Ester Monachino “Damareta”

ESTER MONACHINO

DAMARETA- SOSTA DI UNA REGINA AD AKRAI

Damareta di Ester Monachino è la proposizione narrativa di un momento della storia antica della Sicilia.

Gelone è diventato signore di Siracusa e la moglie Damareta lo raggiunge, portando con sé il loro bambino.
Il viaggio da Gela a Siracusa è lungo, pertanto viene fatta una sosta ad Akrai (Palazzolo Acreide), che diventa la dimensione spaziale in cui presente, passato e futuro fluiscono in un intreccio sapiente in cui analessi e prolessi rendono il lettore progressivamente consapevole conoscitore di ciò che è stato e di ciò che sarà.
Ma se il flash-back o analessi si propone a partire dal quarto capitolo senza alcun espediente narrativo, la prolessi è affidata alla profezia di Philya, sacerdotessa di Afrodite, nel cui tempio Darameta si reca in compagnia di Marsia, fratello della regina di Akrai, Olimpia che, insieme al marito. la sta ospitando.
Marsia nella mitologia classica è l’inventore del flauto a due canne, scorticato vivo da Apollo che osò sfidare; nella narrazione di Ester Monachino, mantiene ancora la sua indole di artista, infatti scrive e canta belle canzoni, ma è anche un grande viaggiatore, dotato di capacità profetiche e di grande saggezza.
Egli, comparso in sogno a Damareta, la notte prima di partire nell’atto di “ sciogliere nodi di enigmi, mentre intrecciava fiori” (pag.11) si concretizza e Damareta si chiede “per quale motivo quell’uomo sia venuto nei suoi sogni come un segno che non viene dal caso, come una pietra basilare.
Come una profezia. (pag.63).
Di fatto Marsia è un saggio, un filosofo che con il suo parlare rafforza e consolida la saggezza della regina che sublima l’amore sorgente verso di lui nell’amore universale perché anche lei ha imparato a vedere “le cose nascoste agli occhi di coloro che guardano senza vedere (pag.70) e sa che tutto è nel tutto” (pag.72), sa che l’uomo nella sua libertà può essere anche felice se vive “nell’armonia di sé non separato dall’armonia dell’universo” (pag.73).
Grazie a questa consapevolezza, conosciuta la profezia, verso la quale Marsia l’ha guidata anche materialmente, accompagnandola al tempio di Afrodite, vengono sciolti i nodi della sua treccia vitale e lei troverà da se stessa la forza del suo agire per favorire la pace e gestire con saggezza il potere dopo la morte del marito, nel rispetto in genere del popolo e in particolare della donna, “ una delle colonne in cui il cielo si regge” (pag.79) e dei bambini, allora vittime sacrificali per gli dei.
Insomma Ester Monachino fa del suo romanzo, pur narrando eventi antichi, un romanzo di denunzia delle condizioni storico-sociali del mondo attuale in una sorta di vichiano ricorso storico, per smania di potere e ricchezza di pochi si sacrificano i popoli, si commettono atti terroristici, crudeltà e prevaricazioni insensate, anche nei confronti dei bambini, ieri vittime sacrificali per gli dei, oggi strumentalizzati nelle guerre tribali oppure, a prescindere dagli eventi bellici, per gratificare inammissibili deviazioni e vizi; né meno forte è la denunzia nei confronti della condizione della donna, quanto mai necessaria di fronte all’aumentare dei casi di femminicidi perpetrati da uomini che considerano le proprie compagne solo strumenti di procreazione ed obbedienza e non consigliere ed amiche, quale Damareta fu per il suo sposo.
Lo stile dell’opera si caratterizza per una proposizione lirico-narrativa di eventi e pensieri.
Sia le sequenze descrittive quanto quelle dialogate presentano una prosa lirica, magica si potrebbe dire, adoperando lo stesso termine che usò Massimo Bontempelli nella sua rivista “900”o “ Stacittà”, dove, per l’appunto, proponeva un’arte che superasse ogni limitazione realistica e trasfigurasse in mito,in favola, in magia il dato reale; tale trasfigurazione però, nella prosa di Ester Monachino, non ha la funzione di eludere il reale, ma d’immergersi in esso, sino al punto che un lontano evento storico, nell’invenzione creativa della scrittrice-poetessa, diventa strumento di denunzia di molti mali dei nostri tempi.

Francesca Luzzio

monachino[1]

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Serena Lao “Vaneddi”

Serena Lao “Vaneddi”

edizioni Arianna- Rende (CS), Marzo 2016

Leggere il racconto lungo, Vaneddi di Serena Lao, è fondamentale per chi vuole conoscere la Palermo popolare degli anni cinquanta: gli usi, le tradizioni, i costumi, l’economia emergono con una limpidezza di dettato che solo l’intenso amore per Ballarò, suo quartiere natio, poteva generare.

Senza fingimenti letterari, quali, ad esempio, la proustiana madeleine, la scrittrice dà avvio al flusso della memoria e rivive il vissuto infantile, che alberga nei meandri reconditi della sua essenza ed ha contribuito a generare la sua attuale, splendida personalità.

Serena Lao con vivacità immaginifica, ma anche con grande malinconia, riesce a fare riaffiorare personaggi, eventi e li affida alla scrittura, dando ad essi quell’immortalità che solo la letteratura riesce a garantire, consegnando così ai posteri un mondo, una realtà altrimenti per sempre perduta.

Viuzze, case, balconi e banconi del mercato, usi e tradizioni diventano coprotagonisti ed acquistano vita in una simbiosi osmotica che, se mancasse, ridurrebbe l’opera a pura, asettica descrizione.

Ovviamente a favorire questo concerto in cui ogni strumento concorre con il suo suono è, come già si è detto, l’animo della scrittrice-poetessa che nel rievocare trasmette a persone, cose ed eventi il pathos che l’anima nel momento in cui li rivive.

Il racconto lungo, diviso in cinque sezioni, propone un mondo che oggi non esiste più, o meglio, esiste, ma è diverso: Ballarò non è più quella di una volta, né c’è più quell’umanità;

I tempi cambiano, la mentalità pure e ciò che è stato può esistere solo nella nostra memoria .

Così la malinconia ci assale perché quell’umanità semplice e sincera, solidale sebbene povera, che sapeva gioire delle piccole cose si è dileguata come nebbia al sole.

La scrittrice rivede nel cuore e nell’immaginazione e ci descrive la casa in cui nacque, le vie in cui da bambina si muoveva, ma niente ormai risuona della povera felicità che albergava allora ovunque: nella gente, nelle case, persino nelle basole delle strade che, ormai maleodoranti e ricolme di cumuli d’immondizia, sembrano emblematicamente simboleggiare la decadenza attuale.

Lo stile limpido e scorrevole è allietato da parole o frasi in dialetto che ulteriormente vivificano l’immaginazione del lettore, man mano che s’immerge nella realtà di un passato e di un quartiere-mercato di cui ormai resta, quasi, solo il nome: Ballarò!

Francesca Luzzio

Serena Lao

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Santi Geraci CIRCUS Genesi ed.

SANTI GERACI

CIRCUS

GENESI EDITRICE, 2016

La silloge poetica “CIRCUS” di Santi Geraci si divide in tre sezioni che come tessere di mosaico si combinano insieme a definire la forma e il contenuto della nuova poesia dell’autore; nuova, non solo perché successiva alle due precedenti, ma soprattutto perché rispetto a queste ultime essa si distingue per la  lingua  e in parte per il contenuto.

Relativamente alla lingua è da rilevare l’abbandono del dialetto siciliano e l’uso dell’italiano che ovviamente non avvalora la qualità artistica della sua poesia, ma segna semplicemente una scelta espressiva, indica il mutamento del contenitore di un’essenza tematica che in parte resta immutata, in parte tende ad esprimere un acutizzarsi di pessimismo esistenziale e storico-sociale, che, pur presente nelle sillogi precedenti, non sembrava tuttavia spegnere un alone di speranza.

Il titolo, Circus è il nome con il quale Pablo Picasso titola una serie di quadri dedicati all’attività circense e tra questi il quadro riprodotto in copertina.

Tale scelta non è occasionale poiché rileva il nucleo semantico di tutta l’opera: il sentirsi acrobata, funambolo nel percosso della vita e, se per Montale vivere è camminare lungo “una muraglia \ che ha in cima cocci acuti di bottiglia” (Mereggiare pallido e assorto, in Ossi di seppia), per Santi Geraci, come si evince dalle numerose occorrenze sparse nelle poesie delle tre sezioni, è un camminare come gli acrobati lungo un filo su cui è difficile mantenere l’equilibrio e non cadere, sicché, come nel poeta genovese, non solo i versi, ma anche il quadro di Picasso riprodotto in copertina, diventano “correlativi oggettivi” dell’impossibilità o difficoltà a mantenere l’equilibrio, a trovare una direzione, uno scopo che dia senso e certezza ai nostri giorni .

Nella prima sezione, Memoriale da Procida, l’IO sente la bellezza della vita, metaforicamente considerata “una pesca da mordere”, ma è consapevole anche che essa è come “una scala interminabile”(in “Anche oggi”) e difficile da salire, per le difficoltà che si possono incontrare nella ricerca della propria identità e le difficoltà possono diventare sofferenza al punto da indurlo a chiedere disperato aiuto: “Il mio cuore è colmo \ di terra e di sale \ Chi nutrirà  \ il suo silenzio,la sua vocazione  \ Chi berrà la sua meraviglia, \ la sua mutazione?” ( in Il mio cuore è colmo).                                                                                                                                                                         Il mare, il porto e soprattutto il bisogno di approdo sono le metaforiche realtà e il desiderio concreto che il poeta, novello Ulisse, esprime nei versi  e Procida, l’isola incantata che, grazie a Circe e alle Sirene, genera un incanto naturale, è fautrice del suo “estro vagabondo”che “strappa flauti al caos del mondo” (in Ode all’isola), è l’ambiente che meglio riesce a fargli poeticamente il suo bisogno di approdo, che possa consentirgli di vivere un simbiotico incontro dell’io con la natura e della natura con l’io: “ed il mio cuore di fuoco \ si confonde senza pudore \ col mare e col cosmo (in Unico eroe superstite).

Questa unione purtroppo onirica, ma panica con la natura per cui il poeta vibra della sua vita e la natura della vita di lui, fa sì che anche nella fusione fisica con la sua donna, questa veda nel poeta-amante il rivelatore dei misteri della natura:

Mi chiedi \ un sorriso di mare maturo…..\  Mi chiedi \ perché il vento spira \…..se in porti sperduti \ cantano ancora sirene \….., ma mentre il corpo del poeta “si è fuso \ come pane e vino” con quello dell’amata (in Profondamente muto),

il suo cuore, la sua anima rimangono muti, rivelando con il loro silenzio l’amara consapevolezza dell’indecifrabile mistero della vita cosmica. La lirica “Il mare” esprime ulteriormente tale consapevolezza, infatti esso è cantato come un immenso incunabolo in cui storia ed umanità, nel positivo e nel negativo che li caratterizzano, vivono, naufragano e si perdono in una sorta di caos universale, quale il mare “enigma degli enigmi, \ libro dei libri”, in effetti è.

Per quanto riguarda lo stile il poeta adotta in genere una scrittura metaforica e si offre al lettore ancora come un novello Ulisse che viaggia nei meandri della memoria,delle emozioni, delle personali convinzioni per offrirle al lettore travestiti da simboli in genere naturalistici (“Il mio cuore è colmo \ di terra e di sale”, in Il mio cuore è colmo; L a notte…. \ E’la tempesta che squarcia \ il fegato di un poeta maledetto, \ …., in La notte) che vivono e palpitano dello stesso sentire dell’artista.

Rilevante inoltre è la tendenza anaforica che induce il poeta a riproporre come in una filastrocca o in una canzone l’incipit identico di strofe o versi, quasi un martellante riproporsi di azioni, atteggiamenti, paragoni, etc … (Voce che sembra \ un’anfora ….\ Voce di terra invasa \….\ Voce che ricorda \ …\  Voce di grotta…, in La tua voce) in una crescente e diversificata metaforizzazione del sentire.

Rime, anafore, ma anche epifore amplificano la musicalità  che nel fluttuare del ritmo dei versi di diversa lunghezza tendono a creare una variante sinfonia

Le stesse caratteristiche formali si rivelano anche nelle due altre sezioni,dove la metaforizzazione tende ad accentuarsi,sino a rendere  quasi ermetica, la semantica di qualche lirica, anche se il pathos dell’ispirazione emerge sempre e comunque.

La seconda sezione I luoghi della memoria è un flashback, un tuffo nel passato, più o meno remoto. Così con malinconia  il poeta torna “al prode sole ruggente sui nespoli, torna, torna sempre” (in Torno) alle sue radici “tra i limoni e il grano” dove ha trascorso i suoi primi  anni “udendo lungimiranti sinfonie d’usignoli e di sassi” (in Radici). Ma la memoria non è legata esclusivamente ai luoghi dell’infanzia, infatti espandendo l’orizzonte delle sue considerazioni  dall’ego all’humanitas, torna anche a ricordare la tragedia dei migranti a Lampedusa, torna a riconsiderare la vita di Alda Merini e a rilevare l’affinità della loro condizione di artisti incompresi, così come torna, a riflettere sull’assenza di senso dell’essere e del vivere per cui siamo ”come pesci che galleggiano nella storia” (in Il destino dei pesci); forse la condizione migliore la vivono i pazzi che nell’estraniarsi dal mondo reale vivono dimensioni altre: bevono l’infinito.

Così il poeta vuole vivere la loro condizione e scende nel pozzo dei pozzi, dove i pazzi “disegnano le farfalle \ pregano le fate \ dove gemono i pupazzi \ dove pescano i pagliacci \…”( in Il pozzo dei pozzi). Come si evince dai pochi versi citati, il poeta quasi a rendere omologa la forma al contenuto (“tal contenuto, tal forma “, sosteneva  F. De Sanctis) gioca con le parole, creando una sorta di omofonia espressiva, attraverso ripetizioni, anafore, rime ed assonanze.                                                                                                                                                                                     circus-325506[1]L’ultima sezione ha un titolo originale, un neologismo, inventato dall’autore Ancoraria, ossia ancora aria.

Qui il metaforismo e il procedere anaforico è ancora più intenso e talvolta l’oscurità espressiva è davvero ermetica. Ciò è spesso legato all’acuirsi del pessimismo del poeta che ormai è sfiduciato anche nei confronti della poesia e della parole, incapaci di esprimere ormai anche la vitale e consustanziale unità del poeta con la natura, pertanto rivolgendosi ad esse il poeta afferma che ormai camminano “a testa bassa \ come manichini di neve (In Voi non dite più), d’altronde non c’è più niente da cantare, non esistono più valori, sogni, fantasia, amore e pertanto “nessuno contava più le pecorelle \ prima di andare a nanna \… nessuno faceva più l’inchino \ al passaggio di una donna \ …,nessuno seguiva più il tragitto \ di una formica o di una gazza” (in La festa di nessuno), l’umanità è diventata ottusa, è incapace d’immaginare e di vedere, non sa più apprezzare il “richiamo dolce e seducente”del circo (in Viva il circo), non vuole più essere acrobata della vita, affrontando i rischi e le pene del vivere che anche l’impegno più costante non riesce ad evitare; l’uomo oggi  corre frenetico verso il successo, gli affari e non vive il tempo come andrebbe vissuto, pertanto al poeta non resta altro che pregare: “Pregherò \ perché i bimbi di tutto il mondo \ brillino sempre come soli nella tenebra \… Perché l’amore espanda \ gli immortali orizzonti dell’universo \ …. Pregherò, pregherò…\ non finirò mai di pregare ( in Pregherò).

FRANCESCA  LUZZIO

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Il taccuino rosso di Eleanor

Il taccuino rosso di Eleanor

Marzia Carocci,

Oggi la cronaca è piena di fatti orribili e, tra questi, non mancano le madri che fanno prostituire le proprie figlie o per povertà, o, peggio, per soddisfare vizi, assuefazioni divenute con il tempo malattie, come il bisogno della droga per continuare a vivere, se vita può considerarsi quella di una persona drogata, come la madre di Eleanor che, razionalmente e con lucidità, induce, anzi costringe la figlia alla prostituzione: “

Il taccuino rosso di Eleanor

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on il passare del tempo, mamma iniziò a vezzeggiarmi, mi diceva di truccarmi, di esaltare il mio corpo, …a volte mi regalava indumenti intimi che trovavo pacchiani. …Poi compresi il suo comportamento. … entrò un tipo… Mi sentii spogliare e frugare, la sensazione era di un disgusto che mai potrei descrivere con le parole. …Staccai la mano da lui come se avessi preso una scarica elettrica e mi allontanai…. Mamma mi guardò malissimo,… Poi si alzò barcollante, prese le chiavi di casa…, chiuse la porta alle sue spalle lasciandomi sola con il suo amico. ” (pagg. 16, 17). Con una madre così fatta, con un padre precario nel lavoro, ubriacone e che frequenta altre donne, la povera Eleanor è sola al mondo; non le resta che ammirare dalla finestra della sua camera, la casetta rossa, in cui faceva danzare i suo sogni e raccontare all’ unico amico e confidente, il taccuino rosso, le sue ansie, i suoi dolori, le esperienze terribili che la madre la costringe a vivere, per lei, con i soldi che i suoi amici carnefici le danno, tranquillamente drogarsi, finché poi morirà per overdose. Mai come oggi nel tutto e nel niente, nell’oscurità imperante della globalizzazione, la storia di Eleanor appare attuale e verosimile: siamo di fronte a un romanzo- denuncia che pone in primo piano il disfacimento della nostra società, né si sbaglia nel dire che è come un pugno nello stomaco che scuote dall’indifferenza e dal disinteresse, che induce a guardasi attorno e ad interrogarsi senza incanti e consolazioni. Come Pasolini o Saviano, a prescindere dal tema- verità trattato,
Marzia Carocci denuncia, punta il dito contro un contesto socio-economico ed etico- morale di cui sono vittime anche la madre e il padre, ma soprattutto denuncia la violenza contro le donne, la pedofilia, mali persistenti della nostra civiltà e che nel romanzo vengono proposti soprattutto attraverso la narrazione di vicende, stati d’animo, emozioni vissute da Eleanor, vittima della madre, a sua volta vittima e carnefice, che la immola, ancora bambina, al dio “Droga”. La storia di Eleanor rispecchia la condizione di vita che riguarda purtroppo milioni di bambini/e, di adolescenti e giovani donne, soprattutto là dove degradazione, miseria e guerre avviliscono lo svolgersi di una dignitosa condizione di vita. “ Eleanor però vive un’esperienza che presenta una terribile specificità: viene venduta da chi dovrebbe naturalmente proteggerla: la madre .
E’ innaturale che una madre induca la figlia a prostituirsi e la violenza brutale e continua di sconosciuti lascia nella ragazza ferite profonde, rese ancora più cruenti dalla drammatica scoperta che anche il padre con la sua infedeltà coniugale, l’ha tradita: Alec,
il suo amore, è suo fratello. Tutto per lei è sporco, tutto ormai le fa paura: ”Scappai; vomitavo e scappavo,… Bruciavano le mie lacrime, il cuore faceva male, i piedi sanguinavano, la mia mente impazziva. (pag.99) Eppure Eleanor, in quella condizione di estrema e delirante sofferenza, sa raccogliere e vivere nel suo cuore sogno e realtà: la casetta rossa e il taccuino rosso perché non basta il parlare per comunicare ad Alec, il suo patire, il suo amare… In tal modo Marzia Carocci evidenzia anche l’importanza della scrittura, quale strumento di memoria, infatti si vive finché c’è memoria di noi e la scrittura dà alla memoria l’eternità . Significativa dal punto di vista connotativo è la scelta del colore rosso che qualifica il taccuino, la casetta e caratterizza anche la copertina del libro,
infatti il rosso è simbolo dell’ amore e perciò di sogno, di felicità agognata, ma anche di violenza e di sangue, pertanto nessun altro colore può meglio essere emblema del taccuino e della casetta, luoghi dell’anima e del corpo ai quali Eleanor ha consegnato se stessa con il suo dramma e i suoi sogni; il rosso della copertina del libro, evidenzia la grande sensibilità e lo sdegno dell’autrice che con il suo romanzo, denunzia una delle violenze più intolleranti tra le tante possibili.
La violenza contro il sesso femminile è vecchia quanto l’umanità, considerato che la maggior parte dei popoli ha sempre avuto un’organizzazione patriarcale che ha posto le donne, a prescindere dalla loro età, in una condizione d’inferiorità e sottomissione e tanta è la letteratura che propone tale tema, basta ricordare, ad esempio, nell’Ottocento, la manzoniana Monaca di Monza, la piccola Cosette dei Miserabili di V. Hugo o ancora la pura Sonja, di Delitto e castigo di F.Dostoevstkij ,o se vogliamo limitarci ai nostri tempi, l’opera di S. Landini, “Ferite a morte”, oppure quella di S. Agnello Hornby, “Il male che si deve raccontare”, o ancora i racconti di D. Maraini in” L’amore rubato”, etc … .
Orbene, “Il taccuino rosso di Eleanor”, a buon diritto, entra nell’alveo di tale letteratura che, come un fiume in piena, si spera possa in futuro contribuire ad eliminare pregiudizi e comportamenti violenti. Marzia Carocci narra la storia di Eleonor con intensa partecipazione emotiva e ciò giustifica la posizione omodiegetica della narratrice, lo stile sciolto, scorrevole, incalzante nella proposizione di eventi, pensieri, sentimenti e il lessico pulito, che, nonostante la materia trattata, mantiene sempre la decenza, lasciando alla fantasia del lettore ogni esplicazione di comportamenti e parole che, pur nella sobrietà espressiva, la scrittrice lascia intendere.
Francesca Luzzio

Bruno oggi parliamo di scrittori e libri

Vi presentiamo Francesca Luzzio, una nuova “penna” di questo sito.

Francesca Luzzio compFrancesca Luzzio

Francesca Luzzio è nata a Montemaggiore Belsito e vive a Palermo.
Poetessa, scrittrice e critico letterario, ha insegnato Italiano e Latino nei licei.
Socia dell’Acc. internaz. Il Convivio, dell’Acc. siciliana di Cultura umanistica, della Soc. Dante Alighieri, è componente del Comitato scientifico del Parco letterario G. G. Battaglia di Aliminusa, del Consiglio direttivo dell’Ottagono letterario e di alcune giurie di premi letterari (Tracce per la meta, Il Convivio, Mignosi).
Come critico letterario collabora con apprezzate riviste quali “Le Muse” “Il Convivio” “ Il Bandolo” “Vernice” “Soaltà” “Il Salotto degli autori”.

Ha partecipato alla stesura degli studi “Poesia italiana del Novecento “ e “Narrativa italiana del Novecento”, pubblicati dalla rivista didattica “Allegoria”, diretta da R. Luperini.
Si sono interessati della sua produzione letteraria, esprimendo apprezzamenti: Dante Maffia, Lucio Zinna, Franca Alaimo, Giorgio Barberi Squarotti, Enza Conti, Gregorio Napoli, S. Gross-Pietro, Giannino Balbis, Giovanni Rescigno, Stefano Lanuzza, Alessia Mocci, Ester Monachino, G.Ruggero Manzoni, Roberto Pazzi ed altri.

Sue opere sono inserite in vaie pubblicazioni tra le quali: “Atlante letterario italiano” “Borruto, Storia della letteratura italiana” “Ant. Internazionale, Agar” “Romanzo della letteratura siciliana” “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani tra Ottocento e Novecento” “Contributi per la Storia della letteratura italiana”, e in numerose antologie.
Ha pubblicato la raccolta di racconti e poesie “Liceali – L’insegnante va a scuola”, il profilo saggistico “La funzione del poeta nella letteratura del Novecento ed oltre”, e  le sillogi di poesie “Cielo grigio” “Ripercussioni esistenziali” “Poesie come dialoghi”.
Ha curato con Marcello Scurria “Poetare e raccontare – Laboratorio di scrittura creativa”.
Ha partecipato a numerosi concorsi ricevendo premi e riconoscimenti.

Il Dispari 20160229

Il taccuino rosso di Eleanor

 

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