Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO FINALE

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Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO FINALE

La sesta firma CAPITOLO FINALE

CAPITOLO FINALE

Ora tutti, tranne i malvagi schifosi personaggi di un mio precedente racconto intitolato “La Vendetta virgola, la Condanna punto”:
Giuseppe, l’amante di Giuseppe, la sorella di Giuseppe, il marito avvocato della sorella di Giuseppe, i loro due figli maschi e la unica femmina, il figlio avuto da Giuseppe con l’amante, Luigi, Salvatore, Scisciò, Francesco d’Avellino, Violetta, la moglie del futuro ministro, Cecilia, un graduato dei carabinieri, un segretario di tribunale, il fratello di un consigliere comunale campano, con la moglie il figlio e la figlia, un funzionario di polizia, un parente, due parenti, tre parenti, un ufficiale sanitario, un addetto alle dogane, un proprietario di bar, un non ricordo bene, ah sì, un armatore falso spiluccato dalle alici nel mar baltico, un cane, un cavallaro, trentamila pipistrelli e tutte le stramaledette zanzare dell’isola d’Ischia, «così o come» avviene nelle più belle favole, continuiamo, tutti, a vivere felici e contenti.

24/08/2005, ore 03.15

Fine

Dedicato a mia madre, dopo tanto tempo.

 

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica – Brevi commenti amichevoli

Only you

Only you

Così o come

Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così o come

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

Parte Terza

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO FINALE

Only you 2

Only you 2

La sesta firma

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO FINALE

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora – volume terzo – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume terzo di Bruno Mancini

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Per Aurora – volume terzo – Vetrina LULU

Per Aurora volume terzo di Bruno Mancini

seconda edizione

ID 29y6wr

ISBN 9781471074813


Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7481-3
Versione 2 | ID 29y6wr
Creato: 26 ago 2022
Modificato: 27 ago 2022
Libro, 135 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm), Standard Bianco e nero, 60# Bianco, Libro a copertina morbida, Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Informazioni sul copyright
Revisiona le informazioni sul copyright
Titolo
PER AURORA volume terzo
Sottotitolo
Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori
Bruno Mancini
ISBN
978-1-4710-7481-3
Marchio editoriale
Lulu.com
Edizione
Edizione arricchita
Dichiarazione dettagliata di edizione ( / 255)

Licenza
Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright
Bruno Mancini
Anno del copyright
2022


Descrizione
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»

Tabella dei contenuti
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.

“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume terzo

seconda edizione

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
emmegiischia@gmail.com

 

Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO SESTO

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Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO SESTO

La sesta firma CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SESTO

Lunedì 12 Agosto, ore dodici, alla civile formalità giuridica del nostro matrimonio mancavano solo cinque firme.

Meno cinque.

L’Assessore Delegato, doppio petto filo di scozia blu notte spagnola, cravatta parigina fucsia con animazioni americanizzate, camicia celeste cielo di primavera inoltrata lungo il fiume Danubio, calzini bianchi dei pastori greci di capre macedoni, scarpe con tacchi cinesi lacci coreani pelli di vacche australiane ed argentine e fodere d’antichi ricami persiani, egli, L’Assessore Delegato, baffo di limitate pretese ma oggetto d’innumerevoli caricature, democristiano, ex democristiano, felice sorridente, convinto assertore dei principi fondamentali ed inalienabili del matrimonio, del divorzio, della natura, della caccia e della pesca, delle zanzare e delle zoccole (topi, ratti, pantegane) giganti e ben nutrite, delle etnie marocchine e padane, della civiltà napoletana e padana, dell’Italia e della padania, della patria unita, della patria in pezzi regionali, della patria in pezzettini provinciali, della sua personalizzata minuscola patria comunale, egli, il Celebrante la Cerimonia Civile, terminato un breve discorsetto ufficiale (bella coppia, sono certo sarà un matrimonio modell… e simili cazzate), introdusse il rito laico delle firme sul registro.
Apponendovi la propria (elaborata in una schifezza d’immenso ghirigoro geroglifico) con ostentata teatralità, non creò disagio all’istantanea apparizione del ricordo nel quale mi rivedevo il pomeriggio dell’incontro alle giostre con Gilda.
-«Ho impegnato un secolo per decidermi a fare il primo passo. Senza ribellarmi ho lasciato che la nostra amicizia giovanile, il nostro affetto, la reciproca irriducibile attrazione che ci dominava, scadessero in un algido rapporto tra il “Dottò” e la padrona dell’American bar.

Ho visto il tuo ed il mio amore, come su quella giostra, girare girare girare fino a perdere il senso dell’equilibrio, e non ho porto loro una mano a sostegno.
Devo recuperare non solo il tempo perduto, ma soprattutto il coraggio di esistere.
Sposiamoci domani.
Tu sai quanto ti amo.»
Così le avevo detto nel luna park aspettando che Isidoro terminasse un giro sul trenino.
-«Mamma mamma, è bellissimo, ci sono gli indiani e Manitù.»
-«Vuoi fare un altro giro?
Vai.
Dai il gettone all’uomo con la divisa rossa.
Vai.»
Gilda non mi aveva chiesto dove ci saremmo sposati o dove avremmo vissuto, né chi sarebbero stati i testimoni, nessuna domanda relativa al ristorante, al viaggio di nozze, alle foto, agli invitati, bomboniere, addobbi floreali, limousine, paggi paggetti, velo velette, musica cori coretti anelli… catene. Nulla.
Gilda aveva iniziato dicendo:
-«Va bene…», poi aveva atteso che il pupo fosse lontano, ed allora, guardandomi negli occhi:
-«E lui?»
-«Sarà mio figlio.»

Meno quattro.

Egli, l’Assessore Delegato, il baffo comunale, lui, sempre pronto ad ascoltare le esigenze di tutti i grandi elettori, i bisogni, le attese, le speranze, le critiche, le malefatte, le elargizioni, le risse, gli imbrogli, dei concittadini democristiani ed ex democristiani, per poi offrire a ciascuno una soluzione, un compromesso, un contributo, una presenza, una delibera, una provvidenziale dimenticanza, e pronto anche a mostrare attenzione per la stessa serie di… (che per incredibile bontà non ripeto) segnalata, alla sua attenta autorità, da parte di popolani non amati in quanto infedeli (sia ex democristiani sia non ex democristiani, comunque appartenenti ad una diversa corrente politica).
In questo caso non specifico “per offrire ecc.” poiché a costoro più che l’orecchio non metteva a disposizione altro, ascoltava sopportava e basta.
L’Assessore Delegato, il baffo comunale, lui, il Consigliere a vita, l’uditore finto semi sordo, lesto ad intervenire in tutte le occasioni di felici incontri (ignobili mostre pseudo artistiche e funerali di criminali compresi), porse la penna stilografica delle cerimonie ufficiali al testimone maschio.
L’inconfondibile figura di un mio amico la strinse fra tre dita della mano destra.
Egli, che non aveva bevuto un goccio da svariati minuti, mi rivolse un fugace sguardo d’intesa e poi subito, con la solerzia di chi vuole ritornare a situazioni meno imbarazzanti, segnò il registro scrivendo per esteso ed a chiare lettere con caratteri stampatello, soltanto il proprio nome “PETRUS”.
In quei gesti asciutti e decisi, rividi l’uguale complicità della sua accorata partecipazione nel giorno in cui, deciso a compiere il grande passo, avevo bussato all’ingresso che lui custodiva, ed essi mi parvero suggerire d’avviare la riproduzione mentale di quel nostro ultimo incontro:
-«Signor Bruno, finalmente, e tanto che non ci vediamo.
Posso offrire una birra?
Prego entrate.
Super popolare ghiacciata?»
-«Grazie Petrus, la tua accoglienza è sempre emozionante. Come stai?
Bevi anche tu con me?
Sono venuto senza avvisare.
C’è Aurora?»
-«Come potrebbe mancare, la Signora c’è sempre.
Giorno e notte, estate ed inverno, primavera, autunno, anni bisestili e giorni di eclissi compresi.
Dall’era antidiluviana alla futura apocalisse, ogni ora, minuto, istante, per tutti, bestiole comprese.
La chiamo?»
-«Facciamo prima due chiacchiere.
Ti va?»
-«Certo, accomodiamoci nel salone di ricevimento.»
Mi ero sentito perfettamente a mio agio durante il breve tragitto che avevamo effettuato per raggiungere la sala ove avevamo avuto modo di intrattenerci in molte delle precedenti occasioni.
In essa, il lampadario a cinquanta bracci, soffiato a Murano nei primi anni del dopo guerra mescolando sabbia e petrolio, troneggiava ancora, aprendo la porta, riflesso in uno specchio, irregolare, ambrato.
Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale.
Sul lato destro entrando, al centro di rustiche grotte dei desideri, sbalzava, identica al mio ricordo, la chitarra rossa d’Elvis con nel bordo basso, annodati tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna), trecento quasi invisibili ciondoli: ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.
Ero di nuovo lì dove, il giorno prima del mio ultimo ritorno ad Ischia, mi erano stati consegnati magnifici doni per aver scoperto un errore gestionale che avrebbe potuto compromettere la dignità della mia Amica.
Petrus, mostrandomi il luogo dove era ubicata la pedana musicale, tra il rotondo divano nero contornato da cuscini lucidi di pelle di pantera e le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, disse:
-«Mancano i nostri due amici.
Gli inseparabili cari compagni.
Uniti nella naturalezza di un tenero sentimento, più innamorati di mai, hanno sempre creato atmosfere musicali difficili da dimenticare.
Lui, con l’immancabile ginestra al bavero, e lei con l’identico inseparabile ventaglio giapponese a stecche di bambù che agitava nel giorno del loro ricongiungimento.
I loro posti li abbiamo lasciati vacanti, formulando in tal modo l’augurante presagio di un imminente ritorno.
Per evitare sconvenienti sensazioni di vuoto abbiamo mascherato l’angolo, come vedi, mediante la parete semitrasparente composta da un filare di fiori di ginestre frammisti a canne di bambù.»
-«Ecco le birre.»
-«Giuseppe vai alla porta.
Non ci sono per nessuno fino a nuovo ordine.
Lo so, la guerra in Iraq può fare vittime eccellenti.
Falle aspettare, o buttale giù direttamente.
Ti ricordo che il nostro amico ha ricevuto da questa Corte Suprema il titolo e gli onori di:
GRANDE SUPER GUIDA DELLE PRATERIE TRA L’ESSERE E IL NULLA.

Poi, su mia proposta il Consiglio Direttivo ha avuto il piacere di nominarlo:
CITTADINO ONORARIO CON LE CHIAVI DEL REGNO.

Nella disponibilità che le conferisce il suo ruolo preminente, lei personalmente, la Signora, Donna Guascona, per lui amica Aurora, ha decretato di assegnare al suo DNA:
UN BONUS, CIOÈ UN SUPPLEMENTO DI VITALITÀ.

Infine, per la richiesta unanime di tutto il nostro popolo virtuoso, gli è stato affidato un eccezionale cimelio:
UNA BACCHETTA DA DIRETTORE D’ORCHESTRA.

Con essa, Arturo Toscanini diresse per la prima volta a New York il 13 aprile 1913 la Nona Sinfonia di Beethoven.
Nel suo resoconto sulla rappresentazione, il “New York Herald” mise il titolo: “Il Signor Toscanini, la Bacchetta Magica della Sinfonia”.
Chiaro?
Non dimenticarlo mai.
Che aspettino gli altri, o buttali giù.
Chiaro Pepé?»

-«È proprio di questo che vorrei parlarti, delle mie onorificenze.
Ho deciso di restituirle…»
-«Benedettooooo… prego, ti prego Benedetto, due birre super popolari iper ghiacciate senza bicchieri, le beviamo con il collo nella bocca, ah ah ah, lui è un gran mattacchione, trova sempre il modo di mettermi allegria, scherza anche sui nostri doni.
Sì… vuole rinunziare!
Ditemi signor Bruno, ho capito bene?
È una burla.»
-«Petrus mi sono innamorato.»
-«Non è il caso di continuare a prendermi in giro, signor Bruno, le birre passano in un sorso.
Ah ah ah.»
-«Di una donna.»
-«È meno grave, una sola è sopportabile.
Ah ah ah.
Benedetto, pazienza, per carità Benedetto, fai portare due casse di birre dal frigorifero polare, una per me, misero miscredente, e l’altra per lui, scherzoso innamorato.
Ah ah ah.»
-«Di Gilda.»
-«Gilda?
Gilda la rossa d’Ischia?»
-«Sì, lei.»
-«NO!!!!!!»
-«Perché tanto stupore?
È la prima volta che ti vedo sputare un goccio di birra.
Improvvisamente hai cambiato completamente colorito.
Un secondo fa eri allegro ora sembri terrorizzato.
Gilda, sì Gilda la rossa di Via Colonna, ci vogliamo sposare. Che c’è di così strano ed allarmante?
Sei sbiancato.
Per lei voglio restituire i titoli e le onorificenze che mi avete elargito con tanta affettuosa magnanimità.

Non mi sembra giusto beneficiare da solo di privilegi ineguagliabili.
Lei ed io saremo un binomio indivisibile.
Né mio né suo: nostro.
Né io né lei: noi.
Come potrei custodire in segreto la bacchetta magica, il bonus di vitalità, la cittadinanza onoraria, ed il titolo di Grande Super ecc, avendo per obiettivo un rapporto paritetico e senza remore?
Voglio tornare umano tra gli umani.
Voglio, capisci?
Il mio attuale problema è come dirlo ad Aurora, senza offenderla.
Tutte le donne sono gelose e permalose.
Aurora potrebbe pensare che io voglia staccarmi dal nostro splendido sentimento amichevole, ma non è assolutamente vero.
Lei potrebbe credere che i suoi doni siano per me poca cosa, ma neanche ciò è vero.
Aurora potrebbe condannare la mia presunzione, considerarmi rimbecillito, credermi pazzo.
Ma non è vero.
Niente di tutto questo è vero.
Sono solamente innamorato e voglio vivere con la mia futura sposa, Gilda, nella identica dimensione che è consentita a lei. XYZTNOI.
Coordinate spaziali XYZ, temporale T, personali NOI.
Ho bisogno di te, Petrus.
Insieme, potremo convincere Aurora del mio immutato e profondo sentimento nei suoi confronti, e dell’amore assoluto che provo per Gilda.
Mi aiuti?»
-«No, no, non voglio ascoltare.
Gilda… è… la figlia adottiva di Aurora.»
-«La… di… Aurora?
Che sai, parla.»

-«Potessero scorticarmi beduini padani, stritolarmi gesuiti padani, bollirmi a fuoco lento pigmei padani, non dirò altro! Non altro.
Niente.»
-«Aiutami, non ti ho mentito, è tutto vero.
Anche Gilda mi ha sempre amato.
Voglio sia mia per sempre.
Ti ho portato in dono un liquore preparato con limoni che ho colto con lei sull’ultimo albero del bosco d’argento.»
-«Limoncello?»
-«Lo avevi già bevuto?»
-«Per Bacco!
Del bosco d’argento o della cava delle ginestre?»
-«Del giardino di Titina.»
-«Proviamolo.»
-«Che gusto ha?
Come lo trovi?»
-«Semplicemente squisito.»
-«Allora?»
-«Parliamone.»
-«Gilda è la figlioccia di Aurora?»
-«Non lo sapevate?
Siete pazzo, signor Bruno, ma io vi aiuto lo stesso.
Bruno, non sei folle, sei follia.»

Meno tre.

Allora venne avanti il secondo testimone, la mia amica Aurora.
Voi due lettori, stupiti, potreste pensare “Aurora testimone? Ma non è la madre della sposa?
E come, la madre fa la testimone?
Assurdo.”
Questo ragionamento ha qualche elemento di coerenza ma è viziato da due imprecisioni.
Una vostra, in quanto non ho detto che Aurora fosse la madre, bensì la madre adottiva di Gilda, e l’altra mia perché non vi ho ancora spiegato che, bevuto il boccione di limoncello e scolate le due casse di birre, Petrus ed io ci eravamo trovati semi brilli e semi ubriachi, con tanta amicizia in più, con maggiore conoscenza reciproca, ma senza un brandello di piano organizzativo da utilizzare per convincere Aurora a non ostacolare il mio matrimonio, e ad accettare la restituzione dei privilegi che mi aveva concesso.
Quando, da studente, leggevo un trattato di storia, il più delle volte ero portato a credere che toccasse a noi creare le occasioni che ci avrebbero cambiato la vita.
Nostra e di altri.
Vedi Hitler con Danzica.
Al contrario, durante lunghe immersioni subacquee, mi capitava di comprendere che anche un diverso sistema (pacifico oppure ostile poco importa), potrebbe elaborare occasioni che muteranno la nostra vita.
Un ramo di corallo incaglia la sagola e blocca la risalita all’ultimo respiro.
Uno sbiadito ricordo di quanto accadde in seguito alla disponibilità d’aiuto che Petrus mi offrì, già in partenza offuscato dalla dose massiccia d’alcool tracannato, tuttora non mi consente di comprendere chi sia stato il promotore della benevolenza con cui Aurora prese atto delle mie intenzioni, giustificandole ed operando per esaudirle.
Tuttavia è indiscutibile il fatto che ad un certo punto dell’affettuoso, riservato, intimo, confidenziale colloquio, con il ciondolante Petrus che mi sedeva accanto, io, pur essendo mezzo brillo e mezzo ubriaco, mezzo felice e mezzo incredulo, udii Aurora venirmi…
Udii?
Vidi.
Vidi Aurora dirmi…
Vidi?
Udii.
Sentii Aurora toccarmi…
Vidi Aurora venirmi incontro, sentii Aurora toccarmi la fronte, udii Aurora dire a me solo:
-«Dimentica.
Tu non sei venuto a cercarmi.
Tu non hai parlato con Petrus.
Tu non hai formulato richieste.
Tu non sai di me e di Gilda.
Dimentica.
Ricorda.
Noi saremo al fianco tuo e di Gilda.
Noi siamo vostri amici.
Noi siamo voi stessi.
Gilda non mi conosce.
Ricorda.
Aspettaci.
Celebreremo da testimoni le vostre nozze.
Io e Petrus firmeremo il registro.
Alle 12 del 12 agosto.
Aspettaci.
Aspettaci.
Petrus, regalagli un fiore di ginestra da porre sull’abito della sposa.»

Per questa ragione, quindi, la mia amica Aurora venne avanti come secondo testimone.
Mosse un passo.
Prese dalle mani dell’Assessore Delegato-Notaio la penna dai decori dorati.
Girò la testa.
Segnò il registro con un tratto per nulla lineare, incomprensibile.
Un saliscendi asimmetrico con grossi punti ai vertici superiori, che a me parve essere la riproduzione dell’accordo in Mi bemolle maggiore del secondo movimento, sinfonia n°3, opera 55, «Eroica», di Ludwig van Beethoven.
E mentre, con note dolenti, rimbalzavano nella mia mente, sia la malinconica angosciante tenera esecuzione dell’insuperabile Toscanini, sia la mai dimenticata descrizione che ne aveva offerto Samuel Chotzinoff “… il centro psicologico e spirituale di tutta la composizione e richiama, con i suoi episodi ora accorati ora grandiosi e superbi di sonorità, le vicende della vita di un grande uomo, dell’eroe nel senso più lato, che affronta e domina gli eventi del fato per arrendersi solo all’inevitabilità della morte.”, la mia amica Donna Guascona, restituendo all’Assessore Delegato – Notaio la stilografica dal nero inchiostro, lasciò uscire dalla bocca a contatto con il mio orecchio parole che speravo e temevo:
-«Ora devi essere forte».
Chiusi un attimo gli occhi per dissimulare la commozione, così o come avevo fatto il pomeriggio luminoso e silenzioso in cui, mentre m’incamminavo in compagnia della mia buia solitudine, senza valigia e senza cappotto, verso il battello che mi avrebbe trasportato definitivamente nel mondo sconosciuto della mia libertà, Gilda, nella sfacciata bellezza della sua fresca fioritura, rossa, non so se inseguendo una micina o per venirmi incontro era ruzzolata con essa tra le mie gambe chiedendomi:
-«Dove vai?»
-«Parto.»
-«Portami con te.»
Io solo so quanto avrei voluto farlo!
-«Non posso, aspettami.»
Lei solo sa quanto doloroso silenzio ammantò la sua attesa.
Un tassista di passaggio pigiando il clacson come si usa al corteo di una sposa, rideva rideva rideva suonava suonava suonava diceva diceva diceva:
-«Acchiappala acchiappalo acchiappala acchiappalo.»

Meno due.

L’entrata rumoreggiante di un uomo trafelato, ansimante, eccitato, mi apparve dapprima nella improvvisa espressione di stupore timbrata sulla faccia baffuta dell’Assessore Delegato – Notaio, poi nel brusio attento e composto dei quattro dipendenti comunali che assistevano all’evento, infine nell’urlo, era un urlo, nessuno meglio di me conosce quel tipo d’urlo, l’urlo di una canzone disperata “Oi ma’ tu che me fatt e che me ditto, nu chiuovo dinto o core me nchiuvato”, il disperato urlo della belva ferita, King Kong sul grattacielo, la ciociara, il volo a piombo verticale di un innocente l’undici settembre, l’urlo di Ignazio:

-«GILDA NON FARLO.»

Aurora sottovoce mi ingiunse di non voltarmi, ed io ubbidii, cercò lo sguardo di Petrus per dirgli:
-«Ora», e tanto bastò a che immediatamente il mio XYZT, tre dimensioni spaziali ed una temporale, venisse troncato in due.
L’ordine della mia amica Signora, già programmato e detto in silenzio, provocò l’effetto di lasciarmi in quello stesso spazio, ma di trasferirmi in un tempo diverso.
Gli elementi delle mie coordinate XYZTIO (ics ipsilon zeta tau io) si trovarono a cavallo, in equilibrio, tra un luogo ed un’ora, tra due fenomenologie differenti, tra un prima e un dove, tra me stesso ed i miei ricordi.
Posizionati nella sfera di un punto dal quale il mio IO, in bilico su un se stesso, non riusciva a decifrare chi fossi, dove e da quando.
Correvo, credevo di correre, credevo di ricordare di correre, correvo ricordando di credere.
Correvo in bicicletta, correvo in bicicletta per una salita, per una salita sterrata, per una sterrata buia, immerso nella buia notte senza luna, nella notte buia senza luna, correvo in bicicletta per una salita sterrata nella notte senza luna successiva, credevo di correre in bicicletta per una salita sterrata nella notte senza luna successiva a… al giorno in cui Gilda, bambina, inseguita dalla madre era finita a rotolare tra le mie gambe e le ruote della bicicletta che mi era stata regalata per la promozione scolastica.
Al Corso Colonna, davanti al bar Italia.
Sudavo, sbuffavo, pedalavo, ma le curve in salita non finivano.
Al termine di un tornante, un filare di vigne a malapena riconoscibili sul bordo della strada priva di parapetto, mi aveva dato l’impressione, solo l’impressione, di un falsopiano finalmente scollinante.
Niente.
Riprendevo a pigiare sui pedali nel buio quasi assoluto, mettendo in continua discussione, oltre che il tratto da seguire per superare più agevolmente l’ennesima fatica imposta dalla curva a gomito, anche ed in ogni istante, la mia non programmata sete di avventura.
A soli tredici anni, su per un colle di settecento metri, lungo una via mai percorsa prima, inforcando una bicicletta dal cambio Campagnoli a tre soli rapporti e costruita con i pesanti materiali dell’epoca, in una notte senza luna, lungo un percorso disseminato da insidiosi burroni e continue innumerevoli curve cieche e svolte allucinanti, non mi rendevo conto di stare vivendo le mie prime quattro ore di assoluta solitudine.
Sdoppiato tra tempo e spazio, tra la brace e la padella, forse montavo in sella alla mia infanzia.

Gilda la rossa, non più irrequieto scugnizzo ma ora padrona assoluta di un intuito animalesco, non ebbe bisogno di voltarsi per comprendere.
Volle impedirmi d’essere partecipe, complice, corresponsabile della sua rivincita, e stingendomi il polso con la mano ancora priva dell’anello nuziale, alzò l’altra, a palmo aperto oltre la criniera dei capelli rossi sparsi sugli omeri (Mosè nel passaggio del Mar Rosso, la carica dei cinquecento, ALT, lo giuro), oltre il mantello della chioma adagiata sulle spalle in boccoli rossi, a palmo aperto senza voltarsi:

-«SPARISCI BASTARDO»

fece rimbombare nella semivuota sala consiliare.

-«SPARISCI BASTARDO».

Due volte in una successione che non consentiva equivoche interpretazioni.

-«SPARISCI BASTARDO».

Gilda per tre volte, senza voltarsi, con la voce profonda di mio padre, come una condanna definitiva, ripeté la frase della sua vittoria, quindi piegò verso il basso il busto con i movimenti armonici di mia sorella (un canneto nella bufera, la planata di un aquilone, curve fattezze di Renoir, quando sarò vecchio col bastone, l’omaggio finale al pubblico del San Carlo).
Spavalda, mostrò tra le dita affusolate di mia madre, la stilografica delle grandi occasioni dall’inchiostro nero nero nero con i decori dorati ed il pennino luccicante (la lancia di Don Chisciotte, un palo di telegrafo, la statua della libertà).
Decisa, sicura, veloce, zac, zac, zac, nel silenzio tombale della sala comunale, come nell’atto finale di una corrida, toreador ed animale, zac zac zac crivellò il registro con il suo nome.

Meno uno.

La donna guascona lasciò trascorrere l’attimo necessario a che l’eco spersonalizzata di quella condanna estrema giungesse nel buio della mia salita tra curve di strade sconnesse costeggianti infidi burroni, ed allo sguardo immobile di Petrus impose:
-«Continua».
Io finii, con la memoria, in miseri vicoli malfamati al centro di un inestricabile labirinto diramato giusto alcuni passi dietro vetrine, dal lusso sfacciato, esposte sulla strada famosa per i monumentali palazzi della nobile società napoletana.
Tra folla di gente in lotta per la sopravvivenza, ancora maggiormente mortificata dal contatto fisico con i vicini spregiudicati venditori di beni essenziali a tassi d’usura.
Ero dove la luce del sole non si presentava per non avvilire lo scuro delle anime vaganti, dove i giorni non contavano perché sempre tutti identici ed inutili, dove i bambini ed i vecchi non conoscevano diritti, dove la vita di un forestiero valeva un quinto del suo orologio, dove le sigarette le droghe le puttane, dove, allora, quando… quando mi sembrava di incontrare Gilda adolescente, spilungona e scorbutica, che rompeva il naso ai maschi se la trattavano da femminuccia, salvo poi correre verso le mie gambe che reggevano la grossa moto regalo dell’ultimo esame universitario.
«Firma il registro» mi disse Aurora, contemporaneamente mostrando a tutti un ventaglio di seta giapponese, aperto, dai colori sgargianti, che la donna dell’appuntamento, la dolce Edith, l’anima della fantasia da sempre per me inseparabile compagna in tutte le vicende letterarie, aveva inteso consegnarle quale pegno d’adesione alla mia scelta.
Simile alla sua, certamente difficile.
Entrambe stupende per quanto di eterno, infine, avevano meritato nell’assoggettare ad un caduco amore terreno una immortalità esautorante qualsiasi sentimento.
Era quello stesso ventaglio modellato a forma di conchiglia che lei, la dolce Edith, la donna dalle mani ambrate, aveva agitato in semicerchi minacciosi voltando e voltando il busto eretto nelle lame del vestito nel giorno, per lei decisivo, del suo tenero “Appuntamento” con l’uomo dallo smoking bianco senza sfumature e dal fiore di ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) all’occhiello del bavero.
Non ebbi alcun dubbio nel comprendere la forza del sentimento che la cara Edith mi manifestava.
Congiunte dal lucente tessuto orientale, le stecche di bambù erano imperniate, nella parte inferiore, tramite un particolarissimo anello d’oro bianco con pietra di rubino.
Inconfondibile, esso era stato l’inseparabile gioiello dell’uomo dall’impeccabile smoking bianco senza sfumature e nessuno avrebbe mai potuto costringerlo a separarsene.
Era evidente che lui aveva deciso di privarsene da solo, lui, Il professore Edoardo, lui, lo spietato cervello del tormento stilistico che aveva scavate le mie idee.
Non ebbi alcun dubbio nel comprendere il valore inestimabile del dono che mi offriva.
Aurora chiuse il ventaglio, lo roteò di mezzo giro e lo tenne in bilico sulla falangina dell’indice puntato verso di me.
Bene in vista.
Al centro della luce proveniente dalla finestra aperta.
Osservai per qualche attimo il suo volto impassibile e poi di nuovo rivolsi la mia attenzione al ventaglio fermo a mezz’aria, immobile, bene in vista, al centro della luce proveniente dalla finestra aperta.
Simile al braccio di una bilancia posato sul cuneo formato dal dito di Aurora, non dondolava.
Conoscevo troppo bene la Donna Guascona per non comprendere la doppia allegoria del messaggio che mi stava inviando.
Non ebbi alcun dubbio.
La fantasmagorica illusione ottica decorata sulla scintillante seta orientale, in perfetto equilibrio con la preziosa durezza della gemma di corindone rosso!
Nel mondo dell’arte, la fantasia ed il tormento stilistico, pur distinti e disuguali, si sarebbero equivalsi se fossero stati sorretti dal gancio della verità!
Nel mondo dell’esistenza, l’anima ed il cervello non avrebbero dovuto sopraffarsi per non precipitare entrambi!
L’indice della mia amica Aurora era rivolto verso di me, né per minaccia, né per richiamo, ma come segno di scelta elettiva.
Ritornai lentamente con lo sguardo negli occhi di Aurora, affinché vedesse le mie palpebre chiudersi tre volte.
Avvicinai il registro ad un bordo del cavalletto di sostegno, e con grande sforzo di concentrazione riuscii ad imprimere un sottile tratto accanto alle altre firme.
Poco più comprensibile del breve tracciato di un elettroencefalogramma cardiogramma quasi piatto, il mio nome, la quinta firma, avrebbe dovuto concludere il rito.
Fu come estrarre la madreperla a quindici metri di profondità in un’apnea al sorso finale.

Zero.

Il gesto ipnotico con il quale calai la testa per apporre la firma, e la lieve torsione del busto verso il lato del leggio, furono sufficienti a che l’ombra che m’incombeva alle spalle, il sofferto spirito di assurde avventure, il mostro ingordo e allucinato, fantasma tra le grotte inesplorate della mia coscienza, Ignazio, notasse le dita affusolate e l’inconfondibile armonia dei gesti che compivo.
La “Signora” disse:
-«Ora».
Petrus chiuse gli occhi.

Ignazio, si spostò di un passo per scrutare le pieghe nascoste del mio viso.
Ci eravamo lasciati da così poco tempo che a lui, mio fratello gemello, bastardo avventuriero, furono sufficienti minimi particolari per riconoscermi.
La Donna Guascona infilò l’anello nuziale al dito della sposa.
Petrus compì lo stesso rituale all’anulare della mia mano.
Ignazio, il tormento di ognuno dei giorni e di tutte le notti che avevo trascorso insonni, l’umanizzazione della mia fantasia, scelse da solo la sua parte nella storia che andava a compimento.
Giunse a nostro contatto, avvicinandosi con i movimenti armonici di mia sorella, estrasse dalla tasca l’arma preferita per le sue battaglie (poteva sembrare una maxi penna stilografica), e con la voce profonda di mio padre scandì:
-«Manca un sigillo al vostro amore perché io possa andare a guardare il bene che non ho fatto.»
Con le dita affusolate di mia madre…

Bum
… si fece esplodere la cartuccia…
Bum
… tra gli occhi…
Bum
Uno schizzo rosso sangue…
Bum
… sparso sull’album delle nostre nozze…
Bum
… fu la sesta firma, la sua, posta ad avallare il sogno della mia vita.

Non firma, sigillo, aveva detto.

Ignazio, l’immortalità dei miei pensieri, liberò per noi, con il clamore che si conviene ad un amante tradito, la tanto attesa felicità terrena.
La sua sesta firma, il definitivo sigillo, fu l’indelebile riconoscimento della mia nuova coscienza.
Mi girai, guardai il suo corpo a terra con gli occhi vitrei in una maschera rossa, finsi di non riconoscermi, lo riconobbi, non piansi per non svelare il segreto del mio passato.
Strinsi in un abbraccio, antico e nuovo, Gilda, l’iconografia di tutto quanto avevo ed avrei amato, per sussurrarle, con il solo pensiero:
-«Il tormento è finito.
Per me la vita ricomincia.
La nostra unione sarà perfetta.
Io per te sarò migliore».
Isidoro, il pupo giovane e adulto, non più frutto di un incontro sbagliato e prematuro, ci corse incontro con i movimenti armonici di mia sorella, mi strinse le gambe con le dita affusolate di mia madre, chiedendomi, tra pianto e sorriso, e con la voce profonda di mio padre:

-«Papà, papà mio, vorrai bene un poco anche a me?»

 

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica – Brevi commenti amichevoli

Only you

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Così o come

Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

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CAPITOLO QUARTO

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CAPITOLO FINALE

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Poesia sporca

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Per Aurora – volume terzo – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume terzo di Bruno Mancini

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Per Aurora – volume terzo – Vetrina LULU

Per Aurora volume terzo di Bruno Mancini

seconda edizione

ID 29y6wr

ISBN 9781471074813


Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7481-3
Versione 2 | ID 29y6wr
Creato: 26 ago 2022
Modificato: 27 ago 2022
Libro, 135 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm), Standard Bianco e nero, 60# Bianco, Libro a copertina morbida, Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Informazioni sul copyright
Revisiona le informazioni sul copyright
Titolo
PER AURORA volume terzo
Sottotitolo
Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori
Bruno Mancini
ISBN
978-1-4710-7481-3
Marchio editoriale
Lulu.com
Edizione
Edizione arricchita
Dichiarazione dettagliata di edizione ( / 255)

Licenza
Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright
Bruno Mancini
Anno del copyright
2022


Descrizione
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»

Tabella dei contenuti
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.

“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume terzo

seconda edizione

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
emmegiischia@gmail.com

 

Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO QUINTO

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Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO QUINTO

La sesta firma CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO QUINTO

Da quel pomeriggio di sole arrogante e di buia solitudine, nel quale neanche il pudico esplicito invito di Gilda aveva ottenuto l’effetto di distogliere il mio proposito di partenza, non ero ritornato sull’isola se non in occasione di qualche festività, e non avevo mai cercato di incontrarla.
Neppure un contatto.
Nessuna corrispondenza, né una telefonata.
Perché farlo?
L’incontro dei nostri sentimenti avrebbe avuto necessità di ulteriore maturazione, d’altre vicende, per manifestare completamente l’attrazione che ci possedeva da sempre.
Un anno… due anni… il tempo indispensabile a che la fanciulla diventasse una donna.
Ma io ero partito troppo presto.
Lasciando incustodito l’unico fiore del mio giardino.
Tuttavia, ogni volta che gli strani incroci dei flussi migratori avevano condotto un qualche nostalgico compaesano dalle mie parti, dopo i convenevoli e le informazioni sulle condizioni delle nostre famiglie, immancabilmente, egli, chiunque fosse e per qualsiasi motivo si trovasse in viaggio, mi parlava di lei.
Voci diverse in tempi a volte molto distanti tra loro, accontentando la mia inesauribile malcelata tristezza, riuscivano a farmi rivivere un lampo dell’essenzialità che avevo abbandonato con crudele autolesionismo.
Gilda la rossa.
-«Ha aperto un bar, il Ruk Ruk, frigge panzarotti ed arancini a bizzeffe.»
-«Ha fatto i soldi, si è comprata una casa con giardino e terrazzo, sai, nel vicolo della fontana.»
-«La notte di San Lorenzo si sono appostati quasi tutti i suoi pretendenti, una cinquantina, sul marciapiede di fronte al Ruk Ruk per farle sapere che se avessero visto cadere una stella, lei sarebbe stato il desiderio espresso.
Senza scorno.»
-«È sempre più focosa e appassionata, ma continua a non volere nessuno.»
-«Guglielmo ‘O Stuorto le ha detto che tu hai rinnovato il contratto di lavoro per altri cinque anni, si è messa a piangere e non si è vista in giro per tre giorni.»
-«Ha cambiato tutto il locale.
Ti spiegai com’era?
Adesso, come si dice, è un locale moderno.
Niente più panzarotti, sta aperto solo di notte, ha tolte le reti e le nasse dalle pareti, tutto nuovo, lucido, americano, la musica, i liquori, le sedie alte intorno al banco, le luci nascoste sotto i tavoli e dentro le bottiglie.
C’è scritto: “GILDA, AMERICAN BAR.”»
-«Non si vede più a fare la spesa, a sculettare sul corso, a scegliere nei negozi una tovaglia da aggiungere al corredo. Esce la sera e ritorna all’alba.
Da casa al locale e tutto il contrario.»
-«È venuto uno di un altro paese, parlava italiano spagnolo, si muoveva come una femmina, aveva una voce incupita e le mani più lunghe del normale, è entrato una sera da Gilda, e il domani in piazza comprava i fiori per lei.»
-«Gilda ha saputo che ti avevo incontrato e mi ha chiesto se era vero che avevi firmato per altri cinque anni.
Che le dovevo dire?
Le ho risposto: “È vero”.
Mi ha detto “Vieni a bere una birra al nostro addio.”
Che significava?
Tu lo sai?»
-«Quel mezzo straniero le ronza intorno senza tregua.
Si vanta di aver combattuto in Viet Nam.
Mostra spesso a tutti una ferita, secondo lui provocatagli dalle schegge di una mina.»
-«Ha la barba su tutta la faccia, si vede solo il naso e la fronte. A me pare drogato.»

-«Rosina ha detto che Carmela ha detto che lei (Gilda) ha detto a lui (lo straniero) che lui le pareva una faccia conosciuta: “I tuoi occhi li ho già visti, la tua voce la conosco, ti muovi come… “ non ha specificato il nome, ma lei, Rosina, crede che Gilda stesse pensando a te.»
-«L’ha messa con la pancia, sì, come si dice, l’ha incinta, e appena l’ha saputo è sparito, squagliato.
Nessuno ne ha più saputo niente… mi spiace per lei, ma è un grande stronzo, fa schifo.
Nemmeno un indirizzo ha lasciato.
Un numero di telefono, nulla.
Svanito come al tocco di una bacchetta magica.»
-«Gilda lo chiama “Il Bastardo”.»
-«Il pupo è biondo, si chiama Isidoro.»

Molto probabilmente loro, gli emigranti erranti, al ritorno sull’isola compivano uguale servizio informativo per i miei familiari, i miei amici, e soprattutto per lei.
Non riuscivo ad immaginare quali novità carpissero nei fugaci incontri che ci concedevamo, né come le modellassero per renderle interessanti, ma certo ne facevano assiduo argomento lungo tutte le noiose giornate degli inverni ischitani trascorse al circolo sportivo giocando a maniglia:
-«Quando al Dottò gli ho confidato che è nato Isidoro, mi ha stretto il polso, fissato negli occhi e “Portami una foto.
Non dirlo a nessuno.
Ti prego” così ha detto “Ti prego”.
Gliela porto.
Me l’ha fatto giurare su mammà.»

In quegli anni di testarda determinazione, pur prestando scarsa attenzione alla cura della mia anima, compivo enormi sforzi tesi ad impedire che decelerassero gli intervalli delle pause di lavoro.
Ne avevo bisogno.
Esse erano necessarie a rendere accettabili le tenui ragioni in virtù delle quali riuscivo a non ribellarmi contro la serie di eventi, certamente per me spiacevoli, ma che nondimeno, se solo l’avessi voluto, sarei stato in grado di impedire anche con una semplice telefonata, un messaggio, una cartolina.
Fossi partito un anno dopo, il costo del mio dolore sarebbe stato il premio della mia attesa.
Soprattutto.
Il premio del suo dolore, la gioia della sua scelta.
Soprattutto.
Fossi partito un anno dopo, saremmo stati uniti e nostro figlio si sarebbe chiamato…

Giunse.

La telefonata con la quale Gilda accettava l’invito che le avevo scritto sul biglietto lasciato la sera prima alla cassa del bar, mi sembrò più un atto di cortesia che foriera di felici aspettative:
-«Disturbo?
Sono Gilda.
Vado a prendere il pupo all’asilo, poi potremmo incontrarci alle giostre.
Alle cinque all’angolo della posta, va bene?»
-«Alle… Gilda… sì, sì va bene, benissimo…»
Tu tu tu tu
La meraviglia per la rapidità con la quale mi aveva contattato, lo stupore per la docilità del suo seguire il mio desiderio senza porre domande, la scelta di andare in un luogo affollato dando adito a pettegolezzi, tutto ciò ed altro ancora, furono motivi che mi convinsero a credere che Gilda non aveva capito la ragione vera del mio invito.
Avvaloravo l’ipotesi che lei non aveva potuto comprendere le mie intenzioni in quanto non ero stato sufficientemente esplicito.
Esplicito?
Ammiccante.
“Il Dottò vuole passare un po’ di tempo in giro prima di tornare nel castello della sua libertà.”, forse aveva pensato così.
“Se il Dottò avesse una intenzione segreta non avrebbe scritto un biglietto, né tanto meno lo avrebbe consegnato aperto alla cassiera, dandole l’opportunità di leggerlo.”
“Uno che cerca un’amicizia più intima con una donna, non le chiede di uscire con il bambino.”
“Sarà in partenza per altri mille anni e vuole rinverdire ricordi passati.”
Aveva ragione.
Tre, quattro, mille ragioni.
Decenni di raziocinanti eccessi, avevano inaridito finanche ogni mio elementare presupposto di comunicabilità. Bravo!
Avevo speso gran parte della vita nella peggiore maniera.
Solo.
Solo, da solo.
Solo, da solo, senza essere solo.
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato. Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì.
Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»

 

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ISBN 9781471074813


Bruno Mancini
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Creato: 26 ago 2022
Modificato: 27 ago 2022
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Libro stampato: A5 (148 x 210 mm), Standard Bianco e nero, 60# Bianco, Libro a copertina morbida, Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

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Titolo
PER AURORA volume terzo
Sottotitolo
Alla ricerca di belle storie d’amore
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Bruno Mancini
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978-1-4710-7481-3
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Edizione arricchita
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2022


Descrizione
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
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“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
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Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO QUARTO

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Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO QUARTO

La sesta firma CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUARTO

Le donne delle mie terre sono come le mie terre: arse e rigogliose, luccicanti discrete ed ammalianti, cangianti, vulcaniche, abbandonate sfruttate maltrattate vilipese, affascinanti nonostante tutto.
Le più belle del mondo per me che le vivo, fantastiche per i fortunati che riescono a raggiungerne le riservate essenze. Tante volte mi ero invaghito delle une e delle altre!
Fin da ragazzo, durante ogni ritorno sull’isola, gustavo le metamorfosi, sia del caos cittadino in antichi equilibri pastorali, sia dei luminescenti palazzacci rapidamente mutati in scintillanti alberi stagliati tra un sole al tramonto e l’ombra di un ruvido promontorio.
Allo stesso modo, nei piacevoli abbandoni che permeavano i diversi percorsi d’avvicinamento alla mia isola, inserisco anche una lenta dissolvenza dell’incessante lamentoso miscuglio di suoni artificiali metropolitani.
Gli gnomi custodi degli antichi tesori naturali, e le gelose vestali addette alle tradizioni patriarcali, insieme abbarbicati sulle mie terre, lasciavano fluire, a poco a poco, bucolici chiarori ad incontaminati segnali acustici di ben definite presenze (pur se prodotti dai martelli e scalpelli vibranti fra le braccia indolenzite di baldi muratori), dai quali, l’attenzione con cui percorrevo le varie tappe che caratterizzavano i miei ritorni, distillava un fascinoso nettare di nostalgia.
Giungere una sera, una notte, da mille chilometri nel porto della mia infanzia era sempre stato uno scoppio d’amore per la mia attesa priva di lusinghe.
D’amore è troppo?
Va bene, allora, d’amore!
Ad ogni ripartenza, dopo una breve o lunga permanenza, quando ormai la contrada i boschi e le marine già mi avevano riconsegnato il dono di trasformarsi nella mia seconda pelle, allora ogni volta, senza alcuna eccezione, mille volte, le ricordo tutte, poggiavo il piede sul battello con la triste certezza di amare una Maria Luisina Teresa
Giuseppina… Gilda.
Gilda.
In un pomeriggio di luglio di tanti anni fa mi girava intorno, rincorsa dalla balia con in mano un piatto di polpettine, una bambina mingherlina e indisponente.
Gilda.
Non voleva mangiare, voleva mangiare alle sue condizioni, voleva mangiare ma sapeva che se avesse fatto meno moine non sarebbe stata inseguita, coccolata adulata.
Il giorno della mia promozione scolastica al ginnasio, avevo tredici anni, Gilda finì a rotolare veloce tra le ruote della bicicletta (che per quella occasione avevo ricevuto in regalo) ed i miei piedi, che a mala pena toccavano terra con la punta. Ruzzolammo entrambi per terra.
Al Corso Colonna, davanti al bar Italia.
La balia mi ordinò, quasi un presagio:
-«Acchiappala.»
Crescendo, gli anni di differenza tra me e lei divennero meno vistosi, ma i percorsi delle nostre scelte si divaricarono in direzioni quasi mai congiunte.
Spilungona e scorbutica, da adolescente le prendeva e le dava senza piangere.
Come un vero maschiaccio rompeva il naso ai bulletti se la trattavano da femminuccia, salvo poi correre annaspando, una sera d’aprile, verso le mie gambe che reggevano la grossa moto avuta in regalo per l’ultimo esame universitario.
Il ragazzetto di turno, quasi un presagio, le urlò:
-«Acchiappalo, perché se parte rimani sola.»

Alcuni anni dopo, pur essendo consapevole di aver programmato una lunga, forse lunghissima lontananza, in me non vi era stata superbia decidendo di lasciare gli amici ed i luoghi cari senza voltarmi.

In quella occasione non fu assente dal caos del mio mondo interiore, né il forte dispiacere di uscire dal palcoscenico delle spavalde passioni giovanili, né la consapevole testardaggine di rifiutare che mio padre continuasse a credersi padrone della mia vita.
L’aveva fatto per un quarto di secolo, doveva bastargli.
Nel pomeriggio luminoso e silenzioso in cui, senza valigia e senza cappotto, m’incamminai verso il battello che mi avrebbe trasportato oltre il muro prigione dell’isolamento marino, sulla così detta terraferma, quel giorno, era il tre settembre di un anno bisestile, la mia partenza non mi apparteneva come una fuga superba, ma come il risultato della indomabile spinta di un dolore.
Gilda, nella sfacciata bellezza della sua fresca fioritura, rossa, accoccolata ad accarezzare una micina spelacchiata sulle scale di una banca, vedendomi camminare da solo e desiderando che le giungessi accanto, fece un cenno d’invito ed appoggiò la mano sul gradino, mostrando il posto al suo fianco dove avrei potuto sedere.
Tanto bastò alla gatta per scappare nella mia direzione.
Prima la bestiola e poi lei, non so se per inseguirla o per venirmi incontro di corsa, scivolarono rotolando tra le mie gambe.
Quasi fosse stato un presagio, la vicina chiesa sbatacchiò tutte le campane, la nave all’ormeggio fischiò con tutti i fumaioli, l’allarme antifurto sconquassò le vetrate dell’istituto di credito, mentre un tassista di passaggio pigiando il clacson come si usa al corteo di una sposa, rideva rideva rideva suonava suonava suonava diceva diceva diceva:
-«Acchiappala acchiappalo acchiappala acchiappalo.»

 

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Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
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Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
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“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
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“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume terzo

seconda edizione

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
emmegiischia@gmail.com

 

Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO TERZO

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Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO TERZO

La sesta firma CAPITOLO TERZO

CAPITOLO TERZO

Troncai di botto elucubrazioni e sotto insiemi di pensieri, ansiti interiori per timorosi accumuli d’indecenti indecisioni e contrapposte mature certezze mai esaminate con ompiutezza, virtuose virtù precipitate in una quotidianità brutalmente anonima e…uscii.
Uscii.
Non mi mossi in cerca di avventure.
Non avevo deciso di costruire la notte più bella della mia esistenza. Ai miei passi mancava l’intenzione di reiterare assalti a Ciccioline con poche pretese ed illimitate dedizioni. Né tanto meno, la cadenza monotona dell’andatura mi spingeva verso l’alcova di qualche indimenticabile gheiscia trasferita nella mia isola dalle fantasticherie, finanche eccessive e perverse ma giammai sguaiate, disseminate tra le balere notturne nell’arrendevole Budapest degli anni ottanta. Le notti senza stelle delle mie peregrinazioni epicuree!
Neppure volevo mortificare i teneri boccioli, o forse solo appendici irrilevanti, che piccoli corpi anonimi offrivano entro bettole, di facili identificazioni per le insegne con gli ideogrammi del lontano oriente, affogate nei fumi e nella coca.
Ne avrei avuto buon motivo, considerando gli onori che il giorno prima mi aveva generosamente elargito la mia cara amica Aurora, la donna guascona, la “Signora”.
Oltre tutto, percepivo ancora, incalzante, scandito in un ticchettio mentale, ogni singolo minuto che aveva caratterizzato la fase finale di quell’avvincente incredibile avventura, iniziata, quasi per caso, dalla improvvisa ed inaspettata telefonata con la quale Aurora mi aveva comunicato di essere stato “convocato”.
Quei momenti mi apparivano ancora scandire le ansie, per tutti i densi fardelli di domande senza risposte e di desideri irrealizzabili, che mi avevano oppresso durante il conto alla rovescia iniziato da meno quindici alla presenza d’Ignazio.

Cosa sono quindici minuti per risolvere un passaggio dalla vita alla morte?
Sono pochi?
Sono molti?
Sono sufficienti?
A chi affidarsi nel quarto d’ora che un cieco destino ci conceda prima di traghettare la nostra mente in un sito ignoto?
Ai maghi?
Ai demiurghi?
Agli amici?
Nell’incalzante ossessione delle lancette, per novecento secondi, novecento battiti senza pause.
Nella successione, tic tac, in altre occasioni ritenuta finanche monotona, ridicola.
Quali risorse attivare per trasformare l’origine del battito assassino degli ultimi minuti, in ordigno auto distruggente? Soldi?
Potere?
Impegno?
Uscii per cercare una spiegazione alla improvvisa, inusuale, sensazione di solitudine.
Piano piano, passo dopo passi, lemme lemme, lemme lemme, passo dopo passi, piano piano, mi ritrovai appoggiato al banco rivestito con formica azzurra del bar in Via Colonna, davanti al quale, poche ore prima, avevo imparato dalla bella Gilda che non tutte le birre si possono bere in un sorso solo.
Lei non c’era.
Non era tardi.
Le dieci di sera ad Ischia potrebbero essere paragonate alle ore antecedenti l’alba per Milano.
Non la vidi o non c’era?
Alla cassa una ragazzona squintalata.
Troppi gelati?
Poco sport?
Spaghetti a gogo?
Disfunzione Epomeidea?
Su uno sgabello giallo (tre piedi di ferro verniciato a fuoco, un cerchio di plastica rossa, lo stemma di una marca di gelati multinazionali super popolari come la mia birra), un bimbo biondo con boccoli sciolti fino alle spalle, dondolava le gambe, guardando la TV e succhiando un ghiacciolo.
Lo conoscevo.
L’uomo al tavolo d’angolo, con la sigaretta mai spenta bruciacchiata nei baffi e tra le dita, era noto a tutti.
Tre quarti degli indigeni, ed un terzo dei villeggianti, avevano almeno sentito parlare del Principe Innocente.
Lei non c’era o non la vedevo.
Accostandomi con finta disattenzione alla porta semichiusa che introduceva al locale “Privato” (un mini ambiente adattato ad ufficio, spogliatoio, deposito, officina), vi detti una sbirciata.
Lei non c’era.
Al banco bar, Gianni serviva da bere e folleggiava da solo…
E lei, Gilda?
Non lo sapevo, forse non lo sapevo, credo che forse non sapevo di essere lì per lei.
Ero lì per lei e non lo sapevo, penso che io non sapessi di essere lì per lei, credo ecc.
Gilda.
Tornai verso casa con una nuova euforia, poco consona sia al mancato incontro con l’esuberante vitalità della rossa Gilda, sia alla robusta delusione di non aver neppure tentato una soluzione per il quesito che mi aveva turbato all’uscita di Geltrude dalla stanza.
Una serata nottata no, negativa, eppure non deprimente.
Era una specie d’infantile beatitudine, un compiacimento.
Una serata – nottata quasi goliardica, da filone scolastico.
Mai successo da decenni.
Vi aggiungeva un pizzico di fisica piacevolezza anche il forte vento di ponente, che s’insinuava tra le barche cariche di nasse pronte a prendere il mare.
Non era la solita brezza che rinfresca, un attimo prima dell’alba, le notti delle afose estati ischitane, no, non era una brezza passeggera.
Come una giovanile compagna d’avventure, chiacchierona, l’aria, fluendo, mi soffiava la sua vitalità nel naso tra gli occhi nella bocca e sulla pelle.
La salsedine portata dal vento, quasi riempiva le rughe lasciate scoperte sul mio viso dal taglio della barba – barbona – barbaccia che fino a pochi giorni prima infoltiva grigiastra.
Il profumo delle praterie di posidonie, nastriformi ripari per gli scorfani e le mormore durante gl’inseguimenti subacquei che avevo concluso quasi sempre senza prede nell’ultima estate trascorsa ad Ischia, ad ogni più forte refolo dell’incipiente buriana – Don Chisciotte contro i mulini -, si accaniva contro i malefici aromi di sigari e sigarette inzuppati nei peli e nelle cartilagini del mio naso nasone nasaccio.
Soffiava forte, non era una brezza, il vento di ponente, a raffiche dolorose per gli occhi che trattenevo aperti, ed intanto umettava, con una soffusa vaporosità, le mie labbra socchiuse, quasi in un bacio.
Nell’abbraccio malizioso di una prima volta.
Avevo preferito ritirarmi passando sulle passerelle di legno a ridosso degli scogli scuriti dalla luna al tramonto oltre la collina, piuttosto che opprimere maggiormente, con un percorso più usuale, la delusione di non aver tolto neppure un grammo al dilemma del mio sentirmi solo.
Tutti i più anziani pescatori conservavano, in precisi ricordi, le stravaganze giovanili delle mie sortite notturne.
Iniziando dai modi con i quali, di solito, avevo cercato fisicamente i contatti con la natura, fino alle domande che ponevo.
Anch’esse, dal loro punto di vista, erano sempre state considerate ben strane e strampalate.
-«È bravo, ma è un po’ matto» dicevano di me parlando tra loro.
-«L’amante l’ha lasciato per un marocchino indiano.
Io l’ho visto sul pontile, aveva i capelli come quelli dei film, lisci azzeccati e neri, non scuri, neri.
Lui era stato fuori per lavoro, lo sai com’è, viaggia, scrive, legge, cambia albergo.»
-«Non ha mai avuto amanti, che dici.»
-«Che ne sai tu, tutte balle…»
-«Mi chiamo Totonno ‘O Saragone perché so tutto di te di lui come dei saraghi e delle spigole.»
-«Non ci credo, è sempre stato sballato.»
-«Da piccolo me lo ricordo in bicicletta fare gare con la carrozza della buonanima di Bastiano.
Che ti credi che non lo conosco?
Non ha mai avuto un’amante.
Forse era una segretaria.»
-«Tutti lo sappiamo.
Ne aveva tante.»
-«È stato sempre così.
Bravo.
Bravo.
Brav’uomo.
Buongiorno, buonasera, buonanotte, buono tutto, ma non si è mai sporcato le mani a spingere una barca.
Lui dice: “Buongiorno, vuoi una sigaretta?
A chi appartieni? Quanti figli hai?”
Non capisce che le barche non funzionano con le parole.
Ci vuole sudore e fatica.
E mo’ sta peggio, chi sa perché.»
-«Cirù, Ciruzzo O Schifo, tu e Totonno non avete capito nu’ cazzo.
Non siete informati.
Non devo chiamarmi più Emilio Tressette E Maniglia se non è vero che sta così per quello che iss ha scoperto ora che è tornato dall’ultimo viaggio.
L’avevano chiamato apposta, loro dicono “convocato”.
La sapete la nipote di Nicola Sindacato?
Parlava con l’amante di Nicola Sindacato, Rosita Cascettella, guardava le persiane chiuse del Dotto’ e diceva piano piano: “È figlio della colpa.
Sicuro.
Ho sentito che ascoltava… parlavano zitto zitto… con uno mai visto che però gli somigliava, e che gli diceva: tuo padre non è lui, tua madre è lei, noi siamo fratelli.
Gli ha detto proprio così, io stavo dietro la porta, noi siamo fratelli.
Quando due sono fratelli si conoscono, è vero Rosita?
Se non si conoscono è perché non si sanno.
O no?
E sono figli di puttana”.
La nipote di Nicola così ha detto, proprio così: figli di puttana.»
-«Forza, basta chiacchiere, vuttamm ‘e mane.
A una voce.
Ohhh vai.
Ohhh vai.
Ohhh issa.
Ohhh issa.
Metti uno scanno.
Vuttamme vuttamme.
Ohhh vai.»

I notturni lavoratori del fondo marino non si scandalizzarono più di tanto, quando notarono che mi ero steso a riva con scarpe e cravatta, mezzo dentro e mezzo fuori della risacca.
Le pratiche faticose della loro quotidianità non lasciavano balenare il flusso di emozioni che mi spingevano in quell’atteggiamento irrazionale e palesemente sconveniente.
Docile, m’immergevo tra i bisbigli della sabbia rotolante sulla sabbia e della spuma spruzzata sulla spuma, con la ragione offuscata dall’incontrollabile seducente rapimento di scrivere la prima poesia per Gilda.
Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda. Mentre la risacca inzuppava gli indumenti che indossavo dalla mattina, e sussurrava tra i pensieri di una passione tanto antica quanto trascurata, procurandomi la sensazione di essere avvinghiato da un doppio gelido intruso, di colpo, l’inquietante dubbio di aver osato troppo mi fece barcollare e scivolare nel mare, fino alla gola.
Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda, quando ormai avevo già osato troppo!
Infatti, uscendo dal bar, la lunga malinconia cui avevo costretto, da sempre, la mia passione per la rossa inquilina di tutti i miei sogni, si era procurato un varco utile a lasciarle un biglietto.
Avevo lasciato per lei un biglietto alla cassa: “Quando potrò fare una passeggiata, cenare, andare alle giostre, al mare, con te e il tuo bimbo?
Sarà bello.
Promesso.
Telefonami, 081081081.”

 

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica – Brevi commenti amichevoli

Only you

Only you

Così o come

Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così o come

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

Parte Terza

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO FINALE

Only you 2

Only you 2

La sesta firma

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO FINALE

Poesia sporca

Poesia sporca

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Per Aurora – volume terzo – Vetrina LULU

Per Aurora volume terzo di Bruno Mancini

seconda edizione

ID 29y6wr

ISBN 9781471074813


Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7481-3
Versione 2 | ID 29y6wr
Creato: 26 ago 2022
Modificato: 27 ago 2022
Libro, 135 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm), Standard Bianco e nero, 60# Bianco, Libro a copertina morbida, Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Informazioni sul copyright
Revisiona le informazioni sul copyright
Titolo
PER AURORA volume terzo
Sottotitolo
Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori
Bruno Mancini
ISBN
978-1-4710-7481-3
Marchio editoriale
Lulu.com
Edizione
Edizione arricchita
Dichiarazione dettagliata di edizione ( / 255)

Licenza
Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright
Bruno Mancini
Anno del copyright
2022


Descrizione
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»

Tabella dei contenuti
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.

“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume terzo

seconda edizione

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
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