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Come i cinesi – volume secondo – Ambiguità capitolo 2
Ambiguità capitolo 2
Capitolo 2°
Notte, giorno
notte giorno
e via ancora.
Complicità di cambi
forme ermafrodite
due solitudini.
La notte del 24 ottobre ero consapevole di dover affrontare una prova decisiva per il nostro futuro, ciò che mi allarmava era la diretta conseguenza della incertezza riguardo ad atteggiamenti emotivi non bene considerati, forse in grado di eludere anche la sorveglianza del programma che avevo organizzato con lunga riflessione.
Credo, da sempre, che scrivere sia la forma di comunicazione con se stessi più precisa e maggiormente aderente agli intenti desiderati.
In quella notte di ottobre mi accingevo a trasferire sulla carta la mia principale aspirazione, consistente nel rendere chiari e limpidi i motivi delle azioni che presumibilmente avrei compiuto nelle ore seguenti.
Immaginando che già tutto fosse accaduto.
Come se l’evento cardine dell’esame incombente si potesse collocare ormai alle nostre spalle.
Rappresentasse un passato.
Quasi come se il mio io leggesse il mio futuro, in quella notte, ho iniziato a scrivere:
Cara,
stanotte mentre mi salutavi per andare all’incontro che avevi già programmato, “Ti prego non andare” continuavo a dire senza parole.
Completamente coinvolto, sia da un’evidenza, che non imponendo già una resa forse poteva ancora proporre occasioni, sia dal continuo rimbalzarmi in mente delle tue parole:
-«Come hai fatto, amore mio, a non leggermi negli occhi, non leggere gioie, serenità, amore lasciati liberamente, pudicamente, vivere in tutta me stessa?
Quando hai iniziato a non capire che i miei silenzi comprendevano “tutto”, tutto sempre per te, sempre e solo per te?
Io no, non avevo bisogno di parole, solo sguardi.
Mi bastavano, mi raccontavano il libro dei tuoi giorni con tutte le ansie, le delusioni, i successi, tuoi perché così volevi lasciandoli fuori della nostra vita, ma miei, ed a volte terribilmente vissuti nel mio animo poiché intesi in maniera solo empirica, sensitiva, sfumata.
Anche questo è stato il mio amore, ascoltare il tuo pensiero, capire i tuoi colori, sentire il ritmo della tua esistenza».
Clara, ora mi trovo qui a chiedermi perché, se tutto ciò è vero, ed io so che è vero, perché tu hai perso il mio messaggio “Ti prego non andare” tanto chiaro e così volutamente dedicato?
Tu interprete del libro dei miei giorni!
Come hai fatto a non leggere impotenza, disperazione, urla, schiaffi, baci ancora una volta?
Forse i messaggi erano troppi!
Forse erano troppo forti per essere capiti!
Forse facevano temere ancora rinunzie!
Forse non sai più udirli!
Perché sono cambiato.
Perché sei cambiata.
Forse facevano solo vuoto.
Ormai sei andata e non conta né dove né con chi, importa perché.
Un’ombra
sconvolge
la piana di albe statiche
con ritmo lento di medusa
con pause di dolcezze lunari
-sotto
le sabbie
smosse
più calde ed umide-.
Un’ombra una carne un’ora.
Tu.
Non solo questo è chiaro, è anche vero che per te delusione, disperazione, sconforto, sono divenuti troppo presto momenti preziosi, e quasi magici, affondati in una nuova fantasia.
Bene accorta a non esserne coinvolta sentimentalmente.
Non hai scelto di rompere per le mie fughe, non potrai farlo per le tue.
La notte è finita.
Finisce una notte di ufo e di riso.
Arrivi in un giorno qualunque
in un tempo di scelte
sopra un lido di noia.
Ancora
ancora più folle.
Mi prendi la storia
mi prendo il presente.
è questo il perché.
L’intento di darsi concretezza attraverso mille passaggi di solchi sempre più profondi ed importanti, piuttosto che la disponibilità ad affrontare l’incognita del salto.
Ogni giorno un passo, ad ogni passo una verifica, pronte le bende ed i cerotti, incombenti i silenzi e le parole, elastico da allungare fino al limite.
Affacciata al bordo, chiarita la voglia di farlo, sicura dell’esito, hai mosso il primo passo.
Concreta, psicologa, prudente, credi di poter arrivare al mare passando da roccia in roccia, col tempo. Pronta a riposarti ed a far riposare chi ti segue e t’insegue.
Non avresti potuto vincerti fino al punto da guardarci, immobili, privi di reazioni, aggrappati per altro tempo ad una acquiescenza provocatrice -tu che mi “senti”, tu che mi “leggi”, tu che mi “vivi”-.
A te, cara, sarebbe bastata un’ora per capire che soffrivi troppo, soffrivi capisci.
Per questo il messaggio è caduto, nessun messaggio sarebbe stato udito.
Il messaggio è cozzato contro altre voci.
Troppe voci parlavano insieme.
Tu sei cambiata? Sono cambiato? Non c’è differenza!
Aspettare il tuo ritorno, ed aspettare il prossimo solco, la prima, seconda, terza benda.
No grazie.
Ma se…
Vado.
Anche nel dubbio, senza certezza, mi conosco. Vado via.
Notte, giorno
notte giorno
e via ancora.
Complicità di cambi
forme ermafrodite
due solitudini.
Non appena mi trovo sul punto di essere convinto che ho compreso il modo migliore di agire, mi dibatto con un altro interrogativo.
Ma perché?
In fondo mi guardo intorno e mi giudico in torto. Interrogo la parte culturale di mia appartenenza e mi considera in errore. La socialità e il tempo nei quali mi sento inserito contestano le mie deduzioni. Voglio una donna libera ed ho torto anche in questo -tu la vuoi-.
Voglio, giudico, ma chi mi dà diritto a tanto?
Ed ho torto.
Ho torto a non accettare una realtà, a volerla vestire di significati arbitrari, finanche sbaglio nel consentirle di modificare le mie essenze e le mie azioni ormai non più autonome e spontanee.
Ho torto e finalmente sono in contraddizione.
Quasi io mi illuda che il peso d’azioni, di concretezze, di cose perdute, possa essere annullato, soffocato, nell’attimo in cui si capisca che, divenute realtà, non potrebbero essere rivissute con la bellezza originale della loro immaginazione, mentre i sentimenti no, quelli invece si ricostruiscano, quelli si gonfino e sgonfino e gonfino ancora a piacere, si usino si conservino si eccitino si uccidano, rinascano, volendo, come prima e sempre uguali a se stessi!!
Contraddizione, dualismo ambiguo, gigante dai piedi di argilla, cervello autonomo, forza bruta e gran debolezza.
Dualismo ambiguo.
E non basta, avrei bisogno anche di interpretare il
meccanismo per il quale in ultima analisi le azioni, il concreto, la materia, modificherebbe il credo, l’idea, i sentimenti.
Perché tu vai, io vado.
L’inverso è ovvio, pur se attutito da un vago postulato scientifico e da un dogmatismo storico.
Tu vai ed agisci, io vado a distruggere un’idea.
Un’ora, un credo.
Non è possibile.
Resto, per la difesa della mia coerenza, anche nel dubbio, senza certezze, mi conosco, resto.
Cara,
stanotte mentre mi salutavi per andare all’incontro che avevi già programmato ho detto forte e chiaro, stanco e triste e solo:
-«Ti prego non andare».
Avrei potuto (forse dopo cercherò di capire se per caso non “avrei dovuto”) lasciare che fossi tu a spingerti nei miei occhi: la libertà di intendere o meno, non l’obbligo di ascoltare e rispondere e decidere; l’autonomia di una scelta senza la sopraffazione di una richiesta; la coerenza e la ricchezza di una tua decisione al riparo dei rimorsi, i piaceri o le incertezze provocati dall’espressione di mie angosce (reali, false, usate ad arte, egoistiche, grandi, piccole, solitarie o desiderate, poco importa).
Parlando ho volutamente scartata questa ipotesi, in apparenza più degna, più umana nei tuoi confronti, più bella nella mia immaginazione, poiché così, parlando, ho ucciso un dubbio, tanti dubbi.
Se ipoteticamente in quel momento, per una banalità del tutto reversibile, ti fosse sfuggito il modo di udire messaggi privi di suoni?
E se io fossi diventato incapace di esprimerli in maniera chiara?
Oppure se il fatto stesso di volerli, per una volta volerli presentare, fosse risultato diluente capace di farli decadere fino all’auto distruzione?
Per ciò ho parlato:
-«Ti prego non andare» con tutto il resto che sai bene per mille ore insieme.
-«Mi dispiace. Voglio andare».
Che cosa potevo aspettarmi che rispondessi?
Come potevo illudermi?
Come potevo illudermi che attraverso tanti percorsi la decisione -fino all’ostinazione- di chiarirmi il nuovo di te, tu l’avessi articolata per poi, in un momento come questo, scioglierla facendola appassire prima ancora della
fioritura?
La “mia” donna aveva risposto nella stessa maniera.
Nulla lasciava supporre che da donna sua, libera, o quasi, certo in cammino per divenire autonoma (spinta da necessità, imposizione, volontà o desiderio), rispondesse in modo differente.
Potevi veramente restare?
I fatti nella vera evidenza sono scoppiati e vogliono, con tutta la loro realtà, informarci della fine della nostra storia.
Fatti, scoppi, senza essere a salve, per cosa se non per fare male?
Verificare?
Accetto la sfida.
Andarmene è poco, ridicolo, da ignavi.
Perdo la regina in cambio di due torri.
La partita deve proseguire con la determinazione di chi si è vista rifiutata l’offerta di patta.
Non devo concedere ingenuità, né credere ai versi delle sirene, senza sogni, con un preciso disegno: guardarti in faccia mentre ti renderai conto che a poco a poco sarai diventata, per me, un’altra donna.
Una donna qualsiasi, né sposa né figlia né amica né niente, solo una donna qualsiasi, né amata né desiderata.
Lontano le ombre dell’odio, la stizza, finanche il rancore. Privo di risentimenti, teso a rendere matura tutta la possibile indifferenza.
Se devo credere a tutto quanto hai già detto, sei pronta, sai che può accadere, non avrai bisogno di proporti ulteriori domande.
Sotto un vento d’incanto
sono un curvo pastore d’illusioni.
Mia cara,
stanotte nel momento in cui mi salutavi per andare all’incontro che avevi già programmato, continuavo a chiedermi se tentare di fermarti dicendo “Ti prego non andare“.
La tua stessa presenza, con improvvisi incontri di sguardi, mi ha proposto nuove varianti possibili seguiti, ed impossibili accordi alternati in sequenze aritmiche -numeri primi di volta in volta in evidenza- “Vuoi farmi compagnia?”.
Tanto più ciò allontana ed altera la visuale del mio problema, maggiormente mi rendo conto che ancora mi sovrasta un turbamento di egocentrismo: mi ripresento primo attore ed unico organizzatore della nostra storia.
Non solo la mia regia e la mia partecipazione, ma anche la mia esigenza della relativa uscita in scena e dalla scena approntata con tutti i presupposti per essere vistosa, eclatante, da applauso finale, da applaudito protagonista.
Se volessi tentare di spiegare meglio, potrei analizzare la determinazione di scrivermi questi fogli per poi -poi a cose fatte-, lasciare che tu sappia, etichettandola come l’estrema espressione della mia vanità mentale.
Scrittore. Regista. Protagonista.
Perché non nudo?
Perché non anticipare il momento della lettura di queste riflessioni, dandoti la possibilità di scegliere la parte preferita, modellare il tuo personaggio caratterizzandone i comportamenti, e proporre la stesura di porzioni significative dell’opera?
È credibile il timore che ingabbiando la mia esuberanza, potremmo non avere più né impulsi verso domande né tanto meno risposte?
Che tutto risulterebbe semplicemente stereotipato?
Tutto definitivamente congelato, completamente anonimo, formale, borghese, infine penoso?
Ma da dove viene la certezza di quest’ultimo dubbio?
La certezza di quest’ultimo dubbio, o il dubbio di quest’ultima certezza?
Si continua all’infinito.
Che faccio?
Per ora è notte.
Ho sciolto
nei tuoi sogni solari
emozioni di sfide cieche.
Fino al limite
oltre il pudico
senza più dubbi.
Lascio la pila accesa
per farti guardare
sbrigati
mi preme un dubbio di fine.
Mia cara,
stanotte mentre mi salutavi per andare all’incontro che avevi già programmato, non sono riuscito a dirti
“Ti prego non andare“.
Eppure ripetevo a me stesso la frase ormai celebre di Andreotti con la quale in giorni privi di senso avevi tentato più volte di pungolare la mia apatia “Molti sanno quello che vogliono, pochi ciò che vogliono e che non possono”.
Non ti mai ho risposto.
Non ho chiarito.
Ora potrei affermare sfacciatamente che ti ho già lasciata, tenendo ferma e presente contro ogni spinta irriflessiva la nostra casa (somma-scrigno-ricordo di tutto quanto, parte di noi, c’è in qualche modo appartenuto).
I treni partivano veramente, e su ciascuno di essi salivo solo, e con ciascuno di essi percorrevo tratti più o meno lunghi in solitudine, fino a giungere ad una nuova più distante stazione.
La voglia della grande sfida, anzi meglio, la necessità fisica e caratterialmente appagante di una nuova scelta autarchica, di un nuovo grande viaggio privo di sondaggi, senza porte lasciate semiaperte, mancante di punti di riferimento, svuotato da confronti e sensi di doveri, tutto ciò con te “prima” esclusa anche se a volte e per certi particolari non “unica”!
Quante volte, quante notti, violentemente represse al limite di auto mortificazioni deprimenti.
Lo sai che ti ho aspettata.
Ma tu volevi… volevi verificare:
-«Verificare non quanto mi ami, ma quanto mi vuoi».
Escluso, e spero di non presentare per vera un’altra illusione, che tu hai inteso, in fondo con autolesionismo, privarmi di un amore, rispondo anche a questo dubbio.
“Amare e diventare scemo”.
Quando mi mancava un incontro con te perché avevi preferito una strada diversa. Dicevi:
-«C’è più sole».
Quando mi bruciavi l’inizio di un giorno:
-«Resta cinque minuti».
-«Non posso».
Quando mi regalavi notti inutili.
Quando i tuoi strilli.
Quando i tuoi capelli corti.
Quando il latte, i peperoni, il film per televisione.
“Amare e diventare scemo”.
Quando è diventata nenia senza musica il ritornare sui giorni di un amore che faceva male per presunzione, per voglia di presenza indiscussa, e certe volte scoppiava in mano come un petardo per confermare la sua univocità.
Essere o non essere.
Vita o morte: quando le nenie diventavano prima dubbi, poi scelte, poi scritti, poi rinunzie, poi impotenze, poi treni.
Quando forzando l’ultimo residuo di orgoglio ho
preteso di continuare a sceglierti sulla base di altre scene.
Quando (ora) neanche la tua scelta deve potersi inserire distruttivamente nella nostra “casa”.
“Amare e diventare scemo”: quando potrò recuperare fette del mio io inutilmente bruciate?
Infine mi hai convinto.
Mi sono convinto che hai ragione, senza ironia.
Sono definitivamente convinto che non sia stata l’altra o la tua scelta a determinare la fine della nostra vicinanza simbiosi.
Un amore scemo da non ammettere provocazioni, l’ombra di provocazioni.
Una voglia di certezze fino ad identificazioni assurde, e tale da non seguire altri sentieri per vivere e comprendere se non il certo quotidiano -guardarti negli occhi, perché?-.
Fingere, ammiccare, abbellire, o poi scovare, rubare intimità, perché?
Per quell’amore scemo lei o la tua scelta: dolorosa parentesi in un attimo del nostro quotidiano.
Quante altre volte vi era stato di peggio, quante altre violenze, quanti altri schianti, quanta rabbia, ribellioni, impotenza, pazzie, erano passate sopra di noi rubandoci il tempo di una ferita o di una notte insonne!
Per quell’amore scemo può passare lei o la spiaggia, non certo il dubbio della nostra identità.
Mia cara,
stanotte mentre mi salutavi per andare all’incontro che avevi già programmato, mi sono chiesto per meno di un attimo come dirti “Ti prego non andare”.
Se credo, come credo, di conoscerti ho “fotoromanzato” un bluff.
DEVO “VEDERE”.
Vedere per dirci qualcosa di più.
-«RESTA».
Ti bacio.
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Dedica – Introduzione
Ambiguità
Capitolo 2
Il nodo
Il chioccolo del fringuello
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Come i cinesi volume secondo
seconda edizione
ID 29z5vq
ISBN 978-1-4710-5423-5
Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-5423-5
Versione 4 | ID 29z5vq
Creato: 13 settembre 2022
Modificato: 14 settembre 2022
Libro, 98 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00
Titolo Per Aurora volume quarto
Sottotitolo Il Libro di Sonia – Il Nodo
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-5423-5
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Edizione Nuova edizione
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Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022
Dialoghi, intimità, ragionamenti, passioni, le irrazionali note, cadute, catarsi, sdegni, i vari volti di un atto, gli equivoci, i nodi, le sfide, i sensi dei vinti, i come, perché, dove, se, che abbiamo macinato più contro di noi per dare che non verso di noi per avere, più sciocchi per idoli che lucidi d’esperienze, sempre senza pause catalizzatrici.
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