Il Dispari 20220117 – Redazione culturale DILA

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Il Dispari 20220117 – Redazione culturale DILA

Il Dispari 20220117

Il Dispari 20220117

Il Dispari 20220117

Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”

La sesta firma – 7a puntataCapitolo quinto

Da quel pomeriggio di sole arrogante e di buia solitudine, nel quale neanche il pudico esplicito invito di Gilda aveva ottenuto l’effetto di distogliere il mio proposito di partenza, non ero ritornato sull’isola se non in occasione di qualche festività, e non avevo mai cercato di incontrarla.

Neppure un contatto.

Nessuna corrispondenza, né una telefonata.

Perché farlo?

L’incontro dei nostri sentimenti avrebbe avuto necessità di ulteriore maturazione, d’altre vicende, per manifestare completamente l’attrazione che ci possedeva da sempre.

Un anno… due anni… il tempo indispensabile a che la fanciulla diventasse una donna.

Ma io ero partito troppo presto.

Lasciando incustodito l’unico fiore del mio giardino.

Tuttavia, ogni volta che gli strani incroci dei flussi migratori avevano condotto un qualche nostalgico compaesano dalle mie parti, dopo i convenevoli e le informazioni sulle condizioni delle nostre famiglie, immancabilmente, egli, chiunque fosse e per qualsiasi motivo si trovasse in viaggio,  mi parlava di lei.

Voci diverse in tempi a volte molto distanti tra loro, accontentando la mia inesauribile malcelata tristezza, riuscivano a farmi rivivere un lampo dell’essenzialità che avevo abbandonato con crudele autolesionismo.

Gilda la rossa.

Ha aperto un bar, il Ruk Ruk, frigge panzarotti ed arancini a bizzeffe.»

Ha fatto i soldi, si è comprata una casa con giardino e terrazzo, sai, nel vicolo della fontana.»

La notte di San Lorenzo si sono appostati quasi tutti i suoi pretendenti, una cinquantina, sul marciapiede di fronte al Ruk Ruk per farle sapere che se avessero visto cadere una stella, lei sarebbe stato il desiderio espresso.

Senza scorno.»

è sempre più focosa e appassionata, ma continua a non volere nessuno.»

Guglielmo ‘O Stuorto le ha detto che tu hai rinnovato il contratto di lavoro per altri cinque anni, si è messa a piangere e non si è vista in giro per tre giorni.»

 

Ha cambiato tutto il locale.

Ti spiegai com’era?

Adesso, come si dice, è un locale moderno.

Niente più panzarotti, sta aperto solo di notte, ha tolte le reti e le nasse dalle pareti, tutto nuovo, lucido, americano, la musica, i liquori, le sedie alte intorno al banco, le luci nascoste sotto i tavoli e dentro le bottiglie.

C’è scritto “GILDA, AMERICAN BAR.”»

Non si vede più a fare la spesa, a sculettare sul corso, a scegliere nei negozi una tovaglia da aggiungere al corredo.

Esce la sera e ritorna all’alba.

Da casa al locale e tutto il contrario.»

è venuto uno di un altro paese, parlava italiano spagnolo, si muoveva come una femmina, aveva una voce incupita e le mani più lunghe del normale, è entrato una sera da Gilda, e il domani in piazza comprava i fiori per lei.»

Gilda ha saputo che ti avevo incontrato e mi ha chiesto se era vero che avevi firmato per altri cinque anni.

Che le dovevo dire?

Le ho risposto “è vero”.

Mi ha detto “Vieni a bere una birra al nostro addio.” Che significava? Tu lo sai?»

Quel mezzo straniero le ronza intorno senza tregua.

Si vanta di aver combattuto in Viet Nam. Mostra spesso a tutti una ferita, secondo lui provocatagli dalle schegge di una mina.»

Ha la barba su tutta la faccia, si vede solo il naso e la fronte.

A me pare drogato.»

Rosina ha detto che Carmela ha detto che lei (Gilda) ha detto a lui (lo straniero) che lui le pareva una faccia conosciuta: “I tuoi occhi li ho già visti, la tua voce la conosco, ti muovi come… “ non ha specificato il nome, ma lei, Rosina, crede che Gilda stesse pensando a te.»

L’ha messa con la pancia, sì, come si dice, l’ha incinta, e appena l’ha saputo è sparito, squagliato. Nessuno ne ha più saputo niente… mi spiace per lei, ma è un grande stronzo, fa schifo.

Nemmeno un indirizzo ha lasciato. Un numero di telefono, nulla.

Svanito come al tocco di una bacchetta magica.»

Gilda lo chiama “Il Bastardo”.»

Il pupo è biondo, si chiama Isidoro.»

Continua lunedì prossimo

https://www.emmegiischia.com/wordpress/bruno-mancini/prose/per-aurora-vol.3/

Il Dispari 20220117

Il Dispari 20220117

Liga Sarah Lapinska intervista Ajub Ibragimov,

quinto classificato alla sezione “Arti grafiche” del Premio “Otto Milioni – 2021”

D: «Come fai a creare per così tanto tempo senza perdere il tuo sogno?
“Quali emozioni per il nostro Premio Made in Ischia “Otto milioni?»
R: «La cosa più importante nelle mie opere d’arte è l’idea.
L’arte digitale e la tecnologia digitale sono come una bacchetta magica nella mia mano, che mi permette di scegliere istantaneamente i colori e trasformare il mondo in cui viviamo.
Il mio stile di vita è: mi sveglio quasi ogni mattina con un’idea di cosa posso fare oggi. Mettermi in contatto, parlare e rimanere in contatto.
Ho creato circa 1000 opere d’arte. Ho regalato la maggior parte di loro. Quando vedo un sorriso e mi rendo conto che la mia opera sia piaciuta, ho la voglia subito di regalarla.
Circa 300 delle mie opere sono nella mia galleria personale.
Se non c’è segreto e scintilla nelle nostre opere d’arte, allora non sono commuoventi e vengono rapidamente dimenticate»
Ho partecipato al Premio”Otto milioni”organizzato dall’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” e io dico un grande grazie agli organizzatori invitando tutti a scrivere ancora e ancora di questo premio per non dimenticare. »
 
D: «Che cos’è il tempo?»
R: «Il tempo è un dono di Dio per noi.»

D: «Hai affrontato delle resistenze quando hai deciso di diventare un’artista?»
R: «Non ho incontrato resistenza attiva. Mio padre, che ora è morto, era un sacerdote musulmano. Secondo la religione musulmana non è permesso dipingere esseri viventi. Pertanto, mio ​​padre all’inizio non era contento della mia scelta, ma in seguito ha cercato di capirmi e mi ha persino sostenuto nello studio.»

D: «Come sei riuscito a stabilirti in Germania?»
R: «Sono in Germania da 19 anni e sto pensando di restare qui per tutta la vita.
Non appena sono arrivato, mi è stata data una casa in cui vivere e ho ricevuto assistenza medica per alleviare lo stress. Sono stato aiutato ad arrivare qui, ma mi sono impegnato molto.»

D: «Sei sempre rimasto in contatto con la tua gente nel Caucaso e con colleghi e amici in tutto il mondo?»
R: «Sono stato in contatto, in particolare, con l’artista Abu Pashaev e con il critico e storico d’arte Alvi Dakho.
In tutto il mondo, dall’India all’America, sono invitato alle mostre, ma non è possibile andare di persona ovunque.»
 
D: «Come riesci a organizzare le mostre?»
R: «A causa dei vincoli della pandemia di COVID ora è un problema organizzare mostre dal vivo. Le opere vengono toccate da adolescenti che hanno preferito quadri e grafiche a discoteche o concerti, così come da persone molto anziane che hanno desiderato guardarle.»

D: «Come vengono organizzate i master class?»
R: «Ai danzatori di lezginka viene mostrato un posto dove ballare. All’artista viene anche mostrato il suo posto per mostrare la sua maestria. Non importa quali colori sono a portata di mano in quel momento.»

D: «Quali idee hai come maestro di designi? Le tue astrazioni, così come la tua calligrafia, stanno benissimo su tessuti, costumi, tappeti, vasi, decorazioni per la casa. Ricevi suggerimenti?»
R: «L’interesse è grande e positivo. Tuttavia, nessun accordo è stato ancora raggiunto».

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D: «Cosa ti dà la forza di vivere?»
R: «Possibilità di contatto e stima di creare. 
Va bene se l’artista ha la sua bottega, o almeno il suo spazio, dove può creare e sperimentare senza ostacoli. Energia e ispirazione diminuiscono nelle difficoltà della vita, così come quando non ci rendiamo più conto di ciò di cui abbiamo veramente bisogno. L’arte e la creazione sono lo stesso che l’amore.»

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Il Dispari 20220110 – Redazione culturale DILA

Il Dispari 20220110

 

Il Dispari 20220110 – Redazione culturale DILA

Il Dispari 20220110 – Redazione culturale DILA

Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”

La sesta firma – 6a puntata

Capitolo terzo

  […]

Forza, basta chiacchiere, vuttamm ‘e mane. A una voce.
Ohhh vai. Ohhh vai. Ohhh issa: Ohhh issa.
Metti uno scanno.
Vuttamme vuttamme.
Ohhh vai

I notturni lavoratori del fondo marino non si scandalizzarono più di tanto, quando notarono che mi ero steso a riva con scarpe e cravatta, mezzo dentro e mezzo fuori della risacca.

Le pratiche faticose della loro quotidianità non lasciavano balenare il flusso di emozioni che mi spingevano in quell’atteggiamento irrazionale e palesemente sconveniente.

Docile, m’immergevo tra i bisbigli della sabbia rotolante sulla sabbia e della spuma spruzzata sulla spuma, con la ragione offuscata dall’incontrollabile seducente rapimento di scrivere la prima poesia per Gilda.

Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda.

Mentre la risacca inzuppava gli indumenti che indossavo dalla mattina, e sussurrava tra i pensieri di una passione tanto antica quanto trascurata, procurandomi la sensazione di essere avvinghiato da un doppio gelido intruso, di colpo, l’inquietante dubbio di aver osato troppo mi fece barcollare e scivolare nel mare, fino alla gola.

Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda, quando ormai avevo già osato troppo!

Infatti, uscendo dal bar, la lunga malinconia cui avevo costretto, da sempre, la mia passione per la rossa inquilina di tutti i miei sogni, si era procurato un varco utile a lasciarle un biglietto.

Avevo lasciato per lei un biglietto alla cassa: “Quando potrò fare una passeggiata, cenare, andare alle giostre, al mare, con te ed il tuo bimbo?

Sarà bello.
Promesso.
Telefonami, 081081081.”

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Capitolo quarto

Le donne delle mie terre sono come le mie terre: arse e rigogliose, luccicanti discrete ed ammalianti, cangianti, vulcaniche, abbandonate sfruttate maltrattate vilipese, affascinanti nonostante tutto.

Le più belle del mondo per me che le vivo, fantastiche per i fortunati che riescono a raggiungerne le riservate essenze.

Tante volte mi ero invaghito delle une e delle altre!

Fin da ragazzo, durante ogni ritorno sull’isola, gustavo le metamorfosi, sia del caos cittadino da antichi equilibri pastorali, sia dei luminescenti palazzacci rapidamente mutati in scintillanti alberi stagliati tra un sole al tramonto e l’ombra di un ruvido promontorio.

Allo stesso modo, nei piacevoli abbandoni che permeavano i diversi percorsi d’avvicinamento alla mia isola, inserisco anche una lenta dissolvenza dell’incessante lamentoso miscuglio di suoni artificiali metropolitani.

Gli gnomi custodi degli antichi tesori naturali, e le gelose vestali addette alle tradizioni patriarcali, insieme abbarbicati sulle mie terre, lasciavano fluire, a poco a poco, bucolici chiarori ad incontaminati segnali acustici di ben definite presenze (pur se prodotti dai martelli e scalpelli vibranti fra le braccia indolenzite di baldi muratori), dai quali, l’attenzione con cui percorrevo le varie tappe che caratterizzavano i miei ritorni, distillava un fascinoso nettare di nostalgia.

Giungere una sera, una notte, da mille chilometri nel porto della mia infanzia era sempre stato uno scoppio d’amore per la mia attesa priva di lusinghe.

D’amore è troppo?
Va bene, allora, d’amore!

Ad ogni ripartenza, dopo una breve o lunga permanenza, quando ormai la contrada, i boschi e le marine già mi avevano riconsegnato il dono di trasformarsi nella mia seconda pelle, allora ogni volta, senza alcuna eccezione, mille volte, le ricordo tutte, poggiavo il piede sul battello con la triste certezza di amare una Maria Luisina Teresa Giuseppina… Gilda.

Gilda.

In un pomeriggio di luglio di tanti anni fa mi girava intorno, rincorsa dalla balia con in mano un piatto di polpettine, una bambina mingherlina e indisponente.

Gilda.

Non voleva mangiare, voleva mangiare alle sue condizioni, voleva mangiare ma sapeva che se avesse fatto meno moine non sarebbe stata inseguita, coccolata adulata.

Il giorno della mia promozione scolastica al ginnasio, avevo tredici anni, Gilda finì a rotolare veloce tra le ruote della bicicletta (che per quella occasione avevo ricevuto in regalo) ed i miei piedi, che a mala pena toccavano terra con la punta.

Ruzzolammo entrambi per terra.
Al Corso Colonna, davanti al bar Italia.
La balia mi ordinò, quasi un presagio: “Acchiappala.”

Crescendo, gli anni di differenza tra me e lei divennero meno vistosi, ma i percorsi delle nostre scelte si divaricarono in direzioni quasi mai congiunte.

Spilungona e scorbutica, da adolescente le prendeva e le dava senza piangere.

Come un vero maschiaccio rompeva il naso ai bulletti se la trattavano da femminuccia, salvo poi correre annaspando, una sera d’aprile, verso le mie gambe che reggevano la grossa moto avuta in regalo per l’ultimo esame universitario.

Il ragazzetto di turno, quasi un presagio, le urlò: “Acchiappalo, perché se parte rimani sola.”

Alcuni anni dopo, pur essendo consapevole di aver programmato una lunga, forse lunghissima lontananza, in me non vi era stata superbia decidendo di lasciare gli amici ed i luoghi cari senza voltarmi.

In quella occasione non fu assente dal caos del mio mondo interiore né il forte dispiacere di uscire dal palcoscenico delle spavalde passioni giovanili, né la consapevole testardaggine di rifiutare che mio padre continuasse a credersi padrone della mia vita.

L’aveva fatto per quasi un quarto di secolo, doveva bastargli.

Nel pomeriggio luminoso e silenzioso in cui, senza valigia e senza cappotto, m’incamminai verso il battello che mi avrebbe trasportato oltre il muro prigione dell’isolamento marino, sulla così detta terraferma, quel giorno, era il tre settembre di un anno bisestile, la mia partenza non mi apparteneva come una fuga superba, ma come il risultato della indomabile spinta di un dolore.

Gilda, nella sfacciata bellezza della sua fresca fioritura, rossa, accoccolata ad accarezzare una micina spelacchiata sulle scale di una banca, vedendomi camminare da solo e desiderando che le giungessi accanto, fece un cenno d’invito ed appoggiò la mano sul gradino, mostrando il posto al suo fianco dove avrei potuto sedere.

Tanto bastò alla gatta per scappare nella mia direzione.

Prima la bestiola e poi lei, non so se per inseguirla o per venirmi incontro di corsa, scivolarono rotolando tra le mie gambe.

Quasi fosse stato un presagio, la vicina chiesa sbatacchiò tutte le campane, la nave all’ormeggio fischiò con tutti i fumaioli, l’allarme antifurto sconquassò le vetrate dell’istituto di credito, mentre un tassista di passaggio pigiando il clacson come si usa al corteo di una sposa, rideva rideva rideva suonava suonava suonava diceva diceva diceva “Acchiappala acchiappalo acchiappala acchiappalo.”

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Continua lunedì prossimo

Il Dispari 20220110 – Redazione culturale DILA

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LA VOCE DI CIRCE: “A Ischia l’incanto ti punge gli occhi per quanto è immenso.”

Il romanzo epistolare “La voce di Circe”, scritto da Lucia Fusco, edito da Senso Inversi, è il racconto dell’affascinante storia d’amore tra Mariano e Elettra.

Mariano vive a Caracas mentre Elettra vive a Roma.
Un racconto dell’emigrazione in Venezuela, avvenuta prima della seconda guerra mondiale, dei genitori di Mariano provenienti dalla Basilicata.

Elettra sposata, ma separata dal marito viziato e maldestro, incontra Mariano a Roma.

Il romanzo epistolare è ricco di altri personaggi importanti collegati ai due protagonisti.

Il ritmo della lettura segue l’avvicendarsi delle stagioni, travolge con la profondità delle passioni.

Lo stile è discorsivo, elegante e scorrevole.

L’autrice ci porta a conoscere le bellezze di Roma, dell’Agro Pontino, e dell’isola d’Ischia scrivendo, tra l’altro “A  Ischia l’incanto ti punge gli occhi per quanto è immenso. Non sai dove riposare lo sguardo. Salire sul monte Epomeo è stato emozionante, avevo tanti ricordi di questo luogo, ci ero stata da ragazzina con i miei genitori e con Ferruccio, mi ricordavi di questo tempio della natura, dicono che qui si trovi una porta magica, Agartha, che conduce al centro della terra dove esiste un mondo sotterraneo. Dalla cittadina di Serrara Fontana abbiamo […].

La Voce di Circe è una storia intensa, con finale da scoprire.

Facciamo gli auguri alla scrittrice Lucia Fusco, Vice Presidente delegata Italia dell’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” per un sicuro successo editoriale.

Angela Maria Tiberi

Il Dispari 20220110 – Redazione culturale DILA

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Il Dispari 20220103

Il Dispari 20220103 – Redazione culturale DILA

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Dal libro di Bruno Mancini “Per Aurora volume terzo”

La sesta firma. 5a puntata

Capitolo terzo

Troncai di botto elucubrazioni e sotto insiemi di pensieri, ansiti interiori per timorosi accumuli d’indecenti indecisioni e contrapposte mature certezze mai esaminate con compiutezza, virtuose virtù precipitate in una quotidianità brutalmente anonima e… uscii.

Uscii.

Non mi mossi in cerca di avventure.

Non avevo deciso di costruire la notte più bella della mia esistenza.

Ai miei passi mancava l’intenzione di reiterare assalti a Ciccioline con poche pretese ed illimitate dedizioni. Né tanto meno, la cadenza monotona dell’andatura mi spingeva verso l’alcova di qualche indimenticabile gheiscia trasferita nella mia isola dalle fantasticherie, finanche eccessive e perverse ma giammai sguaiate, disseminate tra le balere notturne nell’arrendevole Budapest degli anni ottanta.

Le notti senza stelle delle mie peregrinazioni epicuree!

Neppure volevo mortificare i teneri boccioli, o forse solo appendici irrilevanti, che piccoli corpi anonimi offrivano entro bettole, di facili identificazioni per le insegne con gli ideogrammi del lontano oriente, affogate nei fumi e nella coca.

Il Dispari 20220103 – Redazione culturale DILA

Il Dispari 20220103 – Redazione culturale DILA

Ne avrei avuto buon motivo, considerando gli onori che il giorno prima mi aveva generosamente elargito la mia cara amica Aurora, la donna guascona, la “Signora”.

Oltre tutto, percepivo ancora, incalzante, scandito in un ticchettio mentale, ogni singolo minuto che aveva caratterizzato la fase finale di quell’avvincente incredibile avventura, iniziata, quasi per caso, dalla improvvisa ed inaspettata telefonata con la quale Aurora mi aveva comunicato di essere stato “convocato”.

Quei momenti mi apparivano ancora scandire le ansie, per tutti i densi fardelli di domande senza risposte e di desideri irrealizzabili, che mi avevano oppresso durante il conto alla rovescia iniziato da meno quindici alla presenza d’Ignazio.

Cosa sono quindici minuti per risolvere un passaggio dalla vita alla morte?

Sono molti?

Sono pochi?

Sono sufficienti?

A chi affidarsi nel quarto d’ora che un cieco destino ci conceda prima di traghettare la nostra mente in un sito ignoto?

Ai maghi?

Ai demiurghi?

Agli amici?

Nell’incalzante ossessione delle lancette, per novecento secondi, novecento battiti senza pause. Nella successione, tic tac, in altre occasioni ritenuta finanche monotona, ridicola.

Quali risorse attivare per trasformare l’origine del battito assassino degli ultimi minuti, in ordigno auto distruggente?

Soldi?

Potere?

Impegno?

Uscii per cercare una spiegazione alla improvvisa, inusuale, sensazione di solitudine

Piano piano, passo dopo passi, lemme lemme, lemme lemme, passo dopo passi, piano piano, mi ritrovai appoggiato al banco rivestito con formica azzurra del bar in Via Colonna, davanti al quale, poche ore prima, avevo imparato dalla bella Gilda che non tutte le birre si possono bere in un sorso solo.

Lei non c’era. Non era tardi. Le dieci di sera ad Ischia potrebbero essere paragonate alle ore antecedenti l’alba per Milano.

Non la vidi o non c’era?

Alla cassa una ragazzona squintalata.

Troppi gelati?

Poco sport?

Spaghetti a gogo?

Disfunzione Epomeidea?

Su uno sgabello giallo (tre piedi di ferro verniciato a fuoco, un cerchio di plastica rossa, lo stemma di una marca di gelati multinazionali super popolari come la mia birra), un bimbo biondo con boccoli sciolti fino alle spalle, dondolava le gambe, guardando la TV e succhiando un ghiacciolo.

Lo conoscevo.

L’uomo al tavolo d’angolo, con la sigaretta mai spenta bruciacchiata nei baffi e tra le dita, era noto a tutti.

Tre quarti degli indigeni, ed un terzo dei villeggianti, avevano almeno sentito parlare del Principe Innocente.

Lei non c’era o non la vedevo.

Il Dispari 20220103 – Redazione culturale DILA

Il Dispari 20220103 – Redazione culturale DILA

Accostandomi con finta disattenzione alla porta semichiusa che introduceva al locale “Privato” (un mini ambiente adattato ad ufficio, spogliatoio, deposito, officina), vi detti una sbirciata. Lei non c’era.

Al banco bar, Gianni serviva da bere e folleggiava da solo…

E lei, Gilda?

Non lo sapevo, forse non lo sapevo, credo che forse non sapevo di essere lì per lei.

Ero lì per lei e non lo sapevo, penso che io non sapessi di essere lì per lei, credo ecc.

Gilda.

Tornai verso casa con una nuova euforia, poco consona sia al mancato incontro con l’esuberante vitalità della rossa Gilda, sia alla robusta delusione di non aver neppure tentato una soluzione per il quesito che mi aveva turbato all’uscita di Geltrude dalla stanza. Una serata nottata no, negativa, eppure non deprimente.

Era una specie d’infantile beatitudine, un compiacimento.

Una serata – nottata quasi goliardica, da filone scolastico. Mai successo da decenni.

Vi aggiungeva un pizzico di fisica piacevolezza anche il forte vento di ponente, che s’insinuava tra le barche cariche di nasse pronte a prendere il mare. Non era la solita brezza che rinfresca, un attimo prima dell’alba, le notti delle afose estati ischitane, no, non era una brezza passeggera.

Come una giovanile compagna d’avventure, chiacchierona, l’aria, fluendo, mi soffiava la sua vitalità nel naso tra gli occhi nella bocca e sulla pelle.

La salsedine portata dal vento, quasi riempiva le rughe lasciate scoperte sul mio viso dal taglio della barba – barbona – barbaccia che fino a pochi giorni prima infoltiva grigiastra.

Il profumo delle praterie di posidonie, nastriformi ripari per gli scorfani e le mormore durante gl’inseguimenti subacquei che avevo concluso quasi sempre senza prede nell’ultima estate trascorsa ad Ischia, ad ogni più forte refolo dell’incipiente buriana – Don Chisciotte contro i mulini -, si accaniva contro i malefici aromi di sigari e sigarette inzuppati nei peli e nelle cartilagini del mio naso nasone nasaccio.

Soffiava forte, non era una brezza, il vento di ponente, a raffiche dolorose per gli occhi che trattenevo aperti, ed intanto umettava, con una soffusa vaporosità, le mie labbra socchiuse, quasi in un bacio. Nell’abbraccio malizioso di una prima volta.

Avevo preferito ritirarmi passando sulle passerelle di legno a ridosso degli scogli scuriti dalla luna al tramonto oltre la collina, piuttosto che opprimere maggiormente, con un percorso più usuale, la delusione di non aver tolto neppure un grammo al dilemma del mio sentirmi solo.

Tutti i più anziani pescatori conservavano, in precisi ricordi, le stravaganze giovanili delle mie sortite notturne. Iniziando dai modi con i quali, di solito, avevo cercato fisicamente i contatti con la natura, fino alle domande che ponevo. Anch’esse, dal loro punto di vista, erano sempre state considerate ben strane e strampalate.

è bravo, ma è un po’ matto» dicevano di me parlando tra loro.

L’amante l’ha lasciato per un marocchino indiano. Io l’ho visto sul pontile, aveva i capelli come quelli dei film, lisci azzeccati e neri, non scuri, neri.

Lui era stato fuori per lavoro, lo sai com’è, viaggia, scrive, legge, cambia albergo.»

Non ha mai avuto amanti, che dici.»

Che ne sai tu, tutte balle…»

Mi chiamo Totonno ‘O Saragone perché so tutto di te di lui come dei saraghi e delle spigole.»

Non ci credo, è sempre stato sballato.»

Da piccolo me lo ricordo in bicicletta fare gare con la carrozza della buonanima di Bastiano.

Che ti credi che non lo conosco? Non ha mai avuto un’amante. Forse era una segretaria.»

Tutti lo sappiamo. Ne aveva tante.»

-« è stato sempre così. 

Bravo. Bravo. Brav’uomo. Buongiorno, buonasera, buonanotte, buono tutto, ma non si è mai sporcato le mani a spingere una barca.

Lui dice: “Buongiorno, vuoi una sigaretta? A chi appartieni? Quanti figli hai?”

Non capisce che le barche non funzionano con le parole. Ci vuole sudore e fatica.

E mo’ sta peggio, chi sa perché.»

Cirù, Ciruzzo O Schifo, tu e Totonno non avete capito nu’ cazzo.

Non siete informati.

Non devo chiamarmi più Emilio Tressette E Maniglia se non è vero che sta così per quello che iss ha scoperto ora che è tornato dall’ultimo viaggio. L’avevano chiamato apposta, loro dicono “convocato”.

La sapete la nipote di Nicola Sindacato? Parlava con l’amante di Nicola Sindacato, Rosita Cascettella, guardava le persiane chiuse del Dotto’ e diceva piano piano: “è figlio della colpa. Sicuro. Ho sentito che ascoltava… parlavano zitto zitto… con uno mai visto che però gli somigliava, e che gli diceva: tuo padre non è lui, tua madre è lei, noi siamo fratelli. Gli ha detto proprio così, io stavo dietro la porta, noi siamo fratelli.

Quando due sono fratelli si conoscono, è vero Rosita?

Se non si conoscono è perché non si sanno. O no?  E sono figli di puttana”

La nipote di Nicola così ha detto, proprio così: figli di puttana.»

Forza, basta chiacchiere, vuttamm ‘e mane. A una voce.

Ohhh vai. Ohhh vai. Ohhh issa: Ohhh issa.

Metti uno scanno.

Vuttamme vuttamme.

Ohhh vai

I notturni lavoratori del fondo marino non si scandalizzarono più di tanto, quando notarono che mi ero steso a riva con scarpe e cravatta, mezzo dentro e mezzo fuori della risacca.

Le pratiche faticose della loro quotidianità non lasciavano balenare il flusso di emozioni che mi spingevano in quell’atteggiamento irrazionale e palesemente sconveniente.

Docile, m’immergevo tra i bisbigli della sabbia rotolante sulla sabbia e della spuma spruzzata sulla spuma, con la ragione offuscata dall’incontrollabile seducente rapimento di scrivere la prima poesia per Gilda.

Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda.

Mentre la risacca inzuppava gli indumenti che indossavo dalla mattina, e sussurrava tra i pensieri di una passione tanto antica quanto trascurata, procurandomi la sensazione di essere avvinghiato da un doppio gelido intruso, di colpo, l’inquietante dubbio di aver osato troppo mi fece barcollare e scivolare nel mare, fino alla gola.

Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda, quando ormai avevo già osato troppo!

Infatti, uscendo dal bar, la lunga malinconia cui avevo costretto, da sempre, la mia passione per la rossa inquilina di tutti i miei sogni, si era procurato un varco utile a lasciarle un biglietto.

Avevo lasciato per lei un biglietto alla cassa: “Quando potrò fare una passeggiata, cenare, andare alle giostre, al mare, con te ed il tuo bimbo?

Sarà bello.

Promesso.

Telefonami, 081081081.”

 

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