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Genoveffa Palumbo, Centane. Dove si narrano i casi di Maria, delle sue figlie, dei loro discendenti e collaterali vissuti tra Procida, Napoli e dintorni. Prefazione di Isabella Ducrot,
Aracne Editrice, Canterano 2018,
Genoveffa Palumbo
Il libro di Genoveffa Palumbo si presta a molte chiavi di lettura; chi scrive userà le chiavi di lettura che gli sono più congeniali,
Partiamo dalla chiave antropologica.
L’antropologo fissa la sua attenzione sopra i connotati della vita materiale e intellettuale di un piccolo mondo antichissimo, all’alba dell’homo sapiens, connotati che in minuti frammenti dispersi e degenerati l’occhio allenato dell’addetto ai lavori ritrova nel macrocosmo dell’attualità, nell’era dell’homo sapiens sapiens.
Uno dei fondatori dell’antropologia culturale, il polacco Bronislaw Malinowski (1884-1942), fissò i cardini di questo piccolo mondo antichissimo immergendosi nella vita quotidiana degli abitanti delle isole Trobriand, situate nei Mari del Sud, ai tempi della prima guerra mondiale.
Genoveffa Palumbo, che vive nel nostro tempo, penetra col suo occhio nel piccolo mondo procidano, ne ricostruisce gli antichi valori, in gran parte perduti, fissando lo sguardo sulla vita materiale e l’orizzonte intellettuale degli abitanti di Procida, una piccola isola, materialmente separata da Napoli da un braccio di mare, ma culturalmente lontana anni luce dalla metropoli, almeno così era tra il 1868 e il 1900, primi riferimenti cronologici che troviamo nel libro.
Grazie alla sua posizione d’isolamento rimane arroccata nei suoi modi di pensare e di agire antichi, all’origine dell’umanità.
Leggiamo a pag. 45 del libro, una scena che riproduce a Procida il dialogo tra uno stregone e un aborigeno delle isole Trobriand.
Lo stregone deve ricomporre un equilibrio tra un individuo e la comunità che lo accusa di un comportamento irregolare o illecito: nel nostro caso lo stregone è il curato don Nicola, carico di cultura, di saggezza e di esperienza, che deve restituire serenità e tranquillità a Maria Lubrano Lavadera, che dopo 7 anni trascorsi nel manicomio provinciale di Napoli, liberata e restituita alla famiglia procidana nel Natale 1890, si ritrova subito incinta.
Le male lingue del vicinato e del parentado non si fanno attendere. Maria ha 37 anni, è ancora giovane e bella.
La contaminazione sul corpo di questa giovane da parte del macromondo, cattivo e corrotto, è già avvenuta, perché nel manicomio di Napoli ha conosciuto un infermiere, che le ha insegnato a leggere e a scrivere e forse… chissà…
Ma il curato-stregone la riporta all’antica rasserenante visione della vita e del mondo, sui cui abitanti vigila attento, individuo per individuo, il Buon Dio:
-«… tu non devi fare altro che aspettare avendo fiducia in Dio perché Dio sa tutto e a tutto provvede. Se il bambino deve nascere davvero alla fine di settembre, come tu dici, allora verrà al mondo certamente sotto la speciale protezione di san Michele, nel qual caso non devi far altro che metterti in tutto e per tutto nelle sue mani».
Anzi il curato, vedendo che :Maria lo ascolta silenziosa e tranquilla […] riflettendo sul fatto che lei era stata sette anni nell’ospedale napoletano, suggerendo un’ardita metafora manicomio/foresta, le racconta la storia che più sembrava adatta alla circostanza, e che a Procida era assai conosciuta, quella di santa Genoveffa di Brabante.
«Una storia che narrava di una donna che, accusata dal marito d’infedeltà, era stata abbandonata nella foresta per sette anni, fino a quando, riconosciuta la sua innocenza, era stata liberata con il suo bambino».
Maria si sente rassicurata, come sempre, dalle parole di quell’uomo che sapeva tutto di lei, e, baciatagli la mano, se ne torna tranquilla a casa. «E forse san Michele volle davvero avere uno speciale riguardo per quella donna così religiosa che non faceva altro che pregare, forse un pizzico di suggestione dovette facilitare quella coincidenza, forse era semplicemente quello il tempo stabilito, fatto sta che Maria partorì proprio il 29 settembre, mentre tra spari e canti i procidani celebravano il loro protettore»
Nasce la bambina femmina e viene battezzata col nome di Genoveffa.
Tale era il nome della donna bellissima, simbolo della sposa fedelissima che mai rinnega il giuramento fatto innanzi a Dio di rimanere legata al suo sposo fino a che morte non li separi.
Non è la classica Penelope, ma è una Penelope cristiana, perché rimane sola col suo bambino, in quanto Sigfrido, lo sposo, deve andare alla crociata, partire per liberare il Santo Sepolcro.
E Genoveffa deve eroicamente respingere le avances dello scudiero di Sigfrido, uomo vile e spregevole, che invece di andare alla guerra, insidia la sposa del suo padrone.
Mia nonna, analfabeta, sapeva a memoria la storia di Genoveffa, perché un suo fratello, in possesso della licenza di quinta elementare, nelle lunghe sere d’inverno a grandi e piccini raccolti attorno al focolare leggeva il romanzo di Genoveffa, alternandolo con un altro classico della letteratura popolare: I Reali di Francia.
L’esistenza di Maria ci riporta alla condizione della donna del popolo secondo un modo di pensare che si ripeteva da almeno due millenni.
Nei decenni di fine Ottocento, come del resto nei secoli passati, si riteneva che il destino voluto da Dio per la donna fosse quello di procreare almeno una mezza dozzina di creature per il suo legittimo sposo.
La fanciulla tra i 5 e i 10 anni non andava a scuola, perché aveva doveri più importanti a cui assolvere.
L’Autrice parla di ricamo e cucito.
Mai «lavori donneschi» erano tanti: rammendare abbigliamenti che duravano molti anni, ma erano pieni di pezze tappabuchi, rassettare, cucinare, spazzare, lavare i panni sporchi, accudire i fratelli più piccoli e così via.
Quindi iniziava l’adolescenza con l’assillo di sposare un uomo prima di compiere 18 anni, perché a 18 anni compiuti la donna era già «una cambiale scaduta» (pag. 29).
Prima che la cambiale scadesse doveva lavorare per il suo corredo.
Dopo il matrimonio era sfiancata da gravidanze che si susseguivano a tambur battente e, finite le gravidanze, «figli piccoli, guai piccoli, figli grandi, guai grandi».
Lo sfiorimento del corpo preludeva alla vecchiaia, che in generale non durava a lungo.
Questa condizione femminile è quella più detestata oggi dal femminismo, mail femminismo a quei tempi era ignoto alla donna di comune condizione sociale, che condividevano la convinzione dei vecchi, peri quali imparare a leggere e a scriver era solo perdita di tempo.
Le crudeltà del mondo cosiddetto civile erano arrivate anche a Procida nel secondo Ottocento: il sindaco in esecuzione della legge di Gabrio Casati, entrata in vigore dopo l’unificazione, pagava un maestro per un biennio di scuola primaria per maschi e una maestra che faceva altrettanto per le femmine, ma queste scuole pubbliche rimanevano per lo più semideserte.
Il sindaco pagava anche il medico condotto, detto «ufficiale sanitario», il quale aveva diagnosticato la follia di Maria sotto forma di «monomania religiosa» e l’aveva mandata in manicomio a Napoli.
Insomma i valori del cosiddetto «mondo civile», sfioravano a fine Ottocento anche la piccola isola combinando solo o guai o pasticci.
Genoveffa, la quarta figlia di Maria, apre il secondo ciclo della saga Lubrano Lavadera.
Per capire questa nuova fase dobbiamo abbandonare Malinowski e seguire la narrazione con gli occhiali che ci hanno fornito Karl Marx e Friedrich Engels.
Genoveffa e il marito Domenico, che ella ha sposato a 17 anni, si distaccano, dall’Arcadia, quando Minichino, macchinista di navi, svanito il sogno americano avversato da Genoveffa, diventa operaio del cantiere navale di Pozzuoli.
Con il trasferimento nel continente, marito, moglie e figli vanno ad abitare prima a Pozzuoli e poi ad Arco Felice.
La vita di Genoveffa e di Minichino con i loro figli non è più l’antica famiglia dell’arcadica Procida, ma diventa una famiglia proletaria cittadina, sul modello di quella famiglia descritta da Friedrich Engels, l’amico fraterno di Marx, nel libro del 1844 intitolato Le condizioni della classe operaia in Inghilterra [Die Lage der arbeitenden Klasse in England].
Leggiamo a pag.57:
-«Nel cantiere Minichino lavorava sedici, diciassette ore al giorno, ma non riusciva mai a farcela con le spese. Soprattutto lo preoccupava il consumo dell’energia elettrica che egli annotava ossessivamente ogni giorno. Era arrivato a poco a poco a cambiare tutte le lampadine di casa: ormai in tutte le stanze la sera c’era una luce fievole e oscura che stringeva il cuore».
La condizione proletaria, però, non produce il socialismo, solo nel fratello di Minichino, Antonuccio, il mondo cittadino produce non il socialismo, ma l’ateismo.
Per altra via, rispetto a quella del fratello, perché non attraverso il lavoro salariato in fabbrica, ma facendo per undici anni il militare in marina, elegge come suo maestro un ufficiale, laureato in archeologia, il quale lo convince che il mondo non è governato dalla Divina Provvidenza, ma dal caso (pp. 73-74).
Partendo da tale convinzione, aveva mandato all’aria tutti gli antichi valori dell’Aecadia, rifiutando perfino il matrimonio a costo di pagare la tassa che Mussolini aveva imposto ai celibi.
La famiglia di Minichino prosegue invece la sua esistenza secondo un indirizzo allora definito del partito dell’ordine.
Mentre Genoveffa conserva un frammento di antiche credenze [dagli antropologi definite di religione basica], vivendo tra chiesa, parroco, preghiere e culto dei santi, Minichino al figlio nato dopo il 1918 mette il nome di Antonio, Italo, Vittorio.
Il ragazzo, grazie ad una raccomandazione del parroco ottenuta dalla madre Genoveffa viene ammesso nel seminario di Pozzuoli e diventa quello che a Napoli e dintorni si chiamava «o prevtariello» (Gemito ne ha immortalato la figura in un quadro famoso).
In realtà il seminario per moltissime famiglie di modesta condizione sociale fortunate per avere un figlio amante dello studio e dei libri, ma prive del danaro per mantenerlo agli studi, era l’unico e vero ascensore sociale.
Antonio può continuare gli studi nel seminario anche quando dismette l’abito talare, consegue la maturità classica e l’abilitazione magistrale, quindi vince il concorso per maestro elementare e gli viene assegnata la cattedra nella scuola primaria di Monte di Procida.
Siamo nel 1940, l’Italia entra in guerra il 10 giugno di quell’anno e gli echi della guerra non tanto combattuta dai soldati su diversi e lontani fronti, quanto sofferta dalla gente comune delle grandi città con la fame, le privazioni ed i bombardamenti giungono anche a Monte di Procida, dove con ritardo nell’anno scolastico 1942-43 giunge una giovane maestra, Adriana, che aveva perso tutti i documenti, anche quelli che attestavano la vincita della cattedra nella suola primaria nella sua casa distrutta dai bombardamenti a Bagnoli non lontano dal grande stabilimento siderurgico dell’Ilva, bersaglio degli aerei nemici.
Quando Antonio s’innamora di Adriana si entra nel cosiddetto «mondo civile», perché compie un atto di trasgressione clamoroso degli antichi valori procidani: non osserva la parola di promesso sposo ad una giovane del luogo e teme di essere ammazzato dal mancato suocero, come stabilito dall’antico codice dei valori isolani.
Per evitare la condanna a morte come violatore della morale delle comunità basiche, chiede ed ottiene il trasferimento in Sardegna insieme all’amata Adriana, che ha sposato solo alla presenza dei genitori di lei, napoletani di Bagnoli, quindi credenti e praticanti della morale cittadina.
Dopo cinque anni di residenza nell’isola tra gente generosa, che ha rispetto per chi dispensa saperi, e dispone di un’abbondanza alimentare, che fa dimenticare ai coniugi la fame e le ristrettezze patite durante la guerra, ritornano a Napoli e abitano in un appartamento a Posillipo con vista incantevole sul golfo, che sarà in seguito venduto a Eduardo De Filippo.
Nel nuovo mondo in cui sono immersi i due insegnanti scompaiono casa e chiesa,
Genoveffa di Brabante e i Reali di Francia, vengono sostituiti dal teatro e dall’opera, dal latino e dall’Eneide di Virgilio. Il mondo non è più governato dal Buon Dio, ma dalla forza del destino.
Nelle figlie femmine non troviamo più i nomi antichi di Vincenzina, Pasqualina, Concettina, Carmelina, Immacolatina, perché le prime due fanciulle nate dai due insegnanti vengono chiamate Viola (Violetta è una protagonista della Traviata di Verdi), Aria (come le famose arie delle opere musicali), quindi arriva Giulia, in ricordo della famiglia Iulia, che Virgilio colloca alle origini di Roma.
A partire dalle vicende di Giulia, su cui a lungo si sofferma l’Autrice, ci avviciniamo al mondo dell’esistenza quotidiana di oggi, con una particolarità: l’insistente evocazione di luoghi e miti virgiliani.
Per Giulia il «sogno americano» più non esiste, sostituito dal mito di Roma, cui poi si aggiungeranno i miti di Parigi, di Londra di New York.
Per non allontanarsi dal suo compagno trasferitosi nella capitale – l’era dei matrimoni è finita – ella affitta una casa a Gaeta, bella cittadina che prende nome da Cajeta, nutrice di Enea, in quel luogo sepolta.
Giulia viaggia ora verso Napoli, ove risiedono i genitori, ora verso Roma.
Il viaggio negli anni Sessanta del Novecento si svolgeva da Napoli e per Napoli lungo la costa puteolana percorrendo la cosiddetta Fettuccia di Terracina e la via Flacca.
In questo itinerario le reminiscenze della toponomastica tratta dal poema di Virgilio si sprecano, non solo, ma Giulia sceglie per la sua tesi di laurea in lettere un tema di antropologia nutrizionale: la pizza napoletana come derivato dalla «tiella» gaetana, corrispondente quest’ultima alla «mensa» virgiliana, una spianata di farro su cui venivano posti i cibi solidi (tale significato si ritrova nel passo dell’Eneide, III, vss. 245-255),
Il tutto ha come postulato la maledizione di Celeno, regina delle Arpìe, contro Enea e i suo amici, che loro negano il cibo: «Voi, sfuggiti alle fiamme di Troia, prima di vedere le mura della città, cui il destino vi sospinge, mangerete per fame le vostre mense».
Tutto bello, tutto grande la città, o «civitas» o «civiltà»?
Sì, le città hanno tutte le attrattive che rispondono ai bisogni della vita dei nostri tempi: teatri, cinema, biblioteche, campi riservati al gioco del pallone e ad altri sport ecc. ecc.
Attenzione!
Se nelle comunità basiche, una volta dette «primitive», il cosiddetto stregone o sciamano o parroco o pievano risolveva dall’alto della sua saggezza e della sua autorità i rari casi di trasgressione e di devianza, nelle società complesse, che s’incarnano nelle città di oggi, occorrono eserciti di poliziotti, carabinieri, guardie giurate, guardie comunali, giudici e togati per reprimere,molto spesso senza successo, la devianza e la delinquenza.
Emblematica è l’esperienza vissuta da Gaia, ultima esponente della saga Lubrano Lavadera, che una sera d’estate vuole raggiungere a piedi la sua casa in Piazza Dante partendo dal Molo Beverello, dove è sbarcata dal traghetto proveniente da Procida.
Viene scippata da un motociclista del suo bagaglio a mano contenente i documenti alla salita S.Anna dei Lombardi.
Dalla commissaria di polizia, che raccoglie la sua denuncia, ottiene di vedere le foto segnaletiche degli scippatori registrati dalla questura.
Immaginava di controllare sei o sette volti di tali malviventi, si vide invece consegnare «quattro faldoni, grandi come vocabolari»(p. 241); e alla domanda: «Sono proprio tutti di Napoli questi scippatori?», si sente rispondere: «Di Montesanto, signora, di Montesanto, questi non sono gli scippatori di tutta Napoli, questi sono solo gli scippatori di Montesanto e un poco più su, dei Quartieri» (p. 244).
Pertanto dobbiamo ringraziare l’Autrice, la quale, non attraverso la discettazione saggistica, ma attraverso la creazione letteraria ha rappresentato la transizione per gradi dalla semplicità primigenia delle comunità basiche alla complessità contraddittoria della cultura del grande benessere e del grande malessere.
Michele Fatica