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Relitto marino a Capo Rizzuto
Relitto marino
Il “Relitto della campana” è quello che la Soprintendenza Nazionale Patrimonio Culturale Subacqueo guidata da Barbara Davidde e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio diretta da Fabrizio Sudano stanno indagando nelle acque di Capo Rizzuto.
Coinvolti anche l’Area Marina Protetta di Capo Rizzuto, il Centro Regionale Strategia Marina dell’Arpa Calabria e il Nucleo Carabinieri Subacquei di Messina.
Fabrizio Sudano: «Nel Maggio del 2019 alcuni subacquei locali – Francesco Megna, Simone Megna, Luca De Rosa e Franco Megna – rinvennero alcuni cannoni nei pressi di Capo Rizzuto e ne denunciarono la scoperta alle autorità. Dopo un primo sopralluogo, le due Soprintendenze hanno deciso di avviare, nell’ottica della tutela, alcune indagini subacquee le cui attività scientifiche sono state dirette dagli archeologi subacquei Salvatore Medaglia e Paola Caruso appartenenti ai due istituti del Ministero della Cultura».
Barbara Davidde «Sono stati censiti 9 cannoni sparsi caoticamente in un’area di bassifondi rocciosi. Si tratta di pezzi d’artiglieria in ghisa di dimensioni e calibri differenti adagiati su un fondale compreso tra 6 e 10 metri di profondità. Intorno alle bocche da fuoco ad avancarica sono state scoperte anche due enormi ancore in ferro, la più grande della quale è lunga circa due metri».
Supporto dei sommozzatori dei Carabinieri guidati dal Comandante Domenico De Giorgio.
Ritrovata una campana di bronzo in uno stato di conservazione giudicato, tutto sommato, buono, il manufatto presenta varie incrostazioni marine ed è caratterizzato da alcune decorazioni in rilievo.
Salvatore Medaglia, della Soprintendenza per il Patrimonio Subacqueo «Tra le attrezzature di bordo la campana aveva certamente un ruolo importante, dal valore, se vogliamo, simbolico. Appesa sul castello al tempo della marineria a vela, scandiva lo scorrere del tempo e avvertiva l’equipaggio dell’avvicendarsi delle varie attività giornaliere. Essa fungeva anche come segnalatore acustico, ad esempio in caso di nebbia o per un pericolo immediato. Non di rado la campana recava l’anno di fusione e talvolta il marchio dell’artigiano che l’aveva realizzata. A tali elementi potevano ulteriormente aggiungersi il nome della nave e l’emblema della marina o lo stemma dello stato sotto la cui bandiera navigava. Ecco perché è cosi importante per noi ricercatori nell’ottica di voler dare un’identità al relitto».
I cannoni in ghisa fanno parte di un tipo di artiglieria che andò progressivamente ad affiancare e poi lentamente a sostituire l’armamento navale in bronzo nel corso del XVI secolo. Sin dalla metà del XVII secolo le bocche da fuoco in ghisa divennero l’armamento principale delle navi in quanto avevano un costo di produzione molto inferiore.
Paola Caruso «Queste attività di ricerca siano basilari per la conoscenza storica dell’intera area. Le ricorrenti segnalazioni dimostrano, inoltre, la sensibilità degli abitanti del luogo per l’archeologia e la consapevolezza relativamente all’importanza della salvaguardia del patrimonio sommerso».
L’area marina di Capo Rizzuto è già nota agli archeologi.
In queste acque ci sono tracce di altri naufragi tra cui quelle del piroscafo Bengala della flotta della Navigazione Generale Italiana che, varato a Sunderland nel 1872, colò a picco nel 1889 causando la morte di due membri dell’equipaggio.
Ci sono poi altri due giacimenti archeologici legati a naufragi, inquadrabili tra XVII e XVIII secolo, che sono posizionati a non molta distanza dal relitto della campana. Il primo di essi è un bastimento che forse iniziò il suo viaggio a Narbonne e che trasportava un variegato carico litico composto da marmi provenienti dalle cave di Caunes Minervois in Francia (altrimenti conosciuto come rosso mischio di Francia), da Portovenere (marmo nero) e da Carrara; l’altro, adagiato su un fondale di circa 8 metri, ha restituito altri cannoni, anche questi in ghisa.
Il motivo per cui tali relitti giacciono concentrati in queste acque – e ad essi sono da aggiungersi altre testimonianze sporadiche di età romana e altomedioevale – è presumibilmente dovuta alla presenza di alcune secche che, almeno sino alla fine del Settecento, erano semi-affioranti.
Molti portolani dell’età moderna, nella fattispecie datati tra il XV e il XVIII secolo, ricordano la pericolosità di queste secche e numerosi documenti d’archivio conservano memoria dei naufragi avvenuti tra XVI e XIX secolo in questo tratto di mare.
Alle insidie dei banchi rocciosi, si aggiungeva la piaga della pirateria, prevalentemente barbaresca, che fu molto virulenta lungo lo Jonio calabrese e di cui vi è ampia traccia nella documentazione storica.
Non è un caso che il più famoso pirata ottomano, ‛Ulūǵ ‛Alī “il rinnegato”, convenzionalmente chiamato Uccialì e al secolo Giovan Dionigi Galeni, era nativo proprio di queste contrade e che, rapito dai pirati di Barbarossa, si convertì e fece una straordinaria carriera nell’amministrazione ottomana.
«È infatti auspicabile – afferma la Davidde – che alle attività di tutela della Soprintendenza Nazionale, la quale lavora raccordandosi con le soprintendenze ABAP del Ministero della Cultura, si affianchi una capillare attività di divulgazione e promozione del patrimonio archeologico subacqueo. Una missione, questa, che passa anche attraverso nuove forme di musealizzazione dei giacimenti subacquei la cui fruizione, anche con l’ausilio dei nuovi ritrovati tecnologici, può divenire un elemento di crescita in un Paese come il nostro che si trova ad avere oltre 8000 km di coste e un patrimonio culturale sommerso ingente».