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Dialogo di una schiava
Chiara Pavoni interpreta il monologo
Dialogo di una schiava
scritto per lei da Bruno Mancini
Musiche di Mauro Restivo
Trucco Silvia Bastet e Angela Sercia
Regia, organizzazione e produzione di Chiara Pavoni
Dialogo di una schiava
Chiara Pavoni oggi mi ha fatto il più bel regalo che si possa desiderare nel giorno in cui si premiano i “bambini” buoni. Lei e i suoi collaboratori hanno reso meravigliosamente emozionante un mio testo. Le sono enormemente grata e mi auguro che questa sua opera di vera arte possa entrare nei vostri cuori e nelle vostre videoteche.
Dialogo di una schiava
Dialogo di una schiava
- Scena: una poltrona con cuscini, uno specchio, bottiglia di whisky e bicchiere, lampada, melodie napoletane in sottofondo tra le quali “indifferentemente”, maschera, cappello.
- Scena illuminata dalla lampada sulla poltrona dove è seduta l’attrice.
Pelle bianca, sono bella e sono sexy, sono colta e sono ricca, sono femmina e sono giovane.
Certo!
Sono bella, bionda, alta, coscia lunga, lingua soffice e tagliente, mani curate e graffianti, occhi azzurri come il fuoco, capelli soffici nebulose, sono tutto ciò che vuoi se mai mi vorrai.
Come la Bambolina di un film a luci rosse, posso spigionare le tenerezze e le seducenti malinconie della mia femminilità contro la forza plastica delle altrui certezze; versare i misteri intriganti, che fungono per me da seconda pelle, sulla parte più suadente di tutti gli inni alla passione; dominare con il candore della mia esuberante vitalità ogni lussureggiante invadenza.
Ma non mi chiamo Bambolina. Io sono Chiara.
- Si alza, effettua due tre piroette e si avvicina alla ribalta
- La lampada viene spenta e si accendono luci dal basso verso l’alto
Alla età di quattro anni giocavo con la mia gattina, le accarezzavo la testa screziata di colori tra il giallo paglierino e le terre di Siena, sussurrandole nell’orecchio che non riusciva a tenere fermo un attimo, “Vedrai, da grande, la tua Lucilla ti porterà in giro per giardini pieni di fiori e di tante fate, e tu diventerai una fata e quando sarai una fata turchina farai diventare anche me una fata bellissima con un vestito rosa e la bacchetta magica e io farò nascere tante stelle nel giardino e tante bambole e tante lucertole per farti giocare… e un principe azzurrissimo per me, soltanto per me.”
Ma non mi chiamo Lucilla. Io sono Chiara.
- Pausa: sorride
Quando diventai un po’ più grande andavo in bicicletta… ero magra gli occhi grigio chiaro e i capelli biondi… non sapevo andarci… avevo le orecchie a sventola, il naso leggermente appuntito con un po’ di lentiggini… perché i pedalini mi scivolavano… la mia bocca era piuttosto grande… e cascavo e qualcuno mi rimetteva in piedi.
A dieci anni nei cortili polverosi e nelle pinete ischitane eravamo in tanti a correrci incontro e giocare in mille modi diversi, lontani dagli adulti, ma protetti dai loro lunghi sguardi vigili.
Nonne e zie vegliavano discretamente su tutte le nostre azioni, eppure qualche bacetto con i compagni, di nascosto, ci scappava sempre.
Per le amichette io ero “Farfallina”, i maschietti preferivano chiamarmi Serenella.
Ma non mi chiamo Farfallina e nemmeno Serenella. Io sono Chiara.
- Pausa: ride
- Il palco viene illuminato di rosso
A tredici anni l’uomo dalla camicia rossa mi abbracciò…
Ricordo un giardino, rinchiuso in un muro di cinta sgangherato, di pietre pomici e laviche sgraziate, bitorzolute, coperte da muschi ed erbe selvatiche, grigiastre; alto oltre la mia testa, se anche fossi salita su uno dei massi sporgenti posti alla base.
Ricordo le gabbie dei conigli, sovrapposte, con mangiatoie formate da intrecci di fili di ferro arrugginiti; i conigli, maschi da una parte, le femmine da un’altra e i piccoli, selezionati per grandezza, collocati in gabbie differenti.
Tutti i pomeriggi fungevo da vivandiera, passando sotto l’albero di limone, intorno al pozzo con al centro il secchio pieno d’acqua, giù per i quattro scalini fino all’angolo del muro pietroso, posto di sghembo a seguire il confine con la boscaglia di castagni e di querce della collina immediatamente sovrastante.
Ricordo che giunta appena oltre la grande pietra sporgente sulla quale poggiava lo spigolo della parete, mi sembrava che il bosco coprisse ogni altra prospettiva, e divenisse, in pochi passi, ingombrante, avvolgente, incatenante…
… però i conigli erano lì, e quel giorno c’era pure lui.
Ma forse è stato un sogno.
Non sono la sua Piccina. Io sono Chiara.
Era così bello toccare le sue braccia muscolose, alzava un secchio d’acqua con un dito; così misteriose le sue parole, più soffio che altro sul mio collo, e quando andavo via mi dava sempre un bacio, e mi stringeva forte sul petto.
Quel giorno aveva una camicia rossa ed una birra in mano.
Io avevo un graffio sul ginocchio.
Ma forse è stato un sogno
Gli dissi che non ero la sua Piccolina. Io sono Chiara.
Lui coprì il graffio sul ginocchio con la grande mano, per un attimo.
Poi prese a coccolarlo con le dita che formavano sentieri di brividi sulla mia pelle, nel nuovo gioco di un morbido girotondo tra le crepe ed i cespugli, le grotte ed i ruscelli della mia intimità.
Fu quando disse che mi voleva bene, lo disse, ne sono sicura, quando quella voce e quelle parole giunsero alla mia mente, fu allora che io gli gettai le braccia al collo così forte da farlo rotolare fino alla piccola zolla di prato nascosta tra due alti cespugli di mirtillo.
Sopra di me.
Poi, mentre mi accarezzava la bocca, sentii dolore lì.
Giù.
Qui giù
E continuava a chiamarmi Bambina. Io sono Chiara.
Ma forse fu dopo il frugare con la mano scivolosa, tremante, tra i bordi allentati delle mie mutandine.
Io non sapevo niente di inganni e di violenze, io non sapevo niente, lo giuro, di Russi e di Ungheresi in lotta tra libertà ed oppressione, io non piangevo, quel giorno, per loro.
Piangevo dicendo “Non sono la tua Piccina. Io sono Chiara.“
- Lunga pausa: piange
- Si spengono le luci rosse e si crea una luminosità soffusa.
Avevo venti anni quando incontrai “l’Amore“.
Gino! Gino…
E lui mi chiamava Amore e mi chiamava Tesoro.
Amore… Tesoro…
Fu bello fino a quando non venne il momento della verità.
E lui non andò via, ma mi dedicò una poesia:
Eppure se tu fossi stata violata
– il vicino di casa maledetto -,
se nel fatato mondo d’innocenza
tu
come madre fanciulla del figlio di nessuno
tu fossi stata
come vergine immolata nel tempio d’Efeso,
tu fossi stata violata
come gazzella indifesa dal branco di lupi,
tu fossi stata violata nella grotta pollaio
come una preda soggiogata dall’amico di famiglia,
tu saresti rinata
tra le mie braccia
di pescatore d’emozioni,
incubata in un tenero affetto
oltre ogni possibile attesa,
alitata dal vento del sud che cancella le orme
– maledette –
dei tanti vigliacchi stupratori
… e non potresti perdermi.
Io sono vento
io sono forza
io sono crudo esempio di follia.
Spingimi nei tuoi dilemmi
di lupa insoddisfatta,
nessuno avrà il tuo scalpo.
Modifica il tuo stato
rimuovi l’occupato,
e vieni al sole.
Ma non credevo di essere Amore, non mi chiamavo Tesoro. Io sono Chiara.
Così, per restare nelle sue catene, fui tumulto e brividi, imprimendogli sul corpo e nella mente i segni squassanti di una passione da lungo attesa, artatamente impudica e violenta, tenera e implacabile, ponendo in un solo amplesso tutti i registri delle mie tentazioni, tutta la prorompente eccessiva sfacciata bellezza del mio corpo di donna non più bambina, i giochi estremi di mani vellutate di labbra avvampate di pelle di luna: tenerezze ossessioni, morbidezze stupori, in un’altalena di grida e di sussurri che per anni la mia mente aveva elaborato, posizionato, montato come in un film… con arte e per salvezza.
E poi il tormento di chiedermi cosa avrei fatto senza di lui, da lì ad un mese, o cosa avrei pensato in quello stesso giorno di un luglio futuro, oppure in un qualsiasi altro giovedì 11 Settembre, 18 Settembre, nel Dicembre del…
- Si accovaccia su un cuscino della poltrona sistemato a terra.
Oggi, so troppo bene quello che penso e ciò che faccio e quel che so.
Che strano, oggi la primavera è forte, la terra si risveglia, nascono tutti i fiori che mi piacciono tanto e muore tutto ciò che mi piaceva senza una ragione precisa.
Accetto di riconoscermi.
Accetto di riconoscermi perché mi sento sola come non mai, peggio, sola come sempre.
Accetto di riconoscere anche la mia solitudine.
Amore, affetto, comprensione, intese, solitudine, solitudine, solitudine, solitudine.
Chi avrebbe potuto prevedere che tutte le mie incertezze si riproponessero ai miei quasi quaranta anni.
Quasi quaranta, uguale zero.
Mi sento come un eroe dimenticato, un vecchio quadro polveroso, la piccola violetta al centro del diario.
I traguardi raggiunti, le paure superate, tutto daccapo.
Essere, essere stata, aver voluto… non vale più.
Non c’è più niente in me, o meglio non ci sarà più niente, perché io non ho più niente da dargli, da chiedergli, nulla che assomigli a vorrei-se tu potessi-se ancora volessi-proviamo-ascoltami-ancora una volta…
Sono lucidissima, so che sto pensando, volutamente pensando, non è un mio sfogo né un momento di depressione né una nuvola passeggera, è il temporale, e il peggio è che non vedo più il sereno.
Decisamente grigio.
Mi sento più bambina di allora…
… il grande amore…
SESSO. SESSO.
L’ho accettato da lui solo perché pensavo fosse una cosa diversa.
La sua poesia!
Immensa e spirituale, il naturale epilogo di due persone che si amano.
E noi non ci amiamo più, non ci amiamo più.
Facciamo l’amore – molto meglio di allora -, ma tutto il resto è un niente immenso.
Mi sembra di aver vissuto fino ad ora in una dimensione diversa e sono piombata all’improvviso, o quasi, sulla terra.
Tutto il passato non importa più.
Sento il disagio che maturando nel silenzio mi opprime.
Non sono Noia non sono Indifferenza. Io sono Chiara.
- Pausa: pensierosa
- Continua a guardare in un punto, tacendo. Tacendo si alza dal cuscino di finta pelle su cui è accovacciata e riempie di whisky un piccolo bicchiere. Va in giro per la scena, un po’ lentamente e un po’ quasi correndo.
- Si posiziona davanti allo specchio, scopre un seno, e inizia a mimare una voglia che scoppia di solitudine.
è dolce toccare il corpo di una donna.
- Intanto, come se compisse un sacrilegio, prende a carezzare la morbidezza del seno: più chiara delle gambe, la punta più rossa dei capelli.
A lungo fasciato da disattenzione, di una evidente semplicità, il piacere di questo contatto, divenuto scoperta inattesa, si riveste di una dimensione erotica, intrigante, carnale.
O forse devo intendere che anche “Chiara” sia riferito ad uno pseudonimo per occultare?
Occultare cosa? Metamorfosi? Identità? Simbiosi? Inganno? Apparenza?
Una proiezione fantastica nella femminilità!
Sarebbe come dire, sono pronta ad uscire dalla mia pelle, dalla mia vita, da me, senza moine da una porta qualsiasi?
Come dire, se finora la mia vita è stata un gioco, un esercizio di stile, può finire, sono ancora in tempo, il mio è un segreto tuttora inviolato, e se così scelgo, inviolabile.
E sento ancora il bacino muoversi con impercettibili segnali di invito, sempre più invadenti.
Il mio petto, gonfiarsi, altero?
- Inizia la canzone indifferentemente
Vero: la luna, le stelle, la nuova melodia napoletana indifferentemente si tu m’accire nun te dico niente, la bella mattina trascorsa su un mare d’incanto, la cena ai frutti di mare, il gelato alla panchina e la ginestra -ginestra, fiore amato da sempre- che avevo posto tra i capelli.
Ma quante altre volte avevo reso avvincente un giorno!
Neppure sono certo che Chiara non sia stato, abbandonate remore pudiche, un desiderio necessario di rinascita.
Ma ora so che per me non c’è ritorno, una ipotesi, unica: farlo o dimenticarmi.
- Sì gira, rallentando i movimenti in movenze di farfalla, e, come una schiava, lascia scivolare l’esile gonna giù, alle caviglie. Le mani stringono i glutei che aveva imparato ad ammirare in prospettive di specchi, e compie i gesti dei tocchi discreti di creme spalmate con cura.
- Di botto tutte le luci si spengono.
- Nella più fitta oscurità l’allarme di un negozio sostituisce le melodie ormai prive di senso.
- Come in una cantilena lei dice
Gli amori sono tutti uguali, come i cinesi, ma ciascuno riconosce il proprio per minimi dettagli, come i cinesi. La sessualità è uguale per tutti, come i cinesi, ciascuno però riconosce la propria per minimi dettagli, come i cinesi.
Smetto la lotta, definitivamente, nella certezza di essere la mia femminilità ed il mio maschio, che io sono Lucilla Farfallina Piccina Piccolina Bambina Amore Tesoro Serena… l’uomo dalla camicia rossa, Gino, sì Gino, anche Gino e anche l’uomo dalla camicia rossa… Non sono Noia e Indifferenza… io sono Chiara una donna una volta uomo, un uomo una volta donna, perché per me non c’è definizione, io sono poliforme maschio e femmina a volte disgiunti, a volte intricati e avviluppati in un groviglio di impossibili intrecci stretti in un nodo di complicità inestricabili, in un nodo, un nodo indissolubile nonostante tutti gli sforzi di auto-gestione e tutte le arti di persuasione e tutti i limiti e i condizionamenti e tutto l’amore di un’altra donna o di un altro uomo.
Come dire nonostante il mondo.
- Un faro illumina SOLO la testa e il busto dell’attrice che ora ha un cappello maschile tipo basco che le ingabbia metà parte dei capelli e una cravatta molto evidente.
- Mostra una maschera.
Dove tutto resta, lasciando impronte evidenti, io passo muovendomi nel vuoto.
Io sono l’Anima e il Cervello e so lo sbaglio di chi pensa di averne uno proprio, disponibile e muto, io non appartengo, io sono.
Non sono schiava delle convenzioni.
- Si distende sul divano seguita da un raggio di luce
La scoperta del piacere di accarezzare il seno più liscio delle gambe, più rosso dei capelli, più tenero del mio tormento, diviene ansia di più profonde sensazioni, e già le labbra si aprono ardenti e le sento stimolate da carezze di piuma, e già tocco l’interno delle cosce, più su, più giù, più su dopo ogni stasi, più su in modo spregiudicato; e poi già l’ansia e la smania col respiro in affanno con il sangue in tempesta con la vita in un soffio, si mutano in galoppante allucinazione mentre accarezzo il mio sesso con voluttà sconosciuta, ossessiva puttana pazza, a gambe aperte – Star di un film a luci rosse- nella notte più stellata di prima e più di prima illuminata dalla luna.
Nel fresco frizzante dell’alba imminente il caldo della mano non mi conceda sospiri.
- Si ode l’avvicinarsi, nel buio, di un’ambulanza.
- E lei lancia un urlo di sirena.
Sììììììììììììììììììììììììììììììììììì
- Felice ad alta voce
Io sono Chiara, non sono Chiara, io sono me.
Io sono la libertà.
Io sono Chiara… NON sono Chiara.
- Liberata
- A braccia alzate
Non sono più la schiava del perdono.
Bruno Mancini
Dialogo di una schiava
Dialogo di una schiava
Chiara Pavoni nel video “Dialogo di una schiava”.
I progetti Made in Ischia dell’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA” aprono alla grande il 2021 con una strepitosa interpretazione di Chiara Pavoni che ha registrato in video il monologo “Dialogo di una schiava” che ho scritto per lei.
Registra, scenografa, produttrice e soprattutto raffinata attrice, Chiara Pavoni mette in mostra, in questa lunga performance quasi cinematografica, tutto il suo bagaglio di esperienze teatrali e cinematografiche che l’hanno resa icona delle passioni e delle vicende, anche sessuali, a volta inconfessabili.
Con una grinta soffusa attraverso tutte le corde della sua professionalità, Chiara rende palpabili, senza fronzoli e senza effetti scenici di melodrammatica fattura, un sentimentalismo atroce nel dualismo tra l’ego dilaniato e la libertà che si ottiene con il perdono.
In effetti, pur trattandosi di un “monologo”, ho intitolato il brano “Dialogo di una schiava” perché in esso c’è uno specchio che rappresenta l’emblema dell’alter ego.
Tecnicamente, il racconto si sviluppa attraverso differenti posizionamenti narrativi dell’attore che, di volta in volta, descrive, ricorda, agisce, riferisce ecc.
Se appare abbastanza evidente che la trama si sviluppa intorno al punto focale del perdono per uno stupro (non per uno stupratore), non da meno essa affronta anche diatribe su altri “perdoni” per azioni proprie che, se non interiorizzati, minano la stima per se stessi, mancando la quale si diventa tutti schiavi di convenzioni, di dogma, e comunque di principi non riconosciuti come tali.
Ciò può servire per riconquistare serenità (dove, per serenità, nel monologo s’intende liberazione dalla schiavitù subita da tutto ciò che è simile a consuetudini, verità indiscutibili, pregiudizi ecc.).
Perdonare “lo stupro” (così come tutti gli altri temi che fanno parte del monologo… e non solo quelli) vale anche come antidoto per stemperare le, sincere o false, espresse o nascoste, manifestazioni di compassione e di vicinanza.
Certamente il brano si presta a molte possibili interpretazioni su come porla in scena quella libertà che si ottiene perdonando lo stupro, o su come rappresentare la forza liberatoria che opera quando non ci sente più privati (uomini e/o donne) della propria identità, e certamente Chiara Pavoni esprime queste ed altre tematiche con una limpida chiarezza recitativa.
La musica di Mauro Restivo segue con cadenze appropriate tutte le fasi recitative e ogni silenzio riflessivo snocciolato nel video.
Gli abbigliamenti, le maschere e i volti truccati da Silvia Bastet e Angela Sercia incorniciano con eleganza, discrezione e abbandoni di falsi pudori il mimetismo necessario ad esternare nel lungo tempo di diversi decenni lo sviluppo dei ricordi impressi nelle scene del video.
Sono convinto che questa opera di vera arte scenica possa fare entrare Chiara Pavoni nei vostri cuori, e che il video ottenga un posto di primo piano nelle vostre videoteche.
Bruno Mancini