Un polpo?
Una piovra!
Otto metri circa sotto di me, un polpo di dimensioni mai prima affrontate sbatacchiava fra i suoi enormi tentacoli una macchia nerastra simile ad una delle rotondeggianti rocce laviche stracciate dai bordi del magma solidificato.
A meno che non si fosse trattato di un riccio gigante o di un grappolo di cozze, la macchia non mi sembrava giustificata in quel luogo.
Non ebbi in mente altre ipotesi.
Neppure che potesse trattarsi di un totano.
Le pulsazioni m’incalzavano risucchiando quanto più ossigeno possibile dai polmoni, l’adrenalina mi eccitò rendendo secchi e decisi i movimenti con i quali proseguii la discesa, gli occhi sbarrati dietro il vetro perlato della maschera molto compressa sulla faccia puntarono il centro dell’ammasso spiaccicato indifeso sul fondo, la mano destra strinse l’asta d’acciaio del tridente fino a procurarmi dolore per l’improvvida compressione, il braccio sinistro si mosse a cavare il pugnale dalla guaina legata al polpaccio.
Non ebbi un pensiero.
Che fosse un totano.
Agii come un plotone di armigeri.
In una azione simultanea, un unico sincronismo, un insieme fatto di singoli particolari, in un unico tutto, il mio corpo non mi appartenne, ma si comportò, nelle sue diverse strutture, come un gruppo formato da numerose entità, ciascuna decisamente separata da tutto il resto, ma che attuava un canovaccio a lungo studiato e provato e riprovato.
Il sincrono meccanismo di una squadra d’incursori movimentò ogni singolo muscolo di ogni azione della mia persona, anche sensoriale, tattile, visiva, preposta al controllo della fulminea immersione d’attacco che andavo attuando.
Era lì.
La bestia più grande e fascinosa che avessi mai affrontato nella vita.
Con tutti i pericoli.
Era lì.
Con tutte le insidie.
Certo non tradussi in un ragionamento logico l’immagine del cefalopode mentre si dibatteva, trafitto dall’arpione, brandendo i tentacoli alla ricerca di un aggancio con l’assalitore per trattenerlo sul fondo fino alla morte per esaurimento delle sue risorse d’aria.
Nemmeno mi dettai la prudenza di non avvicinarmi tanto da consentirgli di ferrarsi ad una qualsiasi sporgenza voluminosa, sfilacciando un tentacolo sulla mia mano che impugnava l’arma.
Neppure, neanche, nemmeno ricordai per un attimo la nube nero inchiostro che avrebbe potuto spargermi intorno, impedendo, così, che vedessi i pericoli portati dai suoi contrattacchi.
Era lì.
Con tutte le insidie.
Era lì.
Con tutta la potenza del suo mostrarsi padrone in un regno che non concedeva superflui respiri, forze e movimenti.
Un mondo senza poesia.
Un mondo che non accoglieva benevolo l’infido luccichio del mio sguardo, né il barlume del mio pugnale.
Con me veloci, le punte del tridente, meticolosamente affilate, fenderono l’acqua alternando bagliori nella discesa.
Tutte le forze del braccio teso e del corpo trascinato nell’apnea dai pesi che portavo agganciati alla cintura, furono guidati dall’incosciente volontà di una conquista che di conquista non aveva nulla.
Per la cattura più esaltante da mostrare che da possedere gelosamente, fosse anche solo nei ricordi.
Per una morte che se fosse giunta sarebbe stata solo una morte,
Era lì.
Anche io.
Non ero stato sempre da sempre ai bordi di quel promontorio, non mi ero di abitudine tuffato con tanta foga, repentinamente, verso una situazione imprevista, non avevo mai subito l’ansia per la scoperta di una chimera, né ero mai stato succube di una simile crudeltà immotivata.
Gilda diceva
.“Il tuo malvezzo è un presuntuoso orgoglio”.
In tante occasioni sarei stato tentato di spingerla a ridimensionare, utilizzando esempi concreti, un giudizio che non avendo nulla di concettuale, alla fine di ogni discussione, lei m’appiccicava sul muso come un’aringa affumicata.
Se ipotetici contenitori potessero recuperare tutti i suoni, (i quali come ogni accadimento non attraversano spazi senza lasciare traccia), ed il loro utilizzo avvenisse in special modo accanto al lume dal braccio verde e dalla calotta gialla che illumina le mie letture mentre Gilda appassisce davanti all’ultimo film giallo trasmesso dalla televisione di stato, essi risulterebbero certamente traboccanti di una monotona ripetizione, in falsetto, urlata, malinconica, sottovoce, ad occhi bassi, sferzante, delusa, un groppo in gola, una stanchezza di confronti, un presagio di distacchi…
-“Il tuo presuntuoso orgoglio”.
Non ero stato sempre da sempre ai bordi di quel promontorio, ed ugualmente non era restata sempre da sempre nella mia mente l’emozione del primo incontro con Gilda.
Paradossalmente, invece, continuavo a ricordare il temine linguistico con cui in principio esaltavo le mie individualistiche esultanze per l’avvenuta conquista del suo primo semplice gesto di affetto. In una trasformazione compiuta a seguito d’impercettibili cambiamenti, negli ultimi tempi, certo anche come corollario di continui diverbi, essa, la parola magica scaccia problemi, era ormai diventata il tormento di una goccia che rimbombi nelle orecchie, la nebbia che abbrutisca le linee orlate degli alberi, il mio compagno indesiderato, monotono, piagnone.
Ormai in me fomentavo finanche lo scherno, per uno spiacevole senso di banalità e balordaggine che mi ero convinto l’accompagnasse.
Fosse stato il contrario avrei avuta una labile speranza di attendere al confronto con il nostro passato, per tentare così di avviare tra noi una nuova forma di vicinanza più adatta ai tempi, alla società ed ai nostri anni.
Avessi continuato a sentire vivo il dolore del groppo che mi risalì dallo stomaco alla gola, lasciandomi senza fiato senza parole senza… senza tutto allorché Gilda mi gettò la prima volta le braccia al collo; fossi stato memore del graffiante percorso che una lacrima aveva solcato tra i miei occhi al contatto con la sua guancia; avessi saputo ripetere la sublime levità in cui il mio corpo depose la mia anima affinché divenisse libera di fuggire verso un bacio, un bacio e basta, allora sì, allora sì, allora sì tre volte, ora potrei affermare che il mio amore fosse diverso da tutti gli altri.
Ma forse gli amori sono veramente tutti uguali, come i cinesi. Non voglio a questo punto proseguire con i flash di Antonella che espose le labbra (o forse era Clara?) (o forse era Gilda?) (a chi?), perché ho il netto ricordo di quando mi accorsi che avevo trovato un mio equilibrio, senza averlo cercato, e quindi scrissi che esso imponeva… La rinunzia a continuare nel tentativo di costruire un senso per l’amore.
smettila di essere bufera
Su questo cielo
Di primo meriggio
Tracciato dal volo dei passeri
-di tanto è capace settembre-
Allo scopo di salvare la speranza, o se non altro almeno l’illusione, di creder che forse le storie d’amore sono tutte uguali, come i cinesi.
Miliardi d’individui dai tratti identici: stessi occhi, stessa statura, stesso modo di porgere, stesso incedere.
Eppure gestiscono, con comportamenti del tutto analoghi ai nostri, i rapporti e le individualità.
Si riconoscono.
Le storie d’amore sono tutte uguali.
Io non sono né Gino né Lelio, e Gilda non è Clara e neppure Antonella. Da Elena a Giulietta, dal Principe Azzurro a Dante, le vicende degli innamorati s’identificano, nel tema comune dell’irrinunciabile, perfino con la infinita determinazione
«Per me non conta altro» della gente comune.
Ed allora io sono Gino, divento Lelio sono… tu sei…
La passione universale ed eterna del mito Medea è identica all’irrinunciabile ostinazione che in ogni attimo rende moltitudini di persone anonime protagoniste di trombe d’aria tanto brevi, impercettibili e disattese da smuovere a stento l’atmosfera sopita delle loro famiglie, delle piccole comunità nelle quali articolano l’intimità della loro vita, ed eccezionalmente, nei casi brutali più eclatanti, divengono elementi di curiose pruderie e pettegolezzi per le cronache da fondo pagina di giornali locali.
Le storie d’amore sono tutte fotocopie nel linguaggio e nella gestualità – come i cinesi -, eppure ciascuno di noi ripete e riconosce le proprie. Io sono Clara sono te sono Antonella tu sei me e Gino e Lelio.

Così nel suo destino
così
senza battiti di ciglia
ad un velo dal suo respiro
fra le sue dita
così
nella solitudine delle nostre ansie,
io sono la viola
cercata in un bosco
io sono corda di viola
in un suono d’orchestra
io sono viola pensiero
che scuote passioni
io sono di mammole viola
la macchia, l’inchiostro,
di semi di viola appassita
profumi e magie,
io sono poeta
io sono
silenzio.

Ho detto:
-«Voglio che tu sia la mia donna»
Ha detto:
-«Voglio che tu sia la mia amante.»
Ho detto:
-«Ti amo.»
Ha detto:
-«Non chiedermi amore».
Ognuno riconosce la sua.
Per sfumature in teneri acquarelli, per contrasti di toni in
opere corpose, per forme di linee in immagini astratte e cerebrali.
Storie tenere, corpose, cerebrali, come tutta la vita mia”.

… Con Gilda.
Quella mattina di inizio settembre, prima d’immergermi nella nuova solitudine, nella desolata ricerca della mia murena, il rimbombo ossessivo dell’aggettivo che mi aveva dato sempre da sempre il senso del mio amore, mi donò un’ultima briciola di poesia:

Scriverò di te innocente
– giovane Apaches –
dalla lunga chioma di grappoli
di grappoli d’uva rossigna,
tra le fiamme dei tronchi
dei tronchi ardenti sfavillanti
una notte di cielo deserto,
deserto, nel cuore del deserto.
Penserò alla tua malinconia
– giovane Apaches –
d’attesa e di passioni con occhi memorie
memorie affastellate,
sopra i fumi dei tronchi
dei tronchi assopiti
nelle notti di cielo deserto,
deserto, come il cuore del deserto.
Amerò gli sguardi squillanti
– giovane Apaches –
per la felice follia di silenziosi sorrisi
sorrisi all’ombra di tante chimere,
dentro ai profumi dei tronchi
dei tronchi spenti dalla mia ombra
ogni notte di cielo deserto,
deserto, più del cuore del deserto.

Prima di uscire verso il mare, con in cielo il sole ancora rosato e velato come Gilda nel letto, con due stelle basse sull’orizzonte come gli occhi di Gilda dopo una notte di baldorie, lasciai il foglietto dei versi accanto al cofanetto del trucco – Gilda lo usava ogni mattina -, presi una penna di colore diverso, rossa, detti ascolto, per una volta, alla voce della ragione che m’imponeva di fare chiarezza.
Affinché Gilda sapesse.
Non solo per giustificare la mia decisione.
Andare in cerca della predatrice immobile.
Sollevare un velo sul presente.
L’ossessione della murena.
Ciò nonostante la sola libertà che seppi concedermi fu un messaggio criptico, risultato infine appannato, celato tra parole poco più che banali, scritto con penna rossa in poche righe a margine della poesia Apaches:
-”La colpa sono io:
Un bacio a nostro figlio.
Vado ad incontrare la mia bestia.
Addio:”

Certo, ho sempre da sempre avuto memoria della parola che mi riempiva la testa e la vita, la testa e la vita: Incredibile.
Un amore incredibile, un amore incredibile.
Incredibile.

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

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Bruno Mancini
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Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
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Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SECONDO

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SECONDO

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO 2

Senza aver catturato neppure una preda nonostante le numerose calate in cui mi ero impegnato durante quella ora iniziale, ancora mi distraevo fantasticando intorno al dialogo improbabile tra un totano ed una pantegana!
Il totano: -«Che tu, tracotante, sia silente, aggiunge infimo blasone alla forestiera origine da cui provieni e che ci accingiamo, con giusto impegno e faticoso esame, ad irridere o laudare, a confinare nei ghetti della vergogna oppure a sdoganare da calunniose erculee maldicenze.
Negarsi il nesso tra rimorsi e sorsi di discorsi infissi nei fossi messi tra i sassi dei troppi “io fossi”, non ritara la rara misura della tenue natura, né ritarda la sorda onda che ti conduce alla luce.
La sorella di quel mio conoscente (un pescatore subacqueo che vedo spesso in giro, un sub con grosse pinne rondine del quale odo vibrazioni mentali durante le sforzate apnee che usa fare da queste parti), venti tempi dopo la nascita, per effetto delle sue “cose” fu serrata, allegra giovinetta, tra quattro mura sette alberi e cinque gatti, e, tuttavia, nessuno ha mai venerato il monastico dolore delle sue progressive privazioni al cospetto di Apollinee forme esibite da fustolenti fustacchi.
Come faccio a non impegnare la tue deludente sapienza verso la dicotomia di una follia e di una folle: lame dai bordi affilati, innocue se divaricate su un cuscino d’appoggio, bensì taglienti quando attacchino unite nel frangere il tessuto?
Allora mi intrigo ad appiccicare le ventose dei miei sette (ne manca uno che ho perso in combattimento) tentacoli sui diversi strati di questo privato mondo sotterraneo e sottomarino, mutando colore e dimensione, mimetizzandomi.
Poi vedremo insieme come finirà… »
E poi la mia fantasia continuava spostandosi sulla figura
silenziosa del ratto… … la pantegana non capiva un tubo.
Essa, da sempre abituata agli sparagnini termini rivieraschi – fame scogli venti gatti – nascondeva l’imbarazzo di fronte all’incomprensibile magniloquente eloquio abissale, spruzzando perfide puzze ad ogni passaggio dei ghirigori che ripeteva intorno al capoccione smisurato del totano poeta.
Ad ogni giro alzava la coda un po’, di più, un po’ di più, di più di un po’, un po’ di più di un po’.
Sfiorava i vettini terminali dei suoi tentacoli appassiti mostrando, ad ogni giro, un po’ di più, di più di più il sottocoda schioppettate.
Disse il totano: -«Melliflua tenebrosa, la seduzione è un’arte degli arti abbarbicata nei rovi incastrati tra i detriti degli orti, conserta, con serti, nei cesti concerti di gesti per cupidi musicanti alati.
Vai vaneggiando per vezzeggiate vezzose villiche promiscuità! Promiscuità è il tocco di un tentacolo di totano nella pelvica passera di una patente pantegana.
Riduci i giri, risparmia i sogni, ripensa al tuo delirio di femminilità un dì concupita, ed ora in ansia per asfittici orgasmi.
Rimedia al torto dell’offesa carnale con la ragione degli istinti naturali.
Io sono il totano, se voglio… se voglio io sono Poeta.
La sorella dell’imprudente apneista dalla maschera appiccicata al volto di cui ti ho detto, a trenta tempi dalla nascita usava cospargere di miele e di nettare le rotonde bigliette dei suoi capezzolini, dai pizzi puntuti, per avvampare l’infimo piacere del trucido compagno: assatanato assassino dei viaggi in nuvoletta.
Ancora mi stupisce, procace ammasso di nefande nequizie, il vano turpiloquio che gli slabbrati ondeggiare dei tuoi chiapponi sbudellano dal mio teorema concettoso.
Vedrai, insieme, inoltre, infine, sarà tutto facile… »

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

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Poesia sporca

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

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Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
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Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
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E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO PRIMO

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO PRIMO

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO PRIMO

LA MENOPAUSA DI MIA SORELLA

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO 1

Il totano:- «Cara Pantegana vivo da tredici periodi in questo lembo di liquido abisso rilucente, ma mai prima avevo posato l’olfatto l’udito lo sguardo su neruleee rotondità foriere di simili fetidi squittii.
D’onde vieni, chi sei, perché dondoli poppe e deretano, scomposta e sguaiata, al limitar della mia terra marina?
Pria che tu risponda, sarebbe giusto che sia io a presentare le mie tavole anagrafiche, per dovere d’ospitalità e per sesso.
D’altro canto, nel giroscopico testo unico di civili atteggiamenti, anche il blasone e l’età vengono qualificati come caratteristiche da rispettare con tutte le stucchevoli forme d’ossequio che le situazioni richiedono.
Tuttavia, e solo in quanto le mie onorificenze non ricevono unanime riconoscimento al pari di quelle feudali, né godono di privilegi uguali a quelli riservati alle specie e sottospecie di politici, mi induco a posare la prima pietra della nostra conoscenza.
Cosa c’è?
Quid accidit?
Ho profferto parole insensate o… insensate sono le tue ignoranze?
Ripeto il concetto con termini d’uso plebeo ed esempi tratti dalle notizie del telegiornale, e vengo a chiederti se hai mai saputo di un vincitore del Premio Nobel che, in ragione di tale riconoscimento, abbia sistematicamente beneficiato di aerei personali o auto blu con chauffeur in livrea dai bottoni d’oro.
No, mai successo.
Eppure quel Nobel per la medicina… sì lui… ha salvato con la sua scoperta milioni di ammalati, e, forse, miliardi di futuri contaminati.
Il premio in denaro, la festa alla presenza del RE, il suo nome inciso nel libro d’oro della onorificenza, tante foto in giro per il mondo, sui giornali, per televisione… e basta.
Non farnetico dicendo che sia rimasto povero, eventualmente lo fosse stato, ma affermo che ogni successivo privilegio gli sarà stato intestato in virtù del suo lavoro e non come puro riconoscimento per un titolo certamente più prestigioso di tante patetiche onorificenze politiche e settarie.
Non mi dilungherò nel tediarti con la ricostruzione dei cavilli e delle sopraffazioni usate contro di me da masse d’incolti meridionali per giungere a farmi sprofondare in questo abisso, strumentalizzando una mia mai dimostrata mancanza di rispetto nei confronti della loro populistica deità artificiale di origine argentina – spesso ritratta in brache bianche, maglietta azzurra ed un pallone di cuoio appiccicato al piede sinistro – soprannominata El Tibe o El Cibe o qualcosa di simile.
Eppure avevo cantato i pastori dell’Ellade in guerra, i fieri naviganti fuggiti dalle troiane mura, l’inferno e il paradiso (il purgatorio mi venne meno bene), Lucia la santarella, il cinque maggio, il piccolo Lord, Cappuccetto rosso e Biancaneve.
Nessuna gratitudine sconfigge mai il danno di un’ultima minima offesa.
Il nostro apporto alla gioia, non effimera, di una emozione continuamente dettata finanche a distanza di secoli per mezzo solo di parole – a volte tradotte da un altro idioma -, e poi i nostri casti baci alla cultura, e poi l’essere o l’essere stati nei pensieri, sentimenti, amori per tutti e di nessuno, cioè tutta la linfa di me poeta, io poeta, travagliato pazzo visionario maledetto stramaledetto stramaledettissimo poeta, tutto ciò non ha retto lo scontro neppure con la stupida statica fotografia di una specie di mini guitto in mutande soprannominato El Sibe o El Bibe o qualcosa di simile.
Tu prova ad aprire il tuo sguardo oltre le comode finestre dei provincialotti inconsistenti particolari luccichii idealistici, e subito comprenderai quanto vero sia che, per ognuna di quelle inondanti apparizioni, il mio contributo poetico filosofico ne ha già, da tempo immemore, sancito la storica immortalità mediante la trasposizione artistica in epopee travagliate e sublimi.
La sorella di un mio conoscente, a dieci tempi dopo la nascita ha avuto le sue “cose” ed è diventata signorinella pallida, però nessuno ha scarnificato l’evento fino all’essenziale apogeo dell’univoco nucleo di recondite armonie bellamente stipate nell’intangibilità delle sue intime segrete sensibilità femminee.
Ciò mi consente di credere che: o non tutti gli eventi hanno per diritto di nascita uguale dignità storica, oppure è vero che anche ciascuna singola stronzata acquisisce una particolare indefessa dignità attraverso il contributo che il “caso” il “fato” il “culo” il “destino” la “sorte” appiccica, non sempre materialmente sul tempo di quelle loro non pavide apparizioni: vedremo casa accadrà… »

In un gioco senza senso, antico quanto me, nuotando, inventavo questo tipo di storie improbabili delle quali il più delle volte non avrei avuto memoria giunto a riva, e che in gran parte, pur trovandole originali e degne di attenzioni letterarie, non utilizzavo per i miei scritti.
Immaginavo?
Ero convinto che la pantegana, espulsa dalla sua comoda tana dimora della Torre di Guevara a seguito di lavori di ristrutturazione tesi, finalmente, a rendere fruibili agli umani i residui dell’antica struttura soggetta a centenarie asportazioni fraudolente, sguazzando senza arte né parte in una melma fluida di gran lunga meno appiccicosa del liquame presente nella sua familiare fognetta interrata, digiuna, ovviamente bagnata, frullata nel precipitato percorso dal cantiere allo scarico a mare, spelacchiata, con la testa dolente, sofferente di continue vertigini, la coda mozza, la pelle maculata per bozzi e piaghe, bitorzoli, tritorzoli, e di certo gonfia d’acqua salmastra penetratale nel ventre attraverso la bocca l’ano e gli altri orifizi, ascoltando il totano erudito, tacesse.
Dopo circa un’ora di variazioni, integrazioni, puntualizzazioni, precisazioni, riferite al tema principale della nuova elucubrazione natatoria avente per soggetti questi due elementi accomunati in una improbabile coppia di acquatici, mi trovai pochi metri dietro il promontorio denominato Punta Pisciazza, sotto il costone che delimita a sud-est la baia di Cartaromana.
Ero quasi giunto in vista della conca che da quel punto si apre senza percettibili soluzioni di discontinuità fino al Castello Aragonese.
L’escursione subacquea mi sembrava appena iniziata anche se avevo le dita bianchicce, spugnate, le mani mollicce, spugnate, i piedi insensibili strizzati nelle pinne tipo rondine extra-large, il naso tumefatto, spiaccicato contro il vetro indeformabile della maschera pinguino nero.
Ogni parte del mio corpo si era conformata in una condizione fisica differente, se non addirittura opposta rispetto allo stato in cui si trovava al momento dell’immersione.
Prima no, prima di scendere in acqua le mie dita, le mani, erano arse, grinzose per le lunghe ore al sole, le narici erano atrofizzate dall’afa, i piedi dolenti per gli impervi percorsi sugli scogli, e non avevo il respiro rumoroso affrettato scomposto ansante a seguito delle apnee lunghe minuti senza fine sfilacciati nell’agguato all’enorme murena che m’era apparsa – intravista – in una fessura di roccia frammista a cespugli di alghe -ondulanti – da cui era formato il fondo del promontorio di Punta della Pisciazza, in direzione della Grotta del Mago lasciata la Baia di Cartaromana.

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

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Poesia sporca

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
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Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
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Per Aurora – volume quinto – Dedica

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Per Aurora – volume quinto – Dedica

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Per Aurora – volume quinto – Dedica

Per Aurora
volume quinto

Agosto 2022
Associazione culturale
“Da Ischia L’Arte – DILA”
Bruno Mancini

Edizioni

DILA

Per Aurora volume secondo
BRUNO MANCINI
Dello stesso autore nel catalogo DILA
Poesie
Promo uno
Davanti al tempo
Agli angoli degli occhi
Segni
La Sagra del peccato
Incarto caramelle di uva passita
Non rubate la mia vita
Io fui mortale
Sasquatch
Non sono un principe
La mia vita mai vissuta
Erotismo, sì!
Tutte le poesie
Prose
“Come i cinesi”:
L’estate con la parrucca
Il Libro di Sonia
Ambiguità
Il Nodo.
“Per Aurora”:
L’Appuntamento
Vasco e Medea
Anche questa volta
La Notizia virgola – La Condanna punto
Così o come
La sesta firma
Il furto della foto
La menopausa di mia sorella
Così fu
Per Aurora – Tutti i racconti

Questo volume contiene:

La menopausa di mia sorella

Cosi fu

Seconda edizione, produzione limitata.
Ischia, Agosto 2022.

A Rosalba

Avrebbe riprodotto il mio volto ad occhi chiusi, disegnato le mie mani senza il minimo errore, riconosciuta la mia sagoma anche di profilo, anche di spalle, con la certezza di un istinto ancestrale.

Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.
“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende
che…”
Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

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CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

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CAPITOLO DECIMO

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ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

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Così fu

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CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

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E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
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Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Per Aurora volume quinto prima edizione LULU

prima edizione

Per Aurora volume quinto Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta. Dettagli del prodotto
lulu

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta.

Dettagli del prodotto
ISBN 978-1-4092-8184-9
Editore Bruno Mancini
Copyright ©2009 Bruno Mancini
Lingua Italian
Paese Italia
Data di pubblicazione 28 marzo 2009

Conto pagine 109 pagine
Formato Commerciale USA
Rilegatura Rilegatura termica

Libro a copertina morbida, 109 pagine
Viene spedito in 3–5 giorni lavorativi
Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

 

 

 

 

 

 

 

 

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

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La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana
Capitolo 1

….mi trovai pochi metri dietro il promontorio denominato Punta Pisciazza, sotto il costone che delimita a sud-est la baia di Cartaromana.
Ero quasi giunto in vista della conca che da quel punto si apre senza percettibili soluzioni di discontinuità fino al Castello Aragonese.

L’escursione subacquea mi sembrava appena iniziata anche se avevo le dita bianchicce, spugnate, le mani mollicce, spugnate, i piedi insensibili strizzati nelle pinne tipo rondine extra-large, il naso tumefatto, spiaccicato contro il vetro indeformabile della maschera “pinguino nero”.

Ogni parte del mio corpo si era conformata in una condizione fisica differente, se non addirittura opposta rispetto allo stato in cui si trovava al momento dell’immersione.

Prima no, prima di scendere in acqua le mie dita, le mani, erano arse, grinzose per le lunghe ore al sole, le narici erano atrofizzate dall’afa, i piedi dolenti per gli impervi percorsi sugli scogli, e non avevo il respiro rumoroso affrettato scomposto ansante a seguito delle apnee lunghe minuti senza fine sfilacciati nell’agguato all’enorme murena che m’era apparsa – intravista – in una fessura di roccia frammista a cespugli di alghe -ondulanti – da cui era formato il fondo del promontorio di Punta della Pisciazza, in direzione della Grotta del Mago lasciata la Baia di Cartaromana.

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

Capitolo terzo

Quasi a fuggire da questi nuovi e vecchi invadenti ed inopportuni pensieri, effettuai di botto un profondo respiro, spinsi la testa sottacqua, ruotai il capo verso il basso, e, dando un deciso colpo di pinne, mi lasciai cadere nella profonda fenditura tra due masse rocciose.

Nel chiarore indeciso delle strisce di sole che, penetrando i circa otto metri di profondità, in una prospettiva parevano sciamare entro gruppi aghiformi tra i filari delle posidonie, mentre invece, in un angolo opposto, squarciavano il fondale trafiggendo l’incastro della falda sulla scogliera, come un fantasma di pura luce, seguendo la corrente sottomarina con un docile movimento a pendolo che non ne spostava granché la posizione, un fantastico enorme agglomerato, perfettamente mimetizzato tra le rare pietre, le variegate alghe, e gli spigoli di sabbia, giaceva come un polpo.

Un polpo?
Una piovra!

Otto metri circa sotto di me, un polpo di dimensioni mai prima affrontate sbatacchiava fra i suoi enormi tentacoli una macchia nerastra simile ad una delle rotondeggianti rocce laviche stracciate dai bordi del magma solidificato.

A meno che non si fosse trattato di un riccio gigante o di un grappolo di cozze, la macchia non mi sembrava giustificata in quel luogo.
Non ebbi in mente altre ipotesi.
Neppure che potesse trattarsi di un totano.
Le pulsazioni m’incalzavano risucchiando quanto più ossigeno possibile dai polmoni, l’adrenalina mi eccitò rendendo secchi e decisi i movimenti con i quali proseguii la discesa, gli occhi sbarrati dietro il vetro perlato della maschera molto compressa sulla faccia puntarono il centro dell’ammasso spiaccicato indifeso sul fondo, la mano destra strinse l’asta d’acciaio del tridente fino a procurarmi dolore per l’improvvida compressione, il braccio sinistro si mosse a cavare il pugnale dalla guaina legata al polpaccio.

Non ebbi un pensiero.
Che fosse un totano.

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Così fu

PARTE 1

Capitolo 1

Ieri.
Soltanto ieri.
Finalmente, ho carpito dalle grinfie avide dei mercenari acquattati in ogni dove al soldo d’invadenti multinazionali, i tempi ed i modi per una voluta prigionia, ed ho serrato le porte nell’attesa di muovermi verso i luoghi delle mie origini.
Metaforicamente, praticamente, completamente.

L’assalto continuo, attraverso proposte indicanti modi d’essere adeguati agli inutili prodotti che i padroni universali del commercio e dei servizi inviano a pioggia di grappoli dai contorni impalpabili come foschia estiva di primo mattino, assume virulenze epidemiche una volta giunto a contatto con le blande aspirazioni di tranquillità e di serena assuefazione al ritmo quotidiano proprie di esistenze vissute senza sprechi e prive di inutili orpelli.

Semplici, essenziali, autonome.

Le menzogne ballerine, create ad immagine di lusinghe dai loro maghi prezzolati, saltellano allegramente ben oltre ogni perdonabile entusiasmo, frattanto che abbattono ostacoli a forma di evanescenti birilli ed ideologie di carta straccia, male, o per niente, supportate da nervose manovre atte a ripristinare condivisibili pretese di libertà individuali.

Senza ritrosie, in ragione della forza amorale ricevuta dalle loro strutture interdipendenti, superano, con vigliacca disinvoltura gli specifici spessori delle singole vite incontrate lungo le vie che percorrono.

Ne deriva una complessa organizzazione della socialità immemore dei suoi stessi scopi istitutivi.

Mentre srotola piacevolezze esistenziali frammiste ad essenziali bisogni cognitivi ed impellenti necessità comunicative, essa, la falsa dignità universale – quella degli uomini invisibili oltre le cortine delle organizzazioni finanziarie, quella degli innominabili padroni del vizio e della schiavitù dei deboli, quella dei tizi in doppio petto sproloquianti in pubblico senza cuori brucianti all’interno del torace per giustizia ed uguaglianza, quella di tutti gli uomini animali da sé stessi assurti a mortificanti auto glorificazioni, quella dei nuovi Dei, meschini e blasfemi – essa la falsa dignità universale accaparra, tutto intero, senza pentimenti, l’indivisibile legame tra le vite ed i singoli uomini.

Non ero convinto che fosse sufficiente, ma limitare il raggio di azione dei miei giorni futuri nel perimetro, orto compreso, di una vecchia casa colonica, mi era apparso il sistema più agevole per tentare la metempsicosi spirituale che intendevo costruire tra il mio passato ed il mio futuro…
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parigi mirna & chris 281

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

Così fu

PARTE 1

Capitolo 11

Prima di partire da Roma avevo prenotato l’alloggio presso un albergo di costruzione recente situato sullo sperone sporgente al confine tra la baia di Cartaromana ed il promontorio di Punta San Pancrazio.

Una scelta non casuale ma voluta per il desiderio di una notte serena, di silenzio assoluto infranto unicamente dalla risacca, dagli sbuffi dello scirocco lungo le pendici della collina ricoperta da ginestre (ginestra, fiore amato dalla mia donna) in piena fioritura, e da qualche sporadico monotono rimbalzare dei richiami che forse i grilli, forse le prime cicale, forse i gatti in amore, forse gli uccelli notturni, forse i roditori, avrebbero utilizzato per riconoscersi e difendersi.

Aspettando che mi fosse servita la cena al tavolo sulla terrazza a strapiombo sul mare, ho chiesto un gin tonic ed un sacchetto di anacardi, mi sono seduto nell’angolo meno illuminato, ho allungato le gambe poggiando i piedi tra i ghirigori formanti il disegno della ringhiera a pelo del baratro, ho socchiuso gli occhi, mi sono chiesto fino a che punto sarei stato in grado di ricordare, ricostruire, collegare, ed ho così iniziato il conto alla rovescia che avrebbe mutato il senso della mia vita portandomi, mediante una consapevole decisione, adesso a scriverne, ed in seguito ad indirizzarmi verso conclusioni difficili, ma ancora una volta coerenti con i sentimenti ai quali non ho mai inteso rinunziare…

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
emmegiischia@gmail.com

DILA

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