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Il Dispari 20220509 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20220509
Angela Maria Tiberi intervista la Prof.ssa Erica Greco
D: -Come ha conosciuto l’artista Milena Petrarca, Presidente Associazione Internazionale Magna Grecia e Presidente delegata America del Nord per conto dell’Associazione Internazionale culturale “Da Ischia L’Arte – DILA”?
R: -Quello con Milena Petrarca è stato decisamente un incontro fortuito!
Infatti, circa un anno fa, quando decisi di intraprendere la mia ricerca sulla figura di Ria Rosa (eccentrica sciantosa proto femminista del café chantant napoletano), mi imbattei per caso in un articolo online su cui compariva un commento dell’artista Milena Petrarca, la quale affermava di essere una diretta discendente di Maria Rosaria Liberti.
Subito decisi di contattarla tramite i social, così ci sentimmo telefonicamente ed ella mi raccontò tante sfaccettature inedite legate alla vicenda familiare della Liberti.
D: -Può raccontare come è iniziata la ricerca su Ria Rosa Liberti?
R: -Dopo aver conseguito la laurea magistrale in Discipline della Musica e del Teatro nel 2020, iniziai a maturare l’idea del dottorato di ricerca.
Ho sempre avuto un forte legame con Napoli, la “città-teatro” per antonomasia, così iniziai a navigare sul web per trovare un tema da indagare che potesse riallacciarsi al panorama teatrale partenopeo.
Sul sito web “Identità insorgenti” trovai un bellissimo articolo su Ria Rosa a cura di Flavia Salerni e fin da subito mi innamorai del suo personaggio: ribelle, coraggiosa, irridente, Ria Rosa è una donna di palcoscenico volutamente fuori dagli schemi, che si distinse nel mondo del varietà per il suo forte impegno politico-sociale.
Femminista ante litteram, rivendica l’indipendenza della donna dall’uomo attraverso i testi delle sue canzoni, tutte caratterizzate da un’interpretazione brillante e da una seducente irriverenza.
D: -Sviluppi culturale della ricerca del dottorato ed imminenti obiettivi da raggiungere?
R: -Proprio in questo periodo sto riprendendo la ricerca su Ria Rosa in vista della possibile partecipazione a un convegno internazionale sulle forme dell’attivismo femminile in Italia.
Per ricostruire l’avventurosa vicenda storica e artistica di Ria Rosa Liberti è necessario scandagliare numerose fonti, a partire da giornali e riviste dell’epoca per poi passare all’analisi delle performance canore incise su disco fino al vaglio delle testimonianze orali, come quella preziosissima offerta da Milena Petrarca.
NOTE CONDIVISE
attualità e poetica in una nuova opera
di Gioia Lomasti in collaborazione con Luciano Somma
Dopo una lunga amicizia scandita da condivisione ed assidua collaborazione attraverso la scrittura, nasce questo volume disponibile sui maggiori webstore e in libreria e tramite il canale di distribuzione.
Gli articoli trattati dagli autori collocano la poetica come punto cardine per la realizzazione di molti degli argomenti odierni tra storia, arte in genere e reminiscenze, unendo emozioni nella energia testuale.
Gioia Lomasti nasce a Ravenna, appassionata di letteratura nel suo insieme sin da bambina conquista l’attenzione della critica letteraria con la partecipazione a concorsi di poesia ed eventi culturali che la vedono tra i posti d’onore.
È autrice di opere in poesia e prosa dedicando parte dei suoi scritti al cantautorato italiano.
Co-fondatrice del sito vetrinadelleemozioni.com, spazio che riserva all’arte e alla musica.
Luciano Somma è nato a Napoli, diversi anni or sono, ha iniziato a scrivere testi per canzoni e poesie dall’età di 13 anni.
All’attivo moltissime pubblicazioni poetiche singole o in antologie anche scolastiche.
Collaboratore dell’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA”, fin dalle origini della sua costituzione, e della redazione di questa pagina culturale del quotidiano IL DISPARI di Gaetano Di Meglio, Luciano Somma ha scritto e scrive su un numero imprecisato di periodici, ha vinto centinaia i premi tra cui due medaglie d’argento del Presidente della Repubblica, ed ha ricevuto la Laurea nel 1987 H.C. in lettere e filosofia.
È il poeta più presente in internet, decine i titoli accademici.
NOTE CONDIVISE DI GIOIA LOMASTI E LUCIANO SOMMA, L’ATTUALITÀ ESPOSTA ATTRAVERSO LA NOSTRA POETICA – ISBN 9791220396639 – distribuito da youcanprint.
BRUNO MANCINI
Dalla raccolta di poesie
Incarto caramelle di uva passita
(2002)
Adesso musica!
All’angolo
di un vecchio palazzo
la plastica
sagomata a note musicali.
Di fronte
un muretto di pietre
vulcaniche
levigate da strusci continui.
Nel cielo
tutte, ma proprio tutte le stelle
lucenti come ciondoli
ad una festa di paese.
Avevo una camicia
bianca
avevi una gonna stretta
avevo un libro
in mano
avevi una borsetta
nel Juke box
Adriano Cementano
con ventiquattromila baci.
———————
Dalla raccolta di poesie
Incarto caramelle di uva passita
(2002)
E vai coi nostri
Scoreggiavano puzzolentemente
sputazzate e rasche di sigari toscani
bronchiti croniche
a volo dai palchi alla platea.
I pellerossa in bianco e nero
muori fellone
e vai coi nostri.
Com’era bello il cinema una volta.
°———°———°———
Bestemmie lunghe come una canzone.
Inferno paradiso santi e madonne
mamme e sorelle
per un refrain di puttanate in libertà.
Colonne di cartone
lacrime di cipolla
Buffalo Bill e il suo cavallo bianco.
Com’era bello il cinema una volta.
°———°———°———
Scaccolamenti di nasi scatarranti.
Rutti etnici al gusto di carrube
polifemiche presenze
le panche appiccicose di schifezze.
I bucanieri dalla benda all’occhio
onore, patria, fedeltà
Totò.
Com’era bello il cinema una volta.
°———°———°———
Lei
mi stringeva
a tratti
forte
il braccio
di nascosto.
Io
le toccavo
un poco
scalzo
il piede
di nascosto.
Com’era bello andare a cinema una volta.
Il Dispari 20220425
Gianluigi Filippini in arte Jeanfilip intervista la poetessa
Maria Francesca Mosca
vincitrice del premio di Poesia OTTO MILIONI 2021
Prima parte
Quando Bruno Mancini presidente Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” di Ischia mi ha invitato, come Presidente e Ambasciatore della Sede operativa della Regione Lombardia a realizzare un’intervista alla Dott.ssa Maria Francesca Mosca, come Artista “pittore” per me è stato un grande onore condividere suggestioni emozionali.
Ho cercato di porre delle domande e riflessioni alla Dott.ssa e poetessa Maria Francesca Mosca, in quanto nella sua professione di medico di famiglia, tutti i giorni è a contatto con delle persone che soffrono nel corpo e nell’anima.
Le risposte di Maria Francesca sono state, a mio parere, gratificanti, facendo emergere la sua grande sensibilità poetica.
Per ragioni di spazio pubblicheremo in due puntate l’intervista che ha concesso in esclusiva per questa la pagina culturale del quotidiano Il Dispari, dandovi appuntamento fin da ora al prossimo lunedì.
D: – Dottoressa o Poetessa? Mi racconti…
R – Cosa posso raccontare di me?
Ho sempre svolto con passione la mia professione di medico, come medico di base, in trincea, a diretto contatto con i miei pazienti, condividendo le problematiche di vita, curando, consigliando, consolando, cercando di essere presente quanto più potevo, instaurando nel tempo rapporti di amicizia e di fiducia.
Sono grata alla mia professione per quanto mi ha dato e mi ha permesso di dare.
Nella vita ognuno di noi affronta problemi più o meno grandi, difficoltà, lutti, e il saper emergere e superare rispecchiandosi anche nelle difficoltà altrui anziché chiudersi nella propria egoistica sofferenza, può aiutare, sempre.
Nella mia vita ho messo al primo posto gli affetti familiari e dalla serenità che ne è derivata ho tratto forza ed entusiasmo per dedicarmi agli altri, non solo nella professione, ma anche nel volontariato.
Da qui tanti incontri, tante esperienze di vita, condivisioni, spunti e la scrittura scorre fluida…
Ho sempre però tenuto i miei scritti” nel cassetto” sino al 2005, quando i miei figli, leggendo per caso un mio racconto, mi hanno convinta a partecipare ad un concorso letterario per Medici Scrittori “GIAN VINCENZO OMODEI ZORINI” di Arona dove, con stupore ed incredulità, mi sono classificata al secondo posto in quell’anno e al primo posto nell’Edizione successiva, diventando poi Membro del Comitato dei Lettori del Concorso stesso con l’occasione di conoscere personalità straordinarie!
Da lì in poi ho mosso i primi passi, partecipando a vari Concorsi ed ottenendo lusinghieri riconoscimenti, che mai avrei sperato, ma soprattutto ho avuto l’opportunità di conoscere artisti, scrittori, poeti e cultori dell’arte, persone interessantissime!
Secondo me la Poesia, come del resto la scrittura, può essere terapeutica, non a caso il titolo della mia prima, breve raccolta di racconti è stato appunto “Terapia dell’Anima”.
In questa raccolta, nella criticità di situazioni emotivamente molto intense, ho cercato di far emergere il ritratto di una realtà di vita che è sì confronto con il dolore e la sofferenza, ma anche e soprattutto riscatto attraverso l’Amore.
:
D: – Quando si è avvicinata alla Poesia?
:R: – La Poesia ha accompagnato la mia vita sin da bambina.
A volte con tenerezza rileggo i versi che scrivevo allora e con infantile rimpianto vorrei rivivere le prime, ingenue emozioni…:
D: – Che cos’è per lei la Poesia?
R: – Per me la Poesia è un’amica, una compagna, un rifugio in cui ritrovo serenità e armonia e, nella parola scritta, rinasce la voglia di creare, di rielaborare sensazioni ed emozioni rendendole vive e vibranti.
D: – Come e dove nasce una Poesia o Racconto?
R: – Una Poesia o la trama di un racconto nasce spontanea, quasi acquisisce con prepotenza una vita propria quando si manifesta l’urgenza di scrivere.
Basta un pensiero, una frase, una situazione e la realtà poetica si realizza immediatamente…
D: – Considerando la sua professione di medico, le sue poesie o riflessioni, nascono anche da un rapporto con le persone e la loro sofferenza?
R: – Nello svolgimento della mia professione di Medico mi trovo spesso a contatto con la sofferenza, fisica o spirituale, e il rapportarmi con le persone, condividere le loro ansie, le paure, spesso la non accettazione di una diagnosi e della malattia, la ricerca dei mille perché, mi ha sempre stimolato a cercare di dare un significato catartico alla sofferenza stessa.
D: – Come ha conosciuto l’associazione DILA e il premio “Otto milioni”?
R: – Ho conosciuto l’Associazione DILA grazie alla pubblicazione sul quotidiano Il Dispari di Gaetano Di Meglio dell’Intervista che Silvana Lazzarino ha proposto in occasione della presentazione a Roma presso la Libreria Hora Felix, organizzata dall’Associazione IPLAC (Insieme per la Cultura) del mio libro “Fili di rugiada” dedicato alle storie degli straordinari atleti dell’Hand Bike.
Ringraziando Bruno Mancini per l’attenzione riservata all’evento, ho avuto occasione di conoscere la sua straordinaria personalità e l’Associazione DILA con le molteplici e prestigiose iniziative tra cui il Premio “Otto milioni” a cui con entusiasmo e piacere ho partecipato.
Adriana Iftimie Ceroli ritorna a pubblicare i suoi “Simbolicamente”.
Bentornata Adriana nella Redazione di questa pagina culturale!
SIMBOLICAMANTE IL CERVO
Il cervo è stato spesso paragonato all’albero della vita perché ha le corna che si rigenerano periodicamente.
è il simbolo della fecondità, del ritmo della crescita e della rinascita.
Questi valori si riconoscono sia nelle decorazioni dei battisteri cristiani, ma anche nelle tradizioni musulmane, maya, pueblo ecc.
Allo stesso modo, il cervo è l’annunciatore della luce e fa vedere il sentiero verso la luce del giorno. In alcune civiltà, questa caratteristica prenderà un’ampiezza cosmica e spirituale.
Il cervo diventa un mediatore tra il cielo e la terra, come simbolo del sole che risorge e si alza sul cielo infinito.
Più tardi, raffigurato con una croce sulla fronte, diverrà l’immagine di Cristo.
Messaggero del divino, esso rappresenta alla serie di simboli associati: albero della vita, le corna e la croce.
Nell’iconografia mitologica greco-romana i cervi vengono messi a guidare il carro della dea Diana, dea della caccia.
Adriana Iftimie Ceroli
Il Dispari 20220411
Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”
La sesta firma – 14a e ultima puntata
Capitolo sesto
[—]
Meno uno.
La donna guascona lasciò trascorrere l’attimo necessario a che l’eco spersonalizzata di quella condanna estrema giungesse nel buio della mia salita tra curve di strade sconnesse costeggianti infidi burroni, ed allo sguardo immobile di Petrus impose: «Continua».
Io finii, con la memoria, in miseri vicoli malfamati al centro di un inestricabile labirinto diramato giusto alcuni passi dietro vetrine, dal lusso sfacciato, esposte sulla strada famosa per i monumentali palazzi della nobile società napoletana.
Tra folla di gente in lotta per la sopravvivenza, ancora maggiormente mortificata dal contatto fisico con i vicini spregiudicati venditori di beni essenziali a tassi d’usura.
Ero dove la luce del sole non si presentava per non avvilire lo scuro delle anime vaganti, dove i giorni non contavano perché sempre tutti identici ed inutili, dove i bambini ed i vecchi non conoscevano diritti, dove la vita di un forestiero valeva un quinto del suo orologio, dove le sigarette le droghe le puttane, dove, allora, quando… quando mi sembrava di incontrare Gilda adolescente, spilungona e scorbutica, che rompeva il naso ai maschi se la trattavano da femminuccia, salvo poi correre verso le mie gambe che reggevano la grossa moto regalo dell’ultimo esame universitario.
«Firma il registro» mi disse Aurora, contemporaneamente mostrando a tutti un ventaglio di seta giapponese, aperto, dai colori sgargianti, che la donna dell’appuntamento, la dolce Edith, l’anima della fantasia da sempre per me inseparabile compagna in tutte le vicende letterarie, aveva inteso consegnarle quale pegno d’adesione alla mia scelta.
Simile alla sua, certamente difficile.
Entrambe stupende per quanto di eterno, infine, avevano meritato nell’assoggettare ad un caduco amore terreno una immortalità esautorante qualsiasi sentimento.
Era quello stesso ventaglio modellato a forma di conchiglia che lei, la dolce Edith, la donna dalle mani ambrate, aveva agitato in semicerchi minacciosi voltando e voltando il busto eretto nelle lame del vestito nel giorno, per lei decisivo, del suo tenero «Appuntamento» con l’uomo dallo smoking bianco senza sfumature e dal fiore di ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) all’occhiello del bavero.
Non ebbi alcun dubbio nel comprendere la forza del sentimento che la cara Edith mi manifestava.
Congiunte dal lucente tessuto orientale, le stecche di bambù erano imperniate, nella parte inferiore, tramite un particolarissimo anello d’oro bianco con pietra di rubino.
Inconfondibile, esso era stato l’inseparabile gioiello dell’uomo dall’impeccabile smoking bianco senza sfumature e nessuno avrebbe mai potuto costringerlo a separarsene.
Era evidente che lui aveva deciso di privarsene da solo, lui, il professore Edoardo, lui, lo spietato cervello del tormento stilistico che aveva scavate le mie idee.
Non ebbi alcun dubbio nel comprendere il valore inestimabile del dono che mi offriva.
Aurora chiuse il ventaglio, lo roteò di mezzo giro e lo tenne in bilico sulla falangina dell’indice puntato verso di me.
Bene in vista.
Al centro della luce proveniente dalla finestra aperta.
Osservai per qualche attimo il suo volto impassibile e poi di nuovo rivolsi la mia attenzione al ventaglio fermo a mezz’aria, immobile, bene in vista, al centro della luce proveniente dalla finestra aperta.
Simile al braccio di una bilancia posato sul cuneo formato dal dito di Aurora, non dondolava.
Conoscevo troppo bene la Donna Guascona per non comprendere la doppia allegoria del messaggio che mi stava inviando.
Non ebbi alcun dubbio.
La fantasmagorica illusione ottica decorata sulla scintillante seta orientale, in perfetto equilibrio con la preziosa durezza della gemma di corindone rosso!
Nel mondo dell’arte, la fantasia ed il tormento stilistico, pur distinti e disuguali, si sarebbero equivalsi se fossero stati sorretti dal gancio della verità!
Nel mondo dell’esistenza, l’anima ed il cervello non avrebbero dovuto sopraffarsi per non precipitare entrambi!
L’indice della mia amica Aurora era rivolto verso di me, né per minaccia, né per richiamo, ma come segno di scelta elettiva.
Ritornai lentamente con lo sguardo negli occhi di Aurora, affinché vedesse le mie palpebre chiudersi tre volte.
Avvicinai il registro ad un bordo del cavalletto di sostegno, e con grande sforzo di concentrazione riuscii ad imprimere un sottile tratto accanto alle altre firme.
Poco più comprensibile del breve tracciato di un elettroencefalogramma, cardiogramma, quasi piatto, il mio nome, la quinta firma, avrebbe dovuto concludere il rito.
Fu come estrarre la madreperla a quindici metri di profondità in un’apnea al sorso finale.
Zero.
Il gesto ipnotico con il quale calai la testa per apporre la firma, e la lieve torsione del busto verso il lato del leggio, furono sufficienti a che l’ombra che m’incombeva alle spalle, il sofferto spirito di assurde avventure, il mostro ingordo e allucinato, fantasma tra le grotte inesplorate della mia coscienza, Ignazio, notasse le dita affusolate e l’inconfondibile armonia dei gesti che compivo.
La “Signora” disse «Ora».
Petrus chiuse gli occhi.
Ignazio, si spostò di un passo per scrutare le pieghe nascoste del mio viso.
Ci eravamo lasciati da così poco tempo che a lui, mio fratello gemello, bastardo avventuriero, furono sufficienti minimi particolari per riconoscermi.
La Donna Guascona infilò l’anello nuziale al dito della sposa.
Petrus compì lo stesso rituale all’anulare della mia mano.
Ignazio, il tormento di ognuno dei giorni e di tutte le notti che avevo trascorso insonni, l’umanizzazione della mia fantasia, scelse da solo la sua parte nella storia che andava a compimento.
Giunse al nostro contatto, avvicinandosi con i movimenti armonici di mia sorella, estrasse dalla tasca l’arma preferita per le sue battaglie (poteva sembrare una maxi penna stilografica), e con la voce profonda di mio padre scandì:
-«Manca un sigillo al vostro amore perché io possa andare a guardare il bene che non ho fatto.»
Con le dita affusolate di mia madre…
Bum
si fece esplodere la cartuccia… Bum
tra gli occhi
Bum
Uno schizzo rosso sangue…
Bum
sparso sull’album delle nostre nozze…
Bum
fu la sesta firma, la sua, posta ad avallare il sogno della mia vita.
Non firma, sigillo, aveva detto.
Ignazio, l’immortalità dei miei pensieri, liberò per noi, con il clamore che si conviene ad un amante tradito, la tanto attesa felicità terrena.
La sua sesta firma, il definitivo sigillo, fu l’indelebile riconoscimento della mia nuova coscienza.
Mi girai, guardai il suo corpo a terra con gli occhi vitrei in una maschera rossa, finsi di non riconoscermi, lo riconobbi, non piansi per non svelare il segreto del mio passato.
Strinsi in un abbraccio, antico e nuovo, Gilda, l’iconografia di tutto quanto avevo ed avrei amato, per sussurrarle, con il solo pensiero:
-«Il tormento è finito. Per me la vita ricomincia. La nostra unione sarà perfetta. Io per te sarò migliore».
Isidoro, il pupo giovane e adulto, non più frutto di un incontro sbagliato e prematuro, ci corse incontro con i movimenti armonici di mia sorella, mi strinse le gambe con le dita affusolate di mia madre, chiedendomi, tra pianto e sorriso, e con la voce profonda di mio padre:
-«Papà, papà mio, vorrai bene un poco anche a me?»
Fine
Dedicato a mia madre, dopo tanto tempo.
24/08/05, ore 03,15