Il Nodo – Dalla Raccolta “Come i cinesi” – Parte prima

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Il Nodo – Dalla Raccolta “Come i cinesi” – Parte prima

Il Nodo - Dalla Raccolta "Come i cinesi" - Parte primaBruno Mancini

  IL NODO

Tu mancavi quando iniziò la spinta.

Altre presenze di forme strane, sfuggenti (lunghe, grosse, rotondeggianti), tinte a ceroni e pastelli, finanche tatuate in bello stile con varie fantasie, e anelli a gruzzoli, più volte usate che candide, si materializzavano per rapporti casuali e rapidi.

Belle a modo di meteore o comete, non chiedevano niente e niente offrivano.

Non certo a me con i miei limiti. Preparato soltanto ad esprimermi, laccato e lucido, scontavo in palpitanti solitudini pudori di primitivi insegnamenti.

Non più di venti anni, assistevo inerte alla decomposizione di principi da poco assimilati ed al decadimento delle strutture logiche ed espressive che di essi avevano costituito il fasciame.

Non avevo più voglia di correre dietro me stesso, rifiutavo l’idea di pensare.

Quotidiana stasi di stimoli avviluppava ogni teoria e l’ammansiva, come in un rodeo di tori e di vaccari, di tigri e di circensi.

Non ricordo se quelle presenze avessero un nome o se avessi costruito dei suoni per identificarle.

Helèna, Marella, Kass costituivano affinità di compagni. Voglia di sregolatezza –purché non crei problemi-, costumi diversi –emancipati si diceva-, allontanavano tensioni culturali, tanto latenti quanto ineluttabili.

Finisce una guerra, finisce un regime, capisco, per prima si attiva una fase di ricostruzione, si curano le ferite, poi si mettono in discussione genesi, connivenze, attori e padroni.

Sotto un profilo ideologico si tratta di processi che non finiscono in aule di tribunali, né si piegano, né si esauriscono attraverso sentenze di giurie fantoccio, perché, pur vivendo come larve, a volte, come leoni ruggiscono e dilaniano.

I giorni seguivano fisionomie barocche, con tutta la lentezza involutiva di rosoni, ciascuno fisicamente agganciato al precedente e preludio del seguente. Attenti a non debordare dal tema iniziale come in un concerto Mozartiano. Innumerevoli piccole variazioni, sufficienti ad indicare ad un occhio attento una diversità individuale, per un distratto fruitore, invece, banali ripetitività.

Così pure loro, le presenze, inserivano distinzioni elementari, anzi di elementi, nella composizione –articolata e statica, dialettica e suadente-, quasi fluente immobile, di quell’inizio di stagione che aveva preso il posto di un lungo e monotono freddo tempo di studio.

Stagione di vita e stagione di clima.

La primavera sull’isola si annunzia, di solito, con l’illusione di tepore e di gemme presto strappata da venti rumorosi e taglienti per alberi e per onde. Pochi giorni, perché presto i flussi della natura ricevono dal nuovo sole definitivo impulso.

Scrivevo “L’estate con la parrucca”, curando che le sensazioni allo stato puro rimanessero intatte, che i concetti non fossero snaturati da immagini, i luoghi e i personaggi vivessero di forza propria senza effetti sfumati, la trama, come una catena, si srotolasse con anelli di spessore e metalli diversi: dove l’oro di una fede di poesia, accanto, il bronzeo obloo della vista di un’alba.

Altro non era il mio problema, avendo scelto di scrivere per me lettore e critico passionale.

Scrivevo ricordo:

Ed io ti parlerò
di cani e di animali
delle mie pallide albe di sconfitte
di ore mai vissute
di stelle.
Ed io ti creerò bellezze
e ti richiamerò ricordi.
E la mia mente
lenti accordi espia.

Fu in quel tempo, al di là della mia coscienza, che, muovendo furtivamente i primi passi, l’anima diceva:

-“Sono compressa, mi sento inespressa, la nostra convivenza rischia di diventare un ibrido simulacro di esistenza e passività.”

Tranquillo, il cervello:

-“Non si inventa mai nulla realmente. Si può costruire, quando ci sono materiali e tecniche, una struttura diversa, innovativa, di impatto immediato con l’immaginifico predominante; tale da ribaltare alcuni schemi oleografici, e che presenti valori di autonomia, di piacevolezza, di interesse. Mai di creatività, che non appartiene a ciascuno o a qualcuno, ma solo a tutti e tutto in un unico insieme.”

-“Ma ti nascondi, ti acquatti!
Non è come spedire una lettera
.”

-“Cioè?

-“Spedisci e sei quasi certo almeno che giunga.
A noi manca anche questa percentuale di aspettativa.
Poi avremmo bisogno che leggessero. Ancora, che leggessero con l’attenzione che vogliamo. In più che fossero provvisti delle informazioni essenziali sia a conoscerci, sia, a consentire loro di seguirci con la corretta ‘visione’ dei nostri intenti strutturali e fantastici. Solo allora potrebbe aver valore un giudizio, ed essere stimolo in quel processo di verifica che è necessario anticipo per un nuovo atto.
Abbiamo questa opportunità? No!

-“In una ragnatela di doppi sensi, di perifrasi, allusioni, ti spezzi le ali.
Farfalla ti voglio, farfalla con me
.”

La prospettiva era intrigante. La tentazione padroneggiava per la stessa ragione dell’offerta di un’intimità che, per quanti sforzi e quanti inganni e lusinghe avesse tentato in tutti gli anni precedenti, non era riuscito ad ottenere.

“Farfalla con me”’.

Aveva voglia di pensare.

Chiese una pausa.

“L’estate con la parrucca” finì, e con essa la foga di vuotare i cassetti pieni di immagini lasciò più spazio ad una contemplazione fotografica.

Quasi tendessi a costruire un album da utilizzare per nuove avventure letterarie, e, già questo, avrebbe potuto essere indice di un qualche cambiamento strutturale della mia personalità.

Usavo la vita a fruizione, a vantaggio, di una sua parte, di una sua componente, la quale, piuttosto che svilupparsi come avrebbe dovuto autonoma, per abbellire, orlare, gratificare, viaggiava scroccona.

Se “una notte di stelle lucenti”, ponevo, come dire, a magazzino, nell’album, “una notte di stelle”. Tanto successivamente avrei saputo con fantasia ricostruirla nel fondale di una scena oppure in uno schizzo, in un disegno.

Un senso logico per l’utilizzazione del quotidiano. La traccia di un emergente bollore che non raccolsi.

Passò del tempo, molto, prima che riprendessi a scrivere con assiduità; forse perché mi mancavano le foto, o gli stimoli, o il tempo, o la voglia, o forse più concretamente perché mi illudevo di aver esaurito con la prima esperienza la curiosità di confrontarmi con la scrittura.

Cominciava un’altra estate di libertà da impegni di ogni genere, ed ancora ricordo con quanta rapidità si trasformassero in ansiosa ostinazione le prime titubanti ricerche che facevo di te.

Nata quasi per diversivo –per il gioco di cercare la strada in un labirinto-, l’idealizzazione di cui ti adornavo, ad ogni ipotetica soluzione diventava più nitida nelle forme, ma non appena un risultato appariva disponibile, e solo allora, pronta e prepotente, una forza autonoma ne stagliava più precisi particolari irrinunciabili.

Quanto più mi impegnavo ad accorparli in una definitiva unità, tanto più risaltavano, come ad azione microscopica, nuovi punti fermi, nuove strutture, e via via per un crescendo di perfette aderenze: quasi atomizzazioni di una perfezione.

Iniziai a scrivere “Ambiguità” dove:

“Se non c’è niente, e niente c’è da difendere, voglio conservare la mia memoria, le mie memorie per tentare di dare un senso ed un seguito all’assurdo tentativo di far quadrare il cerchio (lei cerchio, io quadrato) che ho esasperatamente inseguito” era la prima frase.

Se non fossi stato disattento, vanesio, incantato, fisso nella voglia di trovarti, avrei potuto udire voci e reazioni alla prima lettura.

-“Perché lo fai?” diceva l’anima.

Il cervello ben sapendo che prima o poi sarebbe venuto il momento di dare un seguito al precedente incontro, aveva infatti chiesto soltanto una pausa, e non ritenendo possibile eludere per sempre la necessità di presentarsi ad un faccia a faccia determinante, rispose alla domanda introducendo una delle innumerevoli considerazioni elaborate per accantonare il progetto:

-“Non riesco ad avere completamente sottomesso il corpo, a te sfuggono emozioni incontrollate.
Se voglio non dico eliminare, ma almeno attutire un dolore, se tu intendessi eludere manifestazioni di sentimenti, se io volessi fermare il sangue, affrettare il battito del cuore, isolare un organo, se tu ambissi piangere o ridere in situazioni di estremi opposti, credi potremmo? Come illuderci di interferire sul tutto, se ci manca la forza di farlo sui particolari?!

Anima:

-“Da soli si perde, uniti si vince. E sempre stato così, e così (sarà questo il titolo del nostro stemma) si cambia. La stessa riproduzione nelle strutture evolute abbisogna di unioni. Maschi e femmine, da maschi e da femmine.”

Cervello:

“Per uno diverso da loro, d’accordo. Non certo per trasformare loro stessi in diversi.
Nulla e nessuno sarebbe in grado di farlo.
Tu vorresti la metempsicosi tra vivi, è differente, capisci inconcepibile.

L’Anima:

-“Tu sai cosa pensassero i primi esseri che si accoppiarono? Se ne avevano definito lo scopo, ed il caso affermativo se ne avessero valutata la fattibilità? O non supponi più primitivamente che ciascuno avesse per intento fagocitare l’altro?
Certo l’ipotesi di un risultato quale quello realizzato, sarebbe apparsa temeraria, logicamente improponibile, fantasiosa.
Noi, siamo, loro, noi siamo propaggini di loro azioni, noi dobbiamo tentare di andare oltre le convenzioni, le aspettative correnti e soporifere. Andare oltre l’azzardo.

-“Andare, come? Andare, dove?

-“Con te voglio andare oltre l’amore, come in una totale simbiosi.”

Riusciva ancora una volta a confonderlo, utilizzando le peculiari risorse della sua natura: lo poneva in un angolo di lusinghe e velleità. Ne ammansiva le difese con l’accorta tattica di fingersi inoffensiva, ne otteneva attenzione ed interesse stimolandogli visioni oniriche, partecipazione, avvicinandosi al suo ideale con abile e suadente serenità.

Una crepa era aperta.

Lo sguardo deciso, prolungato, che le rivolse, per lei preludio di intesa, la vide pudicamente arrossire. Ingenuità? Tenerezza? Inganno?

Lei bruna sedeva
Mi schianti e mi strazi.”
Lei donna ansimava

Abbandonata e sola.”


Così va dietro un sogno
-ancora schiacciando le noci
tra nocche-
bandelle
nella galleria del vento.


un sogno eterno
come l’ombra
di luci-riflessi-luna
mobile
deforme, appiccicosa
più scura del buio,
tacita, sfuggente,
più forte del chiaro.

–°°°–

Lui rosso fuggiva
Scorteccia l’anima.”
Lui maschi taceva
Liberata contorta.”

Strisciava ai piedi un rischio
-di dune incoerenti
tra rovi-
sbuffi
in grotte di voli anonimi.

Un rischio pesante
come palle da schiavi
di gesti-attese-silenzi
senza catene,
ingiuste,
consunte, represse,
diffuse
schiumose,
più interne del tronco.

—°°°—

Per me
un rischio e il foglio
dell’erba
e del prato.

Per me
un sogno e il foglio
dove la pista è il deserto
del fato
del soffio e
del vento.

E devo voltarmi
a capire
se
è notte o c’è il sole
se è un sogno od un rischio

“Ambiguità” si avviava all’epilogo quasi premonitore dicendo:

“Lo stesso dubbio sembrava pretendere la propria esistenza, dileguandosi dopo comparse, che, sempre più brevi si imponevano giungendo con maggiore frequenza.

Troppo brevi per consentirmi di prendere una decisione, troppo frequenti per liberarmene “.

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Bruno Mancini