Views: 41
Il Dispari 20210719 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20210719
La menopausa di mia sorella
Racconto a puntate – terza parte
…
Se vi piace leggere racconti a puntate, questa pagina fa al caso vostro, poiché da due settimane abbiamo iniziato a pubblicare (ogni lunedì) una parte del racconto “La Menopausa di mia sorella” inserito nel quinto volume della serie “Per Aurora” scritto dal sottoscritto e acquistabile tramite ISBN 9781409281849 al prezzo di USD 13.36 più spese di spedizione
https://www.lulu.com/en/en/shop/bruno-mancini/per-aurora-volume-quinto/paperback/product-1zmn68dj.html?page=1&pageSize=4,
oppure facendone richiesta all’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” dila@emmegiischia.com al prezzo di € 14.00 comprese spese di spedizione.
La menopausa di mia sorella
Racconto a puntate – terza parte
Capitolo 3
…
Optai per stanare una murena, credo seguendo la tentazione cosparsa mellifluamente dallo stesso piffero magico che aveva accompagnato da protagonista l’inizio della mia immersione, ed effettuai un rapido controllo, sia degli agganci tra la sagola, la cintura, ed il pallone, e sia della posizione in cui era avvitato il tridente all’asta d’acciaio.
Pigiai con due dita sui baffi per agevolare l’aderenza della maschera fra la bocca e il naso.
Spinsi leggermente il tubo del boccaglio verso il punto di contatto tra la molla della Pinguino ed il lato frontale della mia tempia.
Per un attimo, di sfuggita, immaginai ancora che il totano originato dalla mia fantasia stesse penzolando a mezza acqua, poco sovrastante il fondo, proprio in un preciso punto sul quale mi si era fermata l’attenzione durante una precedente immersione per avervi visto intrattenere numerosi sciami di novellame, brulicanti con movimenti sincronizzati, e ciascuno sempre nella stessa buca.
Tuttavia, subito dopo, volgendo una rapida occhiata al sacchetto per le catture che portavo agganciato al pallone di segnalazione, partendo dalla ricostruzione di come, alcuni giorni prima io avessi in parte modificato il sistema di aggancio del pallone-boa alla cintura che stringevo in vita per gravarmi dei pesi necessari ad una comoda e veloce discesa, mi arruffai nel ricordo di quando, parlando con uno dei fratelli di Gilda, abile sì nella pesca subacquea, però di una fortuna sfacciata, mi ero lamentato che la conformazione di quel fondale, altalenante, con grossi promontori quasi emergenti ed immediate cadute a picco, non solo rendesse problematica una buona visione e costringesse quindi ad immersioni prive di riferimenti, ma in alcuni casi configurasse degli ostacoli, tra il pallone stesso ed il sub, in grado di bloccarne la discesa.
La parte superiore del cavetto legato al pallone incagliava tra gli interstizi e le protuberanze degli scogli emergenti, opponendo resistenza alla immersione.
Quel mio cognato, esperto fortunato predone delle profondità marine, che aveva un suggerimento per ogni situazione, non mancò l’occasione per dimostrarmi la sua maestria mettendomi a conoscenza di un trucco, a suo dire segreto, che lui usava praticare.
-«Metti la cintura con i pesi intorno alla vita.
Giusto?
Leghi ad essa la fune del pallone boa.
Vero?
Per far sì che il pallone non s’incagli nelle fenditure degli scogli affioranti, devi legare ad un anello un peso tra i cento ed i centocinquanta grammi e farlo scorrere liberamente sulla corda tra la cintura che hai in vita ed il pallone.
Guarda ti faccio un disegno.
In questo modo hai più di un beneficio.
In primo luogo, durante il nuoto in mare aperto, se tu galleggi il pallone sarà quasi attaccato a te in quanto il gancio che sostiene il piombo, spostandosi attraverso l’anello scorrevole, affonderà gran parte della corda, impedendo al pallone di allontanarsi; in secondo luogo, se vorrai immergerti, questo stesso movimento di pesi spingerà la boa a stazionare precisamente sulla tua verticale.
Nell’uno e nell’altro caso, il sistema contribuirà finanche ad una maggiore sicurezza, per quanto riguarda eventuali tardivi avvistamenti da parte di natanti a motore.
Ma ciò che a te interessa è che la boa da segnalazione non si blocchi tra le cime degli scogli, e con il mio artifizio il risultato positivo è sicuro, perché il pallone, non essendo trascinato dalla corrente, seguirà docilmente, da vicino, il tuo percorso, il quale, ovviamente, non andrà in collisione con speroni emergenti. »
-«Bella idea.
Un piombo, un anello.
Semplice. »
Esauriti i pensieri intorno all’argomento piombo-anello-sagola, immediatamente, come in un rosario monotono, ripetitivo, inutile, sciocco, allucinante, altri momenti di vita antecedente, altre meditazioni, altri altari alla ragione incontrastata scompaginarono il già disordinato approccio per il controllo relativo alla corretta sistemazione delle attrezzature che mi portavo appresso nuotando, lentamente, nel profondo mare azzurro cupo, steso come un velo d’odalisca sotto il dirupo digradante dall’antico borgo rurale di Campagnano.
Ed allora mi coinvolsi nel tentare di chiarirmi il giusto e l’ingiusto dei comportamenti che avevo posto in atto negli ultimi tempi.
Forse tentando di risalire ai motivi, se non ai moventi, della crisi che ormai opprimeva il mio rapporto con Gilda.
Una analisi in piena solitudine, tra cielo e mare, tra sole ed abisso.
Da quando ero tornato in maniera definitiva sull’isola d’Ischia, lasciando via via deperire ogni precedente contatto con il mondo dei viaggi e degli incontri, non rispondevo al telefono e, peggio, neanche leggevo un libro o ascoltavo una musica che fossero prodromi di nuovi interessi culturali. D’altra parte schifavo da sempre la televisione, non avevo mai smesso di considerare i giornali come “impapocchia menti” della verità, e l’unico modo intrigante per trascorrere il tempo, oltre ad utilizzarlo nella normale amministrazione familiare, mi era parso utile scorgerlo nella ricerca di inezie complementari ai flussi delle vite che mi passavano accanto.
Da amplificare con tale parossismo da far sì che esse mi provocassero valanghe di vertigini.
Gilda non mancò di notare questi precipitii, a volte staccati dall’algido massiccio della mia ragione, in altri casi appiccicati ad una parte della mia epidermide sentimentale, quasi sempre sviluppatisi nell’apparentemente definitiva discesa di uno yo-yo, le quali tutte mi spingevano comunque verso il centro di singole attività umane, quasi che in esse fossero stipati i segreti del bello e dell’amore.
Lei seguì con cura le tracce che tali mie innocue divagazioni mentali lasciavano attraverso gesti, parole e frasi inserite nel racconto che stavo scrivendo, ed appena ne ebbe certezza, indicò con l’indice il centro della mia fronte e scandì con eccezionale chiarezza, lentamente:
-«Niente di più falso. Nel piccolo non risiede il complesso, e niente è più complesso del bello e dell’amore.»
Mi ero certamente esaltato.
Avevo di sicuro dilatato la tranquillità a volte grigia e passiva di un rapporto consolidato, trasferendo su di essa, pur senza volerlo, ciò nondimeno in maniera automatica ma indubbiamente con pensieri ed atteggiamenti, sfilacciati brandelli di una inarrestabile sindrome distruttiva della ipocrisia e delle colpevoli prevaricazioni.
Se io fossi il loro dio – pensavo, proponendomi un particolare del rapporto tra un dio ed i suoi uomini – m’incazzerei tremendamente per quanta irrisoria partecipazione personale pongono nella difesa della mia universalità.
Urlando nel giardino di casa, iniziai ad urlare che, al suo posto, avrei urlato per tutte le galassie: —«Cosa discutete con quei peccatori originari delle province romane!
Così agendo vi prestate al gioco di profeti che non ho mai annunciati e che hanno ignorato il figlio mio e le mie colombe bianche, imbecilli.
Va bene… vediamo… forse… non ho detto questo… ogni religione è figlia del creatore… il mio creatore è più antico del tuo… il tuo modello è senza barba bianca… vogliamoci bene… siamo tutti nella stessa barca… nessuno deve prevaricare l’altro… una moschea a te, una basilica a me… grande rispetto reciproco per le nostre fedi… una porpora in più, un cappellino in più… un pellegrinaggio… una devozione… una statuina… un libricino… una via…un muro… una sinagoga… un altare… un muro… una cappella… una campana… un muro… un’ostia che significa inganno.
Avete raggiunto la comodità?
Poltroncine, tronetti, portantine, limousine, schiavetti, frocetti, chiavetti, chiav…
Volete altro?
Potere, ricchezza, santità, alleluia, adorazione, potenza, fetenziacce, fetenziaccissime…
Theutto in nome mio.
Restando al riparo della mia invincibilità.
Con in bocca le palline di un rosario c appartengono alla mia verità.
Per effetto di un disonesto proclama e di collettivi auto riconoscimenti d’imbecillità.
Ma io non ho mai dato ques…
Il Dispari 20210712 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20210712
Capitolo 2
…
Senza aver catturato neppure una preda nonostante le numerose calate in cui mi ero impegnato durante quella ora iniziale, ancora mi distraevo fantasticando intorno al dialogo improbabile tra un totano ed una pantegana!
Il totano: -«Che tu, tracotante, sia silente, aggiunge infimo blasone alla forestiera origine da cui provieni e che ci accingiamo, con giusto impegno e faticoso esame, ad irridere o laudare, a confinare nei ghetti della vergogna oppure a sdoganare da calunniose erculee maldicenze. Negarsi il nesso tra rimorsi e sorsi di discorsi infissi nei fossi messi tra i sassi dei troppi “io fossi”, non ritara la rara misura della tenue natura, né ritarda la sorda onda che ti conduce alla luce.
La sorella di quel mio conoscente (un pescatore subacqueo che vedo spesso in giro, un sub con grosse pinne rondine del quale odo vibrazioni mentali durante le sforzate apnee che usa fare da queste parti), venti tempi dopo la nascita, per effetto delle sue “cose” fu serrata, allegra giovinetta, tra quattro mura sette alberi e cinque gatti, e, tuttavia, nessuno ha mai venerato il monastico dolore delle sue progressive privazioni al cospetto di Apollinee forme esibite da fustolenti fustacchi.
Come faccio a non impegnare la tue deludente sapienza verso la dicotomia di una follia e di una folle: lame dai bordi affilati, innocue se divaricate su un cuscino d’appoggio, bensì taglienti quando attacchino unite nel frangere il tessuto?
Allora mi intrigo ad appiccicare le ventose dei miei sette (ne manca uno che ho perso in combattimento) tentacoli sui diversi strati di questo privato mondo sotterraneo e sottomarino, mutando colore e dimensione, mimetizzandomi.
Poi vedremo insieme come finirà… ».
E poi la mia fantasia continuava spostandosi sulla figura silenziosa del ratto…
la pantegana non capiva un tubo.
Essa, da sempre abituata agli sparagnini termini rivieraschi – fame scogli venti gatti – nascondeva l’imbarazzo di fronte all’incomprensibile magniloquente eloquio abissale, spruzzando perfide puzze ad ogni passaggio dei ghirigori che ripeteva intorno al capoccione smisurato del totano poeta.
Ad ogni giro alzava la coda un po’, di più, un po’ di più, di più di un po’, un po’ di più di un po’. Sfiorava i vettini terminali dei suoi tentacoli appassiti mostrando, ad ogni giro, un po’ di più, di più di più il sottocoda schioppettate.
Disse il totano: -«Melliflua tenebrosa, la seduzione è un’arte degli arti abbarbicata nei rovi incastrati tra i detriti degli orti, conserta, con serti, nei cesti concerti di gesti per cupidi musicanti alati.
Vai vaneggiando per vezzeggiate vezzose villiche promiscuità!
Promiscuità è il tocco di un tentacolo di totano nella pelvica passera di una patente pantegana. Riduci i giri, risparmia i sogni, ripensa al tuo delirio di femminilità un dì concupita, ed ora in ansia per asfittici orgasmi.
Rimedia al torto dell’offesa carnale con la ragione degli istinti naturali. Io sono il totano, se voglio… se voglio io sono Poeta.
La sorella dell’imprudente apneista dalla maschera appiccicata al volto di cui ti ho detto, a trenta tempi dalla nascita usava cospargere di miele e di nettare le rotonde bigliette dei suoi capezzolini, dai pizzi puntuti, per avvampare l’infimo piacere del trucido compagno: assatanato assassino dei viaggi in nuvoletta.
Ancora mi stupisce, procace ammasso di nefande nequizie, il vano turpiloquio che gli slabbrati ondeggiare dei tuoi chiapponi sbudellano dal mio teorema concettoso.
Vedrai, insieme, inoltre, infine, sarà tutto facile… ».
Capitolo 3
Quella mattina mi ero immerso, era inizio settembre, con il sole delle prime ore non ancora velato dalla parte basa dell’atmosfera.
Esatto, mi ero immerso.
Mi ero immerso e basta.
Contava poco come, quasi niente dove, ancora meno per cosa, assolutamente non mi chiedevo perché.
Mi ero immerso e basta.
Più o meno come seguissi il piffero di una magia lusingatrice che mi spingesse lontano verso abissi di strane dimensioni, astratte, immateriali, quasi da vivere in altri tempi cosmici.
Magia dissimile certo, forse opposta, rispetto all’irripetibile incantesimo che, durante l’indolente sfrontata giovinezza, sentii trascinarmi semplicemente verso un altrove, corposo, multiforme, edonistico, attimizzato in ogni sfaccettatura.
Sapore di sale.
Una melodia, intrufolatasi per vie misteriose nella parte della mente addetta agli addobbi acustici delle decisioni importanti, prima che io cominciassi a nuotare aveva suonato il tema “maestoso” che caratterizza la sinfonia numero sette di Beethoven, cui aveva fatto seguire, senza alcuna soluzione di continuità, le prorompenti battute iniziali che aprono l’Uccello di fuoco di Stravinsky. Prepotentemente, questi ultimi accordi, come una esplosione d’artiglieria narrata in tante vecchie storie di trincee e di orgogliosi disprezzi del pericolo, mi scoppiavano intorno e dentro, mentre la mia testa traboccava d’immagini e ripeteva l’ultima frase con la quale Gilda, la sera prima, uscendo di casa, aveva sbattuta la porta. “Il tuo scetticismo uccide la tua fortuna”.
Volevo, sapevo di volere, e sapevo di poter volere.
Cosa?
Volevo volere.
Io non mi ero bardato con cinture e boccaglio per inseguire pesci impauriti o sconvolgere come fulmine tra i licheni nel bosco, le alghe e gli avannotti.
Neppure avevo armeggiato intorno ai tridenti allo scopo d’infilzarne le punte limate e stralimate, molate, scartavetrate e lucidate, nelle squame di scorfani immobili o nei morbidi opercoli delle seppioline…
Ancora non sapevo che un flauto magico mi spingeva verso di lei.
In effetti, senza averne coscienza, non altro che per lei mi ero gravato in vita con tre chili di piombo.
Un simbolo, la murena. l’immobile predatrice.
La bestia mai impaurita dal progressivo avvicinamento della morte che si accosta mimetizzata in una macchia scura: la tuta nera del subacqueo che piomba in discesa dal cielo.
Feroce se mostra la bocca spalancata, già pronta a ghermire.
Tenace, lascia scoperti i denti arcuati: ganci indeformabili come l’acciaio.
Solitaria.
Rinchiusa in una tana in cui lo spazio è minimo.
Arrotolata su se stessa in modo da aderire con forza alle pareti al fine d’impedire alla preda azzannata di fuggire trascinandola con sé.
Volevo la murena: una poesia.
Ne andavo alla ricerca.
Senza averne consapevolezza.
Attende il momento atto a coglierti di sorpresa, e se ti morde un dito, non puoi far altro che tagliarlo per non restare ancorato al fondo dalla tenacia del suo aggancio.
Molti Cacciatori sono stati cacciati, cioè molti Pescatori sono stati pescati, voglio dire che molti Sub sono rimasti sub, molti Poeti non hanno mai affrontato una murena.
Molti Traditori sono stati traditi.
Quella mattina, come ho già detto era inizio settembre, Gilda era rincasata quasi all’alba perseguendo a suo modo l’intento di dare un segnale concreto ed immediato alla ennesima litigata che avevamo protratto per tutta la sera precedente, prima che sbattesse la porta uscendo:
-«Hai chiamato l’idraulico?»
-«No. »
-«Perché?
Quanto tempo dovremo stare con la goccia che cade nel lavello?
Possibile che la casa non debba mai essere in ordine?
Mi senti?
Mi ascolti?
Dico a te, mi odi?
Non solo non gli hai telefonato, ma fai pure l’offeso.
Il silenzioso.
L’insofferente.
Quando mi portavi le rose rubate, ai tempi del nostro amore, non aspettavi due volte per accontentare un mio desiderio!
Era bello.
Ero bella.
Ti piaceva.
Ti piacevo.
è sempre stato solo questo.
Piacere.
La molla che fa girare il mondo attraverso i coglioni…»
-«E basta.
Appena ti mollo, cazzo, non la finisci più.
Non l’ho chiamato.
Capito?
Non l’ho chiamato.
E non lo chiamo.
E basta… »
-«No, basta lo dico io.
Che molli, che cazzo, che basta.
Che basta, che cazzo, che molli.
E una, e due, e tre, e insomma quanto pensi che potremo andare avanti così?
Un giorno litighiamo per il cibo, una sera discutiamo per la gente, una notte sbuffiamo per una toccata, e poi gli orari, e poi la macchina, e poi, e poi l’idraulico.
Sono stanca. »
Quella mattina di settembre, giunto ormai a quasi la metà del tempo che di solito prevedevo di utilizzare per l’immersione, mi resi conto che dovevo almeno per un attimo tentare di designare, sebbene posticcio, un qualche obiettivo da prospettare per la mia battuta di caccia, ed occuparmene, tralasciando sia le immagini del totano filosofeggiante e dell’attigua pantegana in attenta adorazione, e sia le considerazioni relative alle ossessioni che mi stavano procurando le ultime vicende affettive.
Il Dispari 20210705 – Redazione culturale DILA
Il Dispari 20210705
La menopausa di mia sorella
Racconto a puntate – prima parte
Se vi piace leggere racconti a puntate, questa pagina fa al caso vostro, poiché da oggi e per alcune puntate settimanali (di lunedì) pubblicheremo una parte del racconto “La Menopausa di mia sorella” inserito nel quinto volume della serie “Per Aurora” scritto dal sottoscritto e acquistabile tramite ISBN 9781409281849 al prezzo di USD 13.36 più spese di spedizione
oppure facendone richiesta all’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” dila@emmegiischia.com al prezzo di € 14.00 comprese spese di spedizione.
La menopausa di mia sorella
Racconto a puntate – prima parte
Capitolo 1
Il totano:- «Cara Pantegana vivo da tredici periodi in questo lembo di liquido abisso rilucente, ma mai prima avevo posato l’olfatto l’udito lo sguardo su nerulee rotondità foriere di simili fetidi squittii.
D’onde vieni, chi sei, perché dondoli poppe e deretano, scomposta e sguaiata, al limitar della mia terra marina?
Pria che tu risponda, sarebbe giusto che sia io a presentare le mie tavole anagrafiche, per dovere d’ospitalità e per sesso.
D’altro canto, nel giroscopico testo unico di civili atteggiamenti, anche il blasone e l’età vengono qualificati come caratteristiche da rispettare con tutte le stucchevoli forme d’ossequio che le situazioni richiedono.
Tuttavia, e solo in quanto le mie onorificenze non ricevono unanime riconoscimento al pari di quelle feudali, né godono di privilegi uguali a quelli riservati alle specie e sottospecie di politici, mi induco a posare la prima pietra della nostra conoscenza.
Cosa c’è?
Quid accidit?
Ho profferto parole insensate o… insensate sono le tue ignoranze?
Ripeto il concetto con termini d’uso plebeo ed esempi tratti dalle notizie del telegiornale, e vengo a chiederti se hai mai saputo di un vincitore del Premio Nobel che, in ragione di tale riconoscimento, abbia sistematicamente beneficiato di aerei personali o auto blu con chauffeur in livrea dai bottoni d’oro.
No, mai successo.
Eppure quel Nobel per la medicina… sì lui… ha salvato con la sua scoperta milioni di ammalati, e, forse, miliardi di futuri contaminati.
Il premio in denaro, la festa alla presenza del RE, il suo nome inciso nel libro d’oro della onorificenza, tante foto in giro per il mondo, sui giornali, per televisione… e basta.
Non farnetico dicendo che sia rimasto povero, eventualmente lo fosse stato, ma affermo che ogni successivo privilegio gli sarà stato intestato in virtù del suo lavoro e non come puro riconoscimento per un titolo certamente più prestigioso di tante patetiche onorificenze politiche e settarie.
Non mi dilungherò nel tediarti con la ricostruzione dei cavilli e delle sopraffazioni usate contro di me da masse d’incolti meridionali per giungere a farmi sprofondare in questo abisso, strumentalizzando una mia mai dimostrata mancanza di rispetto nei confronti della loro populistica deità artificiale di origine argentina – spesso ritratta in brache bianche, maglietta azzurra ed un pallone di cuoio appiccicato al piede sinistro – soprannominata El Tibe o El Cibe o qualcosa di simile.
Eppure avevo cantato i pastori dell’Ellade in guerra, i fieri naviganti fuggiti dalle troiane mura, l’inferno e il paradiso (il purgatorio mi venne meno bene), Lucia la santarella, il cinque maggio, il piccolo Lord, Cappuccetto rosso e Biancaneve.
Nessuna gratitudine sconfigge mai il danno di un’ultima minima offesa.
Il nostro apporto alla gioia, non effimera, di una emozione continuamente dettata finanche a distanza di secoli per mezzo solo di parole – a volte tradotte da un altro idioma -, e poi i nostri casti baci alla cultura, e poi l’essere o l’essere stati nei pensieri, sentimenti, amori per tutti e di nessuno, cioè tutta la linfa di me poeta, io poeta, travagliato pazzo visionario maledetto stramaledetto stramaledettissimo poeta, tutto ciò non ha retto lo scontro neppure con la stupida statica fotografia di una specie di mini guitto in mutande soprannominato El Sibe o El Bibe o qualcosa di simile.
Tu prova ad aprire il tuo sguardo oltre le comode finestre dei provincialotti inconsistenti particolari luccichii idealistici, e subito comprenderai quanto vero sia che, per ognuna di quelle inondanti apparizioni, il mio contributo poetico filosofico ne ha già, da tempo immemore, sancito la storica immortalità mediante la trasposizione artistica in epopee travagliate e sublimi.
La sorella di un mio conoscente, a dieci tempi dopo la nascita ha avuto le sue “cose” ed è diventata signorinella pallida, però nessuno ha scarnificato l’evento fino all’essenziale apogeo dell’univoco nucleo di recondite armonie bellamente stipate nell’intangibilità delle sue intime segrete sensibilità femminee.
Ciò mi consente di credere che: o non tutti gli eventi hanno per diritto di nascita uguale dignità storica, oppure è vero che anche ciascuna singola stronzata acquisisce una particolare indefessa dignità attraverso il contributo che il “caso” il “fato” il “culo” il “destino” la “sorte” appiccica, non sempre materialmente sul tempo di quelle loro non pavide apparizioni: vedremo casa accadrà… ».
In un gioco senza senso, antico quanto me, nuotando, inventavo questo tipo di storie improbabili delle quali il più delle volte non avrei avuto memoria giunto a riva, e che in gran parte, pur trovandole originali e degne di attenzioni letterarie, non utilizzavo per i miei scritti.
Immaginavo?
Ero convinto che la pantegana, espulsa dalla sua comoda tana dimora della Torre di Guevara a seguito di lavori di ristrutturazione tesi, finalmente, a rendere fruibili agli umani i residui dell’antica struttura soggetta a centenarie asportazioni fraudolente, sguazzando senza arte né parte in una melma fluida di gran lunga meno appiccicosa del liquame presente nella sua familiare fognetta interrata, digiuna, ovviamente bagnata, frullata nel precipitato percorso dal cantiere allo scarico a mare, spelacchiata, con la testa dolente, sofferente di continue vertigini, la coda mozza, la pelle maculata per bozzi e piaghe, bitorzoli, tritorzoli, e di certo gonfia d’acqua salmastra penetratale nel ventre attraverso la bocca l’ano e gli altri orifizi, ascoltando il totano erudito, tacesse.
Dopo circa un’ora di variazioni, integrazioni, puntualizzazioni, precisazioni, riferite al tema principale della nuova elucubrazione natatoria avente per soggetti questi due elementi accomunati in una improbabile coppia di acquatici, mi trovai pochi metri dietro il promontorio denominato Punta Pisciazza, sotto il costone che delimita a sud-est la baia di Cartaromana.
Ero quasi giunto in vista della conca che da quel punto si apre senza percettibili soluzioni di discontinuità fino al Castello Aragonese.
L’escursione subacquea mi sembrava appena iniziata anche se avevo le dita bianchicce, spugnate, le mani mollicce, spugnate, i piedi insensibili strizzati nelle pinne tipo rondine extra-large, il naso tumefatto, spiaccicato contro il vetro indeformabile della maschera “pinguino nero”.
Ogni parte del mio corpo si era conformata in una condizione fisica differente, se non addirittura opposta rispetto allo stato in cui si trovava al momento dell’immersione.
Prima no, prima di scendere in acqua le mie dita, le mani, erano arse, grinzose per le lunghe ore al sole, le narici erano atrofizzate dall’afa, i piedi dolenti per gli impervi percorsi sugli scogli, e non avevo il respiro rumoroso affrettato scomposto ansante a seguito delle apnee lunghe minuti senza fine sfilacciati nell’agguato all’enorme murena che m’era apparsa – intravista – in una fessura di roccia frammista a cespugli di alghe – ondulanti – da cui era formato il fondo del promontorio di Punta della Pisciazza, in direzione della Grotta del Mago lasciata la Baia di Cartaromana.
Capitolo 2
Senza aver catturato neppure una preda nonostante le numerose calate in cui mi ero impegnato durante quella ora iniziale, ancora mi distraevo fantasticando intorno al dialogo improbabile tra un totano ed una pantegana!
Il totano: -«Che tu, tracotante, sia silente, aggiunge infimo blasone alla forestiera origine da cui provieni e che ci accingiamo, con giusto impegno e faticoso esame, ad irridere o laudare, a confinare nei ghetti della vergogna oppure a sdoganare da calunniose erculee maldicenze. Negarsi il nesso tra rimorsi e sorsi di discorsi infissi nei fossi messi tra i sassi dei troppi “io fossi”, non ritara la rara misura della tenue natura, né ritarda la sorda onda che ti conduce alla luce.
La sorella di quel mio conoscente (un pescatore subacqueo che vedo spesso in giro, un sub con grosse pinne rondine del quale odo vibrazioni mentali durante le sforzate apnee che usa fare da queste parti), venti tempi dopo la nascita, per effetto delle sue “cose” fu serrata, allegra giovinetta, tra quattro mura sette alberi e cinque gatti, e, tuttavia, nessuno ha mai venerato il monastico dolore delle sue progressive privazioni al cospetto di Apollinee forme esibite da fustolenti fustacchi.