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Il Dispari 20220131 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20220131
Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”
La sesta firma – 9a puntataCapitolo sesto
[—]
Meno quattro.
Egli, l’Assessore Delegato, il baffo comunale, lui, sempre pronto ad ascoltare le esigenze di tutti i grandi elettori, i bisogni, le attese, le speranze, le critiche, le malefatte, le elargizioni, le risse, gli imbrogli, dei concittadini democristiani ed ex democristiani, per poi offrire a ciascuno una soluzione, un compromesso, un contributo, una presenza, una delibera, una provvidenziale dimenticanza, e pronto anche a mostrare attenzione per la stessa serie di… (che per incredibile bontà non ripeto) segnalata, alla sua attenta autorità, da parte di popolani non amati in quanto infedeli (sia ex democristiani sia non ex democristiani, comunque appartenenti ad una diversa corrente politica).
In questo caso non specifico “per offrire ecc.” poiché a costoro più che l’orecchio non metteva a disposizione altro, ascoltava sopportava e basta.
L’Assessore Delegato, il baffo comunale, lui, il Consigliere a vita, l’uditore finto semi sordo, lesto ad intervenire in tutte le occasioni di felici incontri (ignobili mostre pseudo artistiche e funerali di criminali compresi), porse la penna stilografica delle cerimonie ufficiali al testimone maschio.
L’inconfondibile figura di un mio amico la strinse fra tre dita della mano destra.
Egli, che non aveva bevuto un goccio da svariati minuti, mi rivolse un fugace sguardo d’intesa e poi subito, con la solerzia di chi vuole ritornare a situazioni meno imbarazzanti, segnò il registro scrivendo per esteso ed a chiare lettere con caratteri stampatello, soltanto il proprio nome “PETRUS”.
In quei gesti asciutti e decisi, rividi l’uguale complicità della sua accorata partecipazione nel giorno in cui, deciso a compiere il grande passo, avevo bussato all’ingresso che lui custodiva, ed essi mi parvero suggerire d’avviare la riproduzione mentale di quel nostro ultimo incontro:
-«Signor Bruno, finalmente, e tanto che non ci vediamo.
Posso offrire una birra?
Prego entrate.
Super popolare ghiacciata?»
-«Grazie Petrus, la tua accoglienza è sempre emozionante.
Come stai?
Bevi anche tu con me?
Sono venuto senza avvisare.
C’è Aurora?»
-«Come potrebbe mancare, la Signora c’è sempre.
Giorno e notte, estate ed inverno, primavera, autunno, anni bisestili e giorni di eclissi compresi. Dall’era antidiluviana alla futura apocalisse, ogni ora, minuto, istante, per tutti, bestiole comprese.
La chiamo?»
-«Facciamo prima due chiacchiere.
Ti va?»
-«Certo, accomodiamoci nel salone di ricevimento.»
Mi ero sentito perfettamente a mio agio durante il breve tragitto che avevamo effettuato per raggiungere la sala ove avevamo avuto modo di intrattenerci in molte delle precedenti occasioni.
In essa, il lampadario a cinquanta bracci, soffiato a Murano nei primi anni del dopo guerra mescolando sabbia e petrolio, troneggiava ancora, aprendo la porta, riflesso in uno specchio, irregolare, ambrato. Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale.
Sul lato destro entrando, al centro di rustiche grotte dei desideri, sbalzava, identica al mio ricordo, la chitarra rossa d’Elvis con nel bordo basso, annodati tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna), trecento quasi invisibili ciondoli: ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.
Ero di nuovo lì dove, il giorno prima del mio ultimo ritorno ad Ischia, mi erano stati consegnati magnifici doni per aver scoperto un errore gestionale che avrebbe potuto compromettere la dignità della mia Amica.
Petrus, mostrandomi il luogo dove era ubicata la pedana musicale, tra il rotondo divano nero contornato da cuscini lucidi di pelle di pantera e le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, disse:
-«Mancano i nostri due amici.
Gli inseparabili cari compagni.
Uniti nella naturalezza di un tenero sentimento, più innamorati di mai, hanno sempre creato atmosfere musicali difficili da dimenticare.
Lui, con l’immancabile ginestra al bavero, e lei con l’identico inseparabile ventaglio giapponese a stecche di bambù che agitava nel giorno del loro ricongiungimento.
I loro posti li abbiamo lasciati vacanti, formulando in tal modo l’augurante presagio di un imminente ritorno.
Per evitare sconvenienti sensazioni di vuoto abbiamo mascherato l’angolo, come si vede, mediante la parete semitrasparente composta da un filare di fiori di ginestre frammisti a canne di bambù.»
Continua lunedì prossimo
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Liga Lapinska intervista Angela Maria Tiberi
«Scrivo le mie esperienze perché ci fanno crescere spiritualmente.»
Liga Sarah: «Come hai iniziato a scrivere e quali argomenti ti sono più vicini?Scrivi spesso di te stessa?Scrivi della solitudine essenziale e dei problemi quotidiani nella nostra società?Scrivi anche drammi e romanzi?»Angela Maria: «Ho Iniziato a scrivere a quindici anni fa, per uscire dalla depressione che mi toglieva la gioia di vivere a causa del lutto di mio padre e di mio nipote morto a trent’anni.Argomenti a me più vicini sono l’amore tradito e la lussuria, l’eros e l’amore universale.Scrivo le mie esperienze perché ci fanno crescere spiritualmente.Non dimentico di essere anche testimone del mio tempo, sia politicamente sia socialmente.Mi dedico alla prosa breve e non ho scritto finora romanzi perché non mi attraggono.»Liga Sarah: «Dimmi a quale competizione sei stata più contenta di vincere o partecipare?»Angela Maria:
«Vincere fa sempre piacere e ho vinto oltre 270 premi e riconoscimenti.
Partecipare alle antologie con premi fa sempre piacere.»
Liga Sarah: «Preferisci le interviste scritte o la conversazione diretta con l’intervistato?»
Angela Maria: «Entrambe perché esiste il dialogo»
Liga Sarah: «Ti senti scrittrice, combattente, oppure semplicemente Angela Maria Tiberi?»
Angela Maria: «Mi sento un essere umano che ha ricevuto diversi tradimenti, ma io ho sempre risposto amando il nemico traditore.
Sono una combattente coraggiosa e spirituale.
Sono orgogliosa del mio nome Tiberi perché ho il nome di un eroe morto in Gondar Etiopia per salvare i suoi compagni militari all’età di trentasette anni. Morì dissanguato per le frecce degli indigeni etiopi e le sue ceneri si trovano ad Adis Abeba insieme agli altri militari italiani per la conquista dell’Africa Abissinia.
Sono contro le guerre e amo l’umanità e la pace.»
Liga Sarah: «Hai viaggiato molto nella tua vita e sei soddisfatta di essere nata e di vivere in Italia?»
Angela Maria: «Ho viaggiato molto: Canada, NewYork, Boston, Grecia, Tunisia, Marocco, Spagna Andalusia, Tenerif, Casablanca, Portogallo, Gibilterra, Tunisia, Parigi, Corsica, Croazia, Slovenia, Nizza, Montecarlo, Genova; Milano, Firenze, Napoli, Catanzaro, Salerno, costa amalfitana, Palermo, Siracusa, Catania, Messina, Reggio Calabria, San Marino, Riccione, Ferrara, Modena , Mantova, Cagliari, Oristano, Lecce, Bari, Taranto, Matera, Avellino e provincia, Frosinone, Roma, Arezzo, Lucca, Terni, Livorno. Sono orgogliosa di essere italiana e amo specialmente Roma,
Latina, Sermoneta, Sezze, Norma, Terracina, Gaeta, Sperlonga, Aprilia, Cisterna.»
Liga Sarah: «Cosa ti fa sopportare le difficoltà e da dove attingi energia?»
Angela Maria: «L’amore è la migliore energia della sopravvivenza umana.»
Liga Sarah: «Cosa pensi sia l’amore?»
Angela Maria: «L’amore e la Fede sono elementi importanti della vita oltre la logica.»
Liga Sarah: «Quale ruolo ricopri nell’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA?»
Angela Maria: «Faccio parte dell’Associazione DILA da molti e attualmente sono Presidente della Sede operativa operante della Nazione Italia.».
Liga Sarah: «I tuoi auguri ai nostri lettori!»
Angela Maria: «Faccio gli auguri a miei lettori di trovare l’amore universale e la pace fra i popoli e famiglia.»
Il Dispari 20220124 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20220124
Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”
La sesta firma – 8a puntata
Capitolo quinto
[…]
Molto probabilmente loro, gli emigranti erranti, al ritorno sull’isola compivano uguale servizio informativo per i miei familiari, i miei amici, e soprattutto per lei.
Non riuscivo ad immaginare quali novità carpissero nei fugaci incontri che ci concedevamo, né come le modellassero per renderle interessanti, ma certo ne facevano assiduo argomento lungo tutte le noiose giornate degli inverni ischitani trascorse al circolo sportivo giocando a maniglia:
-«Quando al Dottò gli ho confidato che è nato Isidoro, mi ha stretto il polso, fissato negli occhi e “Portami una foto. Non dirlo a nessuno. Ti prego” così ha detto “Ti prego”. Gliela porto. Me l’ha fatto giurare su mammà.»
In quegli anni di testarda determinazione, pur prestando scarsa attenzione alla cura della mia anima, compivo enormi sforzi tesi ad impedire che decelerassero gli intervalli delle pause di lavoro. Ne avevo bisogno. Esse erano necessarie a rendere accettabili le tenui ragioni in virtù delle quali riuscivo a non ribellarmi contro la serie di eventi, certamente per me spiacevoli, ma che nondimeno, se solo l’avessi voluto, sarei stato in grado di impedire anche con una semplice telefonata, un messaggio, una cartolina.
Fossi partito un anno dopo, il costo del mio dolore sarebbe stato il premio della mia attesa.
Soprattutto.
Il premio del suo dolore, la gioia della sua scelta.
Soprattutto.
Fossi partito un anno dopo, saremmo stati uniti e nostro figlio si sarebbe chiamato…
Giunse.
La telefonata con la quale Gilda accettava l’invito che le avevo scritto sul biglietto lasciato la sera prima alla cassa del bar, mi sembrò più un atto di cortesia che foriera di felici aspettative:
-«Disturbo? Sono Gilda.
Vado a prendere il pupo all’asilo, poi potremmo incontrarci alle giostre.
Alle cinque all’angolo della posta, va bene?»
-«Alle… Gilda… sì, sì va bene, benissimo…»
Tu tu tu tu…
La meraviglia per la rapidità con la quale mi aveva contattato, lo stupore per la docilità del suo seguire il mio desiderio senza porre domande, la scelta di andare in un luogo affollato dando adito a pettegolezzi, tutto ciò ed altro ancora, furono motivi che mi convinsero a credere che Gilda non aveva capito la ragione vera del mio invito.
Avvaloravo l’ipotesi che lei non aveva potuto comprendere le mie intenzioni in quanto non ero stato sufficientemente esplicito.
Esplicito?
Ammiccante.
“Il Dottò vuole passare un po’ di tempo in giro prima di tornare nel castello della sua libertà.”, forse aveva pensato così.
“Se il Dottò avesse una intenzione segreta non avrebbe scritto un biglietto, né tanto meno lo avrebbe consegnato aperto alla cassiera, dandole l’opportunità di leggerlo.”
“Uno che cerca un’amicizia più intima con una donna, non le chiede di uscire con il bambino.”
“Sarà in partenza per altri mille anni e vuole rinverdire ricordi passati.”
Aveva ragione.
Tre, quattro, mille ragioni.
Decenni di raziocinanti eccessi, avevano inaridito finanche ogni mio elementare presupposto di comunicabilità.
Bravo!
Avevo speso gran parte della vita nella peggiore maniera.
Solo.
Solo, da solo.
Solo, da solo, senza essere solo.
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli. Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»
Capitolo sesto
Lunedì 12 Agosto, ore dodici, alla civile formalità giuridica del nostro matrimonio mancavano solo cinque firme.
Meno cinque.
L’Assessore Delegato, doppio petto filo di scozia blu notte spagnola, cravatta parigina fucsia con animazioni americanizzate, camicia celeste cielo di primavera inoltrata lungo il fiume Danubio, calzini bianchi dei pastori greci di capre macedoni, scarpe con tacchi cinesi lacci coreani pelli di vacche australiane ed argentine e fodere d’antichi ricami persiani, egli, L’Assessore Delegato, baffo di limitate pretese ma oggetto d’innumerevoli caricature, democristiano, ex democristiano, felice sorridente, convinto assertore dei principi fondamentali ed inalienabili del matrimonio, del divorzio, della natura, della caccia e della pesca, delle zanzare e delle zoccole (topi, ratti, pantegane) giganti e ben nutrite, delle etnie marocchine e padane, della civiltà napoletana e padana, dell’Italia e della padania, della patria unita, della patria in pezzi regionali, della patria in pezzettini provinciali, della sua personalizzata minuscola patria comunale, egli, il Celebrante la Cerimonia Civile, terminato un breve discorsetto ufficiale (bella coppia, sono certo sarà un matrimonio modell… e simili cazzate), introdusse il rito laico delle firme sul registro.
Apponendovi la propria (elaborata in una schifezza d’immenso ghirigoro geroglifico) con ostentata teatralità, non creò disagio all’istantanea apparizione del ricordo nel quale mi rivedevo il pomeriggio dell’incontro alle giostre con Gilda.
-«Ho impegnato un secolo per decidermi a fare il primo passo.
Senza ribellarmi ho lasciato che la nostra amicizia giovanile, il nostro affetto, la reciproca irriducibile attrazione che ci dominava, scadessero in un algido rapporto tra il “Dottò” e la padrona dell’American bar.
Ho visto il tuo ed il mio amore, come su quella giostra, girare girare girare fino a perdere il senso dell’equilibrio, e non ho porto loro una mano a sostegno.
Devo recuperare non solo il tempo perduto, ma soprattutto il coraggio di esistere.
Sposiamoci domani.
Tu sai quanto ti amo.»
Così le avevo detto nel luna park aspettando che Isidoro terminasse un giro sul trenino.
-«Mamma mamma, è bellissimo, ci sono gli indiani e Manitù.»
-«Vuoi fare un altro giro?
Vai.
Dai il gettone all’uomo con la divisa rossa.
Vai.»
Gilda non mi aveva chiesto dove ci saremmo sposati o dove avremmo vissuto, né chi sarebbero stati i testimoni, nessuna domanda relativa al ristorante, al viaggio di nozze, alle foto, agli invitati, bomboniere, addobbi floreali, limousine, paggi paggetti, velo velette, musica cori coretti anelli… catene.
Nulla.
Gilda aveva iniziato dicendo:
-«Va bene…», poi aveva atteso che il pupo fosse lontano, ed allora, guardandomi negli occhi:
-«E lui?»
-«Sarà mio figlio.»
Continua lunedì prossimo
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ARTEMENTE FLORENCE
Una stanza piena di fiori dipinti sull’armadio grigio.
Lampadario di fiori bianchi che addolcisce la tua presenza
nell’ambiente di una grande città medioevale “Firenze”.
Bell’Arno che scorre dolcemente verso il mare
come il flusso della vita che va inghiottito con la morte.
Volti sorridenti e profondi come i libri lasciati nelle stanze.
Artemente Florence è bello guardarti nello specchio della stanza
di una porta che socchiude la tua intimità.
Vieni ed unisciti a noi per gustare queste dolci emozioni,
indelebili come il volto del nostro primo amore e del primo bacio,
colto come le primule di primavera che ricordano le lenzuola
profumate e riscaldate dal tepore della stanza, avvolgenti sulla pelle,
dopo una tempesta di tremenda pioggia notturna.
Angela Maria Tiberi
Presidente delegata Italia associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA”
Il Dispari 20220117 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20220117
Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”
La sesta firma – 7a puntataCapitolo quinto
Da quel pomeriggio di sole arrogante e di buia solitudine, nel quale neanche il pudico esplicito invito di Gilda aveva ottenuto l’effetto di distogliere il mio proposito di partenza, non ero ritornato sull’isola se non in occasione di qualche festività, e non avevo mai cercato di incontrarla.
Neppure un contatto.
Nessuna corrispondenza, né una telefonata.
Perché farlo?
L’incontro dei nostri sentimenti avrebbe avuto necessità di ulteriore maturazione, d’altre vicende, per manifestare completamente l’attrazione che ci possedeva da sempre.
Un anno… due anni… il tempo indispensabile a che la fanciulla diventasse una donna.
Ma io ero partito troppo presto.
Lasciando incustodito l’unico fiore del mio giardino.
Tuttavia, ogni volta che gli strani incroci dei flussi migratori avevano condotto un qualche nostalgico compaesano dalle mie parti, dopo i convenevoli e le informazioni sulle condizioni delle nostre famiglie, immancabilmente, egli, chiunque fosse e per qualsiasi motivo si trovasse in viaggio, mi parlava di lei.
Voci diverse in tempi a volte molto distanti tra loro, accontentando la mia inesauribile malcelata tristezza, riuscivano a farmi rivivere un lampo dell’essenzialità che avevo abbandonato con crudele autolesionismo.
Gilda la rossa.
-«Ha aperto un bar, il Ruk Ruk, frigge panzarotti ed arancini a bizzeffe.»
-«Ha fatto i soldi, si è comprata una casa con giardino e terrazzo, sai, nel vicolo della fontana.»
-«La notte di San Lorenzo si sono appostati quasi tutti i suoi pretendenti, una cinquantina, sul marciapiede di fronte al Ruk Ruk per farle sapere che se avessero visto cadere una stella, lei sarebbe stato il desiderio espresso.
Senza scorno.»
-«è sempre più focosa e appassionata, ma continua a non volere nessuno.»
-«Guglielmo ‘O Stuorto le ha detto che tu hai rinnovato il contratto di lavoro per altri cinque anni, si è messa a piangere e non si è vista in giro per tre giorni.»
-«Ha cambiato tutto il locale.
Ti spiegai com’era?
Adesso, come si dice, è un locale moderno.
Niente più panzarotti, sta aperto solo di notte, ha tolte le reti e le nasse dalle pareti, tutto nuovo, lucido, americano, la musica, i liquori, le sedie alte intorno al banco, le luci nascoste sotto i tavoli e dentro le bottiglie.
C’è scritto “GILDA, AMERICAN BAR.”»
-«Non si vede più a fare la spesa, a sculettare sul corso, a scegliere nei negozi una tovaglia da aggiungere al corredo.
Esce la sera e ritorna all’alba.
Da casa al locale e tutto il contrario.»
-«è venuto uno di un altro paese, parlava italiano spagnolo, si muoveva come una femmina, aveva una voce incupita e le mani più lunghe del normale, è entrato una sera da Gilda, e il domani in piazza comprava i fiori per lei.»
-«Gilda ha saputo che ti avevo incontrato e mi ha chiesto se era vero che avevi firmato per altri cinque anni.
Che le dovevo dire?
Le ho risposto “è vero”.
Mi ha detto “Vieni a bere una birra al nostro addio.” Che significava? Tu lo sai?»
-«Quel mezzo straniero le ronza intorno senza tregua.
Si vanta di aver combattuto in Viet Nam. Mostra spesso a tutti una ferita, secondo lui provocatagli dalle schegge di una mina.»
-«Ha la barba su tutta la faccia, si vede solo il naso e la fronte.
A me pare drogato.»
-«Rosina ha detto che Carmela ha detto che lei (Gilda) ha detto a lui (lo straniero) che lui le pareva una faccia conosciuta: “I tuoi occhi li ho già visti, la tua voce la conosco, ti muovi come… “ non ha specificato il nome, ma lei, Rosina, crede che Gilda stesse pensando a te.»
-«L’ha messa con la pancia, sì, come si dice, l’ha incinta, e appena l’ha saputo è sparito, squagliato. Nessuno ne ha più saputo niente… mi spiace per lei, ma è un grande stronzo, fa schifo.
Nemmeno un indirizzo ha lasciato. Un numero di telefono, nulla.
Svanito come al tocco di una bacchetta magica.»
-«Gilda lo chiama “Il Bastardo”.»
-«Il pupo è biondo, si chiama Isidoro.»
Continua lunedì prossimo
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Liga Sarah Lapinska intervista Ajub Ibragimov,
quinto classificato alla sezione “Arti grafiche” del Premio “Otto Milioni – 2021”
D: «Come fai a creare per così tanto tempo senza perdere il tuo sogno?
“Quali emozioni per il nostro Premio Made in Ischia “Otto milioni?»
R: «La cosa più importante nelle mie opere d’arte è l’idea.
L’arte digitale e la tecnologia digitale sono come una bacchetta magica nella mia mano, che mi permette di scegliere istantaneamente i colori e trasformare il mondo in cui viviamo.
Il mio stile di vita è: mi sveglio quasi ogni mattina con un’idea di cosa posso fare oggi. Mettermi in contatto, parlare e rimanere in contatto.
Ho creato circa 1000 opere d’arte. Ho regalato la maggior parte di loro. Quando vedo un sorriso e mi rendo conto che la mia opera sia piaciuta, ho la voglia subito di regalarla.
Circa 300 delle mie opere sono nella mia galleria personale.
Se non c’è segreto e scintilla nelle nostre opere d’arte, allora non sono commuoventi e vengono rapidamente dimenticate»
Ho partecipato al Premio”Otto milioni”organizzato dall’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” e io dico un grande grazie agli organizzatori invitando tutti a scrivere ancora e ancora di questo premio per non dimenticare. »
D: «Che cos’è il tempo?»
R: «Il tempo è un dono di Dio per noi.»
D: «Hai affrontato delle resistenze quando hai deciso di diventare un’artista?»
R: «Non ho incontrato resistenza attiva. Mio padre, che ora è morto, era un sacerdote musulmano. Secondo la religione musulmana non è permesso dipingere esseri viventi. Pertanto, mio padre all’inizio non era contento della mia scelta, ma in seguito ha cercato di capirmi e mi ha persino sostenuto nello studio.»
D: «Come sei riuscito a stabilirti in Germania?»
R: «Sono in Germania da 19 anni e sto pensando di restare qui per tutta la vita.
Non appena sono arrivato, mi è stata data una casa in cui vivere e ho ricevuto assistenza medica per alleviare lo stress. Sono stato aiutato ad arrivare qui, ma mi sono impegnato molto.»
D: «Sei sempre rimasto in contatto con la tua gente nel Caucaso e con colleghi e amici in tutto il mondo?»
R: «Sono stato in contatto, in particolare, con l’artista Abu Pashaev e con il critico e storico d’arte Alvi Dakho.
In tutto il mondo, dall’India all’America, sono invitato alle mostre, ma non è possibile andare di persona ovunque.»
D: «Come riesci a organizzare le mostre?»
R: «A causa dei vincoli della pandemia di COVID ora è un problema organizzare mostre dal vivo. Le opere vengono toccate da adolescenti che hanno preferito quadri e grafiche a discoteche o concerti, così come da persone molto anziane che hanno desiderato guardarle.»
D: «Come vengono organizzate i master class?»
R: «Ai danzatori di lezginka viene mostrato un posto dove ballare. All’artista viene anche mostrato il suo posto per mostrare la sua maestria. Non importa quali colori sono a portata di mano in quel momento.»
D: «Quali idee hai come maestro di designi? Le tue astrazioni, così come la tua calligrafia, stanno benissimo su tessuti, costumi, tappeti, vasi, decorazioni per la casa. Ricevi suggerimenti?»
R: «L’interesse è grande e positivo. Tuttavia, nessun accordo è stato ancora raggiunto».
D: «Cosa ti dà la forza di vivere?»
R: «Possibilità di contatto e stima di creare.
Va bene se l’artista ha la sua bottega, o almeno il suo spazio, dove può creare e sperimentare senza ostacoli. Energia e ispirazione diminuiscono nelle difficoltà della vita, così come quando non ci rendiamo più conto di ciò di cui abbiamo veramente bisogno. L’arte e la creazione sono lo stesso che l’amore.»