IL DISPARI 20240805 DILA APS

IL DISPARI 20240805 DILA APS

IL DISPARI 20240805

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Tredicesima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Il nostro DNA assolutamente identico aveva richiamato nell’elaboratore, senza distinzione, le mie e le sue azioni!

Ecco la ragione della nostra chiamata simultanea.

Lo stesso fatto era stato assegnato sia a me sia a Lui, quindi, noi due, avevamo subito il carico del logorio non solo nostro proprio, cioè io della mia e lui della sua vita, ma io della mia più la sua e lui della sua più la mia.

Concorrendo quindi, essendo gemelli, ad esaurire entrambi nello stesso momento!

Eccitato e sollevato, non persi di vista Aurora neppure un istante, intanto che lei, la mia Amica immensa, nella riconfermata autorità di una «Signora», ancora più potente, ordinava di effettuare innumerevoli verifiche, controlli, prove e contro prove.

Fino a quando, accertato l’errore, la vidi giudicare i responsabili, licenziare, degradare, defenestrare.

Infatti, “L’efficiente tecnologia trasportata di là da nostre opportunistiche appendiciecc. ecc.” le cui caratteristiche operative mi era capitato di leggere nella schermata, quando quasi meccanicamente avevo attivato il clic sulla freccetta (non lampeggiante e non splendente) indicante “Continua”, affidata alla decrepita fossilizzata burocrazia onnipresente, “così o come” da sempre avviene a seguito di questo

innaturale connubio, aveva elaborato, essa l’efficiente tecnica

spersonalizzata, decisioni certo indiscriminate, ma purtroppo prive della luce di una intelligente, umana, morale e sofferta, responsabile valutazione.

Basta così.

Gli insensibili mezze maniche avevano combinate “cose dell’altro mondo”.

 

CAPITOLO SECONDO

 

Miei cari amici, certamente avrete apprezzato il grande sforzo di chiarezza e perseverante puntigliosità che ho sfacciatamente articolato nella stesura di questo racconto.

“Lui diceva…”, “Lei faceva…”, “Loro pensavano…”, C’era scritto che…”, “Voglio dire…”, “Cioè…”, in una ininterrotta rilettura esplicativa.

… ma non è detta l’ultima parola, finché non è scritto l’ultimo rigo.

Se state cercando la sorpresa come quando rovistate nelle Balle di Pezze Americane ammassate su un banco di Resina, questa volta avete sbagliato indirizzo.

Ora, infatti, vi racconterò cosa accadde allorché la Signora, esaurito l’arduo compito di ristrutturare il fatiscente apparato burocratico, volle graziosamente dedicare a me la sua attenzione.

Nel catino d’Indianapolis la ferocia dei sorpassi e giustificata dagli stratosferici compensi economici.

Un metro avanti, può valere un miliardo di cose belle.

Io sapevo di non aver partecipato alla corsa per me stesso.

Sarei rimasto volentieri a bere birre popolari, nell’attesa dell’incaricato inviato a rendermi meno ostico il trasferimento.

Devo ancora chiarire che Egli, il traghettatore, non era mai giunto al mio indirizzo sempre a causa dello stesso errore.

Per l’uguaglianza tra i nostri DNA lo avevano inviato alla residenza di Ignazio!

Dall’altra parte dell’Universo.

Dove comunque Ignazio non c’era più.

Ma ciò è irrilevante.

Continuando nel precedente ragionamento, mi pare di aver dimostrato con sufficiente evidenza, che io non avevo agito in preda ad alcuna ambizione personale, bensì solo con l’obiettivo di liberare Ignazio, l’umanizzazione della mia fantasia, dal timore dell’ignoto.

Petrus hic, nel frattempo, non aveva lesinato né birre né sigarette (neppure a se stesso).

Uno smoking bianco mi mostrava la sobria essenzialità dei movimenti che l’uomo dal fiore di ginestra all’occhiello del bavero, rendendo ogni volta più tormentosa la reiterata canzone dedicata al compiacimento dei miei desideri, eseguiva in pieno distacco dalla realtà, abbandonandosi alla musicalità dei suoi ricordi.

“INDIFFERENTEMENTE SI TU M’ACCIRE NUN T’DICO NIENTE”

Il tratteggio, ordinato e ripetitivo, con cui la donna dalle mani ambrate muoveva le stecche di bambù del ventaglio giapponese procurava piacevole frescura alla mia placida serenità, ma fu troncato dall’avvicinarsi di Aurora, la donna guascona, “così o come” il canto mattutino del gallo, “così o come” la voglia senile di un figlio, “così o come” il dubbio “Io, chi sono?”.

Lei mi prese in disparte e disse:

-«Ignazio ritornerà ai suoi avventurosi accadimenti con la totale revisione del carico di azioni solo a lui imputabili.»

-«Ti ringrazio.»

-«Era semplicemente doveroso, con l’aggiunta delle nostre scuse.

Abbiamo eseguito miliardi e miliardi di controlli e, infine, siamo certi che non sono stati commessi altri errori.

Il tuo prezioso intervento è stato determinante per evitare che venisse azzerata la immacolata credibilità del nostro operato. Per questo, la Corte Suprema che ho l’onore di dirigere, ha deliberato di concederti il titolo e gli onori di:

GRANDE SUPER GUIDA DELLE PRATERIE TRA L’ESSERE E IL NULLA.

In più, un contratto mille volte migliorativo rispetto a quanto percepivi con la professione di “Lettore di giornali in pubblico”.

Potrai mettere a punto i particolari con i nuovi, dinamici, giovani, funzionari, già nei prossimi giorni…»

-«Grazie ma non dovevi, non volevo che…»

-«Non io ho deciso.

Si tratta di delibera della Corte Suprema.

Non puoi rifiutare.

Poi, accettando di buon grado la proposta di Petrus, il Consiglio Direttivo ha il piacere di nominarti:

CITTADINO ONORARIO CON LE CHIAVI DEL REGNO».

-«Accetto volentieri, per il piacere di potere incontrare ancora voi tutti.»

«Anche il Sindacato Generale vuole partecipare con un attestato di stima, e ti concede due tessere che potrai assegnare a tua completa discrezione.

I beneficiari saranno liberi da qualsiasi altro impegno che non sia la totale dedizione all’adempimento dei tuoi desideri. Per non permettere alla tua generosità di commettere inutili follie, e poiché sono anche un po’ “marpiona”, ho fatto i nomi dell’uomo dal fiore di ginestra e della donna dalle mani ambrate. Ho sbagliato?»

-«Oltre che marpiona, io trovo che tu sia di una sensibilità inaudita. Cosa potrei volere di più?

Ricongiungermi con la mia Anima e il mio Cervello!

Fantastico.

Hai ricostruito la triade della mia esistenza.

Temo solo di non meritare tanto, di non esserne degno.»

-«Di imbecilli ne ho incontrati a reggimenti, persone degne come te, davvero poche.

Quanto a me, nella disponibilità che mi conferisce il ruolo che esercito, io personalmente, la Signora, Donna Guascone, per te amica Aurora, ho decretato di assegnare al tuo DNA:

UN BONUS, CIOÈ UN SUPPLEMENTO DI VITALITÀ

Avrei voluto concedertelo di durata infinita, ma dalla nostra ortodossia intellettuale il termine non è accettato. Né infinito né eterno, così, con una lieve forzatura, da voi si dice una “furbata” l’ho modellato per non farlo esaurire prima che finisca la “Tua Eternità”. Per tutto il tempo che Essa vorrà, indefinitamente.»

-«Significa che…»

-«Hai già capito tutto.

Non aggiungere parole.

Ora, se vuoi, è l’ora di andare.

Infine ho accettato la richiesta unanime di tutto il mio popolo virtuoso di affidare a te questo cimelio.

UNA BACCHETTA DA DIRETTORE D’ORCHESTRA.

Con essa, Arturo Toscanini diresse per la prima volta a New York il 13 aprile 1913 la Nona Sinfonia di Beethoven.

Nel suo resoconto sulla rappresentazione, il “New York Herald” mise il titolo: “Il Signor Toscanini, la Bacchetta Magica della Sinfonia”.

Eccola.

ètua».

Non appena la mia mano destra strinse la sottile asticella, l’ode “Alla gioia” di Schiller si elevò nello splendore di una solenne coralità:

“Gioia, bella scintilla……

Colui al quale è toccata la grande ventura d’essere amico di un amico, colui che ha ottenuto una dolce donna, mescoli alla nostra la sua gioia!”.

Finché strumenti a fiato, piatti, grancassa, giunsero al tripudio popolare traboccante con le voci del coro e dell’orchestra.

L’uomo dal fiore di ginestra, con larghi respiri seguiva il tempo della mia passione.

Non appena la mia mano destra strinse la sottile asticella, il soffitto, nebulizzato, lasciò spazio al cielo stellato della notte di San Lorenzo, lo specchio, in una dissolvenza… svanì Ignazio.

La donna dal bel ventaglio giapponese, entrò sorridente nei miei occhi.

Aurora guardò noi tre piangere abbracciati.

Per giungerci accanto, mosse due passi con il movimento armonico di mia sorella.

Accarezzò le nostre teste con la mano affusolata di mia madre.

Disse: «Vi bacio» con la voce profonda di mio padre e con un commosso sospiro di sollievo bagnò le nostre lacrime con le sue.

E tutti, tranne i malvagi:

Giuseppe, l’amante di Giuseppe, la sorella di Giuseppe, il marito avvocato della sorella di Giuseppe, i loro due figli maschi e la unica femmina, il figlio avuto da Giuseppe con l’amante, Luigi, Salvatore, Scisciò, Francesco d’Avellino, Violetta, la moglie del futuro ministro, Cecilia, un graduato dei carabinieri, un segretario di tribunale, il fratello di un consigliere comunale campano di un altro comune, con la moglie il figlio e la figlia, un funzionario di polizia, un parente, due parenti, tre parenti, un ufficiale sanitario, un addetto alle dogane, un proprietario di bar, un non ricordo bene, ah sì, un armatore falso spiluccato dalle alici nel mar baltico, un cane, un cavallaro, trentamila pipistrelli e tutte le stramaledette zanzare dell’isola d’Ischia, “così o come” avviene nelle più belle favole, continuiamo, tutti, a vivere felici e contenti.

 

CAPITOLO FINALE

 

……la porta era aperta, il telefono squillava come un pazzo, mi affrettai a rispondere.

-«Ahh… ahh… pronto ahh…»

-«Bruno!

Dov’eri?

è tutto il giorno che ti chiamo!»

-«No, niente.

Ero qui.

Dormivo.

Sognavo.»

-«Sognavi? Ma se ti sento affannare!

Confessa, sei stato un’altra volta da quella zoccola, è vero?»

-«No, Amo’ non è vero, sognavo.»

-«Come si chiama… Aurora, se la incontro la uccido.»

-«Lascia stare… …

Ceniamo insieme?

Stasera alle venti?

Da Petrus, alla Nuvola Bianca?»

 

fine

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DISPARI 20240729

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Dodicesima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Lo sfoglio quotidiano di giornali previsto dalla mia ultima relativa professione, tra tante baggianate e scempiaggini bazzecole e pettegolezzi di rado, ma a volte, mi aveva concesso l’opportunità di aggiungere un tassello alla collezione delle teorie preferite.

Un fedele scudiero dei miei pensieri mi aveva fornito una lancia. Un’idea che avevo attinta dalla quinta pagina dell’organo di stampa nazionale utilizzato per il mio lavoro durante l’ultimo mese di agosto. Pareva forgiata apposta! Da quel concetto ero rimasto particolarmente colpito.

Per la sintesi e per il rigido schematismo, amalgamato ad un probabilismo assolutamente incontrollato, che esso avvalorava come imparziale strumento decisionale.

Un dotto estensore di cui non ricordo il nome, l’aveva espresso scrivendo (ed io avevo recepito il testo come la sfacciata seduzione di un tango argentino nello struggente abbandono di ogni illusione):

“…Ogni azione che compie ogni individuo, fisica mentale o di qualunque altro tipo, trasferita nel super elaboratore della natura, riduce, di una determinata percentuale, il carburante attivo (come nei video giochi) a svantaggio dello stato vitale complessivo.

In proporzione, ciò avviene anche per le parti, una o più di una, oppure infinite, che compongono il presente di chiunque (uomini, animali, vegetali, minerali ecc.).

Quindi il cuore, le ossa, no meglio, la sopravvivenza del cuore, delle ossa, insomma di ogni elemento, ad ogni azione che lo vede coinvolto, restituisce una porzione della vis vitale di sua pertinenza, fino al completo esaurimento.”

 

Due più due fa quattro.

Quattro più quattro fa otto.

Io volevo capire se un’analoga valutazione era alla base della nostra convocazione.

Ad ogni azione una diminuzione di carburante.

Ciò per ogni individuo identificato comparando il suo esclusivo DNA.

Il mio DNA identico a quello di Ignazio.

Perché coincideva l’anno il mese il giorno e l’ora delle nostre convocazioni?

Perché non supporre la…

Sììììì. Sììììì. è così. Sìììì è cosììììì.

-«Aurora. Auroraaaaaa… aiutami.

Rendi efficienti tutti i sistemi d’informazione, convoca i direttori dei reparti, i responsabili di zona, gli analisti, i tecnici e tutti i grandi burocrati.

FERMA IL TEMPO.

Ne resta poco.

Non può bastarmi.

Blocca i bip.

Fidati.

C’è un grosso sbaglio.» E lei:

-«Una sola volta ho deciso l’interruzione dello sviluppo naturale della evoluzione e, grazie a te, essa risultò provvidenziale.

Ripeterla, potrebbe significare per me l’angoscia di un irrimediabile errore.

è vero, anche i regni più antichi possono finire.

Sappi comunque che la mia decisione di dare credito alla tua sicurezza, ha origine dalla stima che ho per te, più che dal nostro affetto.

FERMATE IL TEMPO.

Per quindici minuti nessuno arrivi e nessuno parta.

Non ci siano bip.

FERMATE IL TEMPO.

Quindi, se non verificherete errori di funzionamento del nostro sistema… allora… allora nominerete un altro responsabile al mio posto.

I milioni d’anni della mia coscienza non accettano di deludere un amico.

A qualunque costo.

FERMATE IL TEMPO.

HO DETTO.»

 

Meno quindici:

 

Tornai sulla schermata che al mio arrivo avevo attivato, quasi meccanicamente, facendo clic sulla freccetta (non lampeggiante e non splendente) indicante “Continua”: e potei rileggere il messaggio allo scopo di controllare se ne risultava specificato il collaterale modello di attuazione: “L’efficiente tecnologia trasportata di là da nostre opportunistiche appendici…  ecc. ecc.”

Altro clic, ancora, altro clic e, proprio come avevo letto in quell’articolo nel mese di agosto, sullo schermo fu indicata la struttura operativa del progetto: “Ogni azione che compie ogni individuo, fisica mentale o di qualunque altro tipo, trasferita nel super elaboratore, riduce di una percentuale il carburante attivo (come nei video giochi) per una sua singola forma vitale; per una o più di una, od anche per tutte insieme.

Cioè il cuore, le ossa, no meglio, la sopravvivenza del cuore, delle ossa.

Insomma ogni elemento a seguito di ogni azione restituisce una parte della sua vis vitale, fino ad esaurimento ecc.”

 

Meno dodici:

-«Compariamo Il mio DNA e quello di Ignazio.»

-«Comparazione in atto.

Comparazione eseguita.»

-«Risultato?»

-«Perfettamente identici.»

Aurora si accostò alla mia spalla.

Meno dieci:

-«Confrontiamo, i diagrammi di decremento energetico relativo a tutte le mie funzioni, con gli stessi assegnati ad Ignazio.»

-«Elaborazione in atto.

Diagrammi elaborati.»

-«Risultato?»

-«Le loro funzioni sono assolutamente identiche nello spazio, nel tempo, e nella quantità.»

Aurora, mi respirava nei capelli.

Meno otto:

-«Analizziamo il diario di Aurora.»

-«Impossibile, è segreto.»

Aurora, la Donna Guascona, non permise la mia sconfitta, puntò l’indice contro il Capo Burocrate:

-«Prima, fermando il tempo, ho detto di farlo a qualunque costo.

Eseguite.

Nessun segreto potrà impedirmi di rispettare l’impegno assunto.

Nessuno.

Distruggete il sigillo.

Aprite il mio diario »

Il tesoriere dei segreti, scattò sull’attenti, ed ubbidì impartendo il comando.

Meno sei:

Una voce disse:

-«Diario in rete.

Diario aperto.»

 

Meno quattro:

-«Aurora, ricordi la volta che venni a presentarti “L’Appuntamento” tra l’uomo dal fiore di ginestra e la donna dalle mani ambrate? Che giorno era?»

Meno cinque:

-«Cercatelo. Ditemi la data.»

Meno quattro:

–«Ricerca in corso.

Ricerca ultimata.»

-«Risultato?»

-«Ventiquattro marzo mille novecento novanta due, ore diciotto. Annotazione: ospite Bruno.»

-«Aurora, vuoi chiedere se c’era anche Ignazio?»

-«Controllate.»

Meno tre:

-«Controllo in corso.

Controllo effettuato.»

-«Risultato?»

-«No, non c’era.»

Meno due:

-«è certo?»

-«Confermato. Non c’era.»

-«Aurora hai inteso?

Non c’era Ignazio insieme con noi quando accompagnai da te l’uomo dal fiore di ginestra e la donna dalle mani ambrate che sai considero la mia Anima e il mio Cervello.

Giusto?

Chi potrà spiegarmi perché nel diagramma del suo DNA viene scaricato questo incontro?

Ed anche nel mio?

O lui o io!»

Meno uno:

-«In quanti eravamo, Aurora? Ricorda e decidi, manca un attimo.»

STOP.

Tutto fermo.

Tutti fermi.

Si faccia avanti il responsabile.

SUBITO!!!»

Non furono parole, furono imperativi categorici ed io pensai: «Si salvi chi può, è l’ora del giudizio universale».

Un suono di ciaramelle accompagnò la mia anima deliziosa che ancora prima del verdetto, senza indugio, iniziò a declamare i versi, dedicati un tempo al nostro “Arrivederci”:

… … …

Ed oggi ascoltare

venerdì di piazze

domeniche di folle

 

e il resto,

tutto rifatto

scotto:

segna nuovo equilibrio

per non staccare stampe

da muri di nuovo imbiancati.

Sedersi su un albero,

presso un’onda chiara, scura,

ai piedi del viale del nostro viaggio, nella poltrona di fronte al fuoco, su un angolo del letto a luci ancora spente,

non oltre,

noto:

lasciamo ad altri

tratteggi di scie di lumache storie di applausi e di avventure scolpite … per Uno.

Ora se vuoi è l’ora di andare.

IL DISPARI 20240715

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Undicesima puntata

 

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

 

Ebbi forte la tentazione di effettuare un balzo ed abbracciarli con un simpatico effetto sorpresa.

Tutto ciò durò solo qualche attimo, poiché all’improvviso, guardando la mia figura nell’immenso specchio, ebbi un sussulto.

Un tremore generalizzato dalla testa ai piedi.

Gli occhi impietriti, le labbra sbiancate, la testa un macigno, il

respiro ansimante.

Pareva stessi morendo.

Sentivo un’eccitazione simile a quella che avevo vissuto nel Viet Nam, quando per sopravvivere uccidevo uomini donne bambini animali tutto quanto si muoveva uscendo da un fosso una palude un tronco d’albero.

Ma non ero io, Ignazio aveva combattuto nel Viet Nam!

Mi stava aggredendo l’ansia che anni addietro avevo percepita al tavolo da gioco “Rien ne va plus” in quell’ultimo colpo, o vincente o prodromo del proiettile terminale.

Ma non ero io, Ignazio era stato preda di ogni azzardo!

Ignazio.

E l’eroina schiaffata nella vena?

Lo stupro?

Il maledetto inganno?

Tra me e Ignazio si andavano via via cancellando i confini.

Non avendo mai chiuso tra noi due il collegamento “Cip-Ciop”, ero ancora in grado di vedere ciò che lui guardava e udire i suoi pensieri.

Ignazio, seduto al posto che avevo lasciato vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, ripeteva le stesse azioni che erano state compiute da me in precedenza, e in quel preciso momento stava fissando con curiosa attenzione la rappresentazione tridimensionale del suo DNA.

Incredibile!!

Assolutamente incredibile!

è perfettamente identico al mio!

… quindi… forse… devo controllare… subito… subito … di corsa…

-«Non farlo!» gli urlai mentalmente «Non farlo!

Non toccare niente.»

-«Aurora, Aurora aiutami» ripetei più volte con tutta la voce che avevo «Aiutami.»

La Donna guascona giunse in un attimo:

-«Come? In che modo? Certo. Che succede? Sono pronta.» -«Quanto manca?»

-«Trentacinque minuti.»

-«Cazzo! Devo sbrigarmi. Andiamo nella sala controllo.

Chiama il Capo Burocrate.

Petrus, prego, una birra ghiacciata super popolare.

Uomo dal fiore di ginestra, suona per me «indifferentemente». Signora dalle mani ambrate rinfrescami la nuca con il soffio del tuo ventaglio giapponese a strisce di bambù.

Fatemi sentire i cuori pulsare per amore.

Corriamo, corriamo.

Il tempo è tiranno.»

 

Anticipando le reazioni di loro tutti:

-«Il nostro DNA è totalmente uguale» urlai con la voce profonda di mio padre.

Io per natura non accetto gratuite caramelle, ma non sopporto neppure che mi svuotano il frigorifero senza consenso.

Il mio cervello matematico aveva suonato la carica…

«AVANTI…» per un soldato solitario contro un potere generale.

Io sono un essere.

Io sono napoletano.

Masaniello era napoletano.

I poteri sono dovunque.

Fece una brutta fine il Masaniello a Napoli, però!

Io sono napoletano.

Il mio cervello matematico e la mia anima poetica, da giovani se le erano date di santa ragione.

Paccari coltellate e sputazzate in faccia.

-«Voglio diventare un fisico nucleare»

-«Desisti, regaleremo emozioni»

-«Che vuoi regalare, non regalo niente»

-«Piccolo provincialotto»

-«Grande illusa», e via a scaricarsi le peggiori offese.

Tante se ne dissero e tante se ne dettero che non giunsero ad alcun accordo, ed ora mi guadagno da campare facendo il “Lettore di giornali in pubblico”.

Non esiste?

Forse non esisteva.

Esiste, esiste.

Mi sono inventato una libera professione con molta dignità e talento, seguendo un ragionamento diciamo “pragmatico”.

Perché, mi chiedevo, i giornali pagano la pubblicità per se stessi su altre forme di comunicazione ed anche su testate a volte acerrime concorrenti?

Risposta: per farsi leggere.

Perché, mi chiedevo, un quotidiano di tiratura nazionale viene distribuito gratis annesso ad un foglio di cronaca locale?

Per farsi leggere, rispondevo.

Per quale ragione, nel mio paese di origine, il notiziario di pettegolezzi comunali, unito ad uno storico giornale filo monarchico e ad un quotidiano politico nazionale affiliato alle gerarchie di un potente costruttore finanziere editore presidente politicante, perché mi chiedevo, tutti e tre insieme vengono venduti al prezzo di un solo?

Si sa bene che non bada a spese il potente costruttore finanziere editore presidente politicante proprietario del quotidiano politico nazionale, e che neppure sono in cerca di soldi i referenti politici dello storico vessillo monarchico.

Il notiziario locale di pettegolezzi comunali, li regala entrambi ed acquisisce nuovi lettori.

O.K.

Perché?

Risposta: vogliono essere letti…

Ed io mi sono proposto nella specifica mansione di “Lettore di giornali in pubblico”.

Il loro ufficio gestione rapporti col pubblico mi fissa un itinerario, con rotazione mensile, per la cui precisa attuazione i dirigenti addetti alla struttura finanziaria mi pagano viaggi trasferte pernottamenti cene pranzi e colazioni, scarpe nuove ogni mese, venti consumazioni al giorno ai tavoli dei bar più prestigiosi, due concerti a settimana, ventuno pacchetti di sigarette marca… (omissis)… a settimana (poi vi spiego perché), un nuovo accendino ed un orologio ogni cambio di stagione, e, considerato il disagio dei continui trasferimenti, l’Azienda mi concede una femmina a piacere ogni quindici giorni, un mese di ferie l’anno, ed il barbiere quotidiano.

La mia giornata lavorativa di solito inizia alle otto di mattina e termina alle sedici.

Al mattino, nella portineria della locanda albergo pensione residence villaggio in cui ho trascorso la notte, trovo un mucchio di giornali: stessa marca stavo per dire, stessa testata è invece corretto.

Li ripongo in una borsa busta contenitore carpetta, ne lascio fuori uno, mi reco ad una vicina fermata di autobus tram metro funicolare sciovia traghetto e, come se attendessi un particolare mezzo di trasporto, spiego il giornale in bella vista, con la prima pagina ed il titolo in perfetta evidenza, e fingo di leggere con interesse fingendo di aspettare.

-«Perbacco, i C.R.I.C. vogliono le elezioni…»

-«Come? Berlisco ha detto che…»

-«… sono una vera schifezza questi P.R.O.C.».

Coloro che mi sono vicini sbirciano, incamerano, si schierano.

Un attivista di avversa parte politica, nemico dichiarato dei padroni della testata e della sua impostazione socio economica, mi guarda e mi sfida.

Fine della prima tappa, anzi no, perché, ancora fingendo, in questo caso distrazione, lascio il giornale sulla spalla della pensilina, così che altri possano continuare sbadatamente ad appropriarsi delle notizie che mi pagano per far leggere.

Seconda tappa, estraggo dalla borsa un secondo giornale identico al primo, e mi avvio a ripetere la funzione verso il parco pubblico.

Terza sosta, identico cerimoniale ed uguale messa in scena, al bar salotto buono, poi alla mensa ferroviaria, al circolo del ludico paranormale, dei baffoni giganti, dei coglioni in motocicletta.

Alle ore sedici, stop.

Serata libera.

Domani, un nuovo itinerario, forse pomeridiano serale, con sosta a cinema o a teatro.

Domani un nuovo posto per guadagnare i miei trenta denari. Sì, è vero, ho dimenticato di chiarire che anche le sigarette fanno parte del patrimonio di furbizie utilizzate dal dirigente organizzatore, il quale, scegliendone la marca, merita una “cagnotta” (tangente?) (provvigione?) simpaticamente offerta da quell’azienda di tabacco, naturalmente all’insaputa dell’editore per il quale lavora.

Cose che capitano anche in televisione.

A me che importa?

Trenta denari e fingo di fumare (ho smesso da tre anni) perfino la paglia secca degli ex Canneti della mia ex Isola Verde.

Ho costruito questa lunga divagazione, per introdurre il sunto di un ampio e dotto saggio che il mio cervello matematico aveva fatto rimbalzare, con perfetto tempismo, non appena si era reso conto della incoerente identicità del mio DNA con quello di Ignazio.

 

IL DISPARI 20240722

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Decima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Le sensazioni furono di trovarmi ad Atene nella Placa piuttosto che nell’Acropoli, nella curva sud durante la celebre partita tra Napoli e Verona (sotto lo striscione “Giulietta è una zoccola”), nello sguaiato flusso di scioperanti incazzati, invece che al seguito di un rassicurante crocifisso esposto, durante religiosi festeggiamenti, in occasione dell’anniversario relativo alla resurrezione dell’uomo seminudo che ne aveva patita la sofferenza.

Mi sedetti alla prima postazione vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, confuso fra una quasi interminabile schiera di professionisti di ogni razza proiettati in complesse, ed apparentemente astruse analisi, utilizzando visualizzatori in grado di introdurli in dimensioni temporali e spaziali prive di ogni limite.

Seguendo una semplice informazione, digitai un clic che consentiva l’accesso a tutte le possibili informazioni            -scientifiche, grafiche, genetiche, storiche, ed altre ancora-, riguardanti la complessa struttura fisica, chimica e biologica, sia della totalità e sia dei particolari riferibili al mio DNA.

-«Eccolo».

Nell’ottocento, per non andare oltre e scomodare così l’archeologia del sociale, quasi nessuno sarebbe stato in grado di riconoscere fisicamente il Grande Capo di un paese limitrofo: «Chi sei?» «Sono il Re dei Canneti.» «Dimostralo.»

E che vuoi dimostrare!

Il Re dei Canneti bisognava si affidasse ad un amico comune, un messaggero di professione, un principotto viaggiatore, una rinomata donna di compagnia notturna, cinquecento fucilieri in divisa giallo – rossa (Romani Papalini), nero – azzurra (Longobardi di Moratti), gialla o verde (Padani per Bossi), celeste cielo (Brigate Maradona).

Nell’ottocento, meno di duecento anni fa, i riconoscimenti si perfezionavano attraverso conoscenze di terzi.

C’è sempre stato un poi a tutto, e il poi di questa gestione dei rapporti personali si andò evolvendo con devastante, collettiva, sistematica, indolore, subdola, lenta classificazione ed appropriazione pubblica di minime peculiarità personali.

I documenti di riconoscimento o le impronte digitali possono agevolmente servire da esempio.

Una minima oggi una minima domani una minima dopodomani, dopo duecento anni io tu lei noi voi essi colui coloro costoro chi altro non so, siamo stati infine schedati ed incatenati con il nostro DNA, non falsificabile, non ripetibile, indiscutibile.

Le foto tessere, i gruppi sanguigni, i riconoscimenti vocali, olfattivi, il neo sulla guancia destra, sono ormai strumenti di controllo relegati nelle bacheche dedicate ai nobili ante – nati.

La nuova agnizione avviene mediante il personalissimo,

affidabilissimo DNA.

Io sono un DNA.

Tu sei un altro DNA.

Ripeto “Nessun uomo è paragonabile ad una donna.

Non c’è uomo simile ad un altro uomo.

Non esistono due gravidanze uguali.

Nelle belle famiglie campagnole il gatto era gatto.

L’agnello, agnello.

Il cavallo, cavallo.”

-«Eccolo. Arriva.»

Sul visore invisibile, le immagini si materializzarono simili ad

ectoplasmi, pura luce in movimento… ma non voglio dilungarmi su queste particolari teorie teorio teoritu teorilui… l’effetto collaterale di un loro rinvio sine die, mi consente di ritornare alla rotella essenziale per liberare dalla clandestinità il ricamo filigranato che ho celato fino a questo momento.

-«Eccolo, arriva, ci siamo».

Insieme ad una catena incomprensibile di simboli numeri sigle spazi vuoti tratti trattini tratteggi tortuose concezioni, insieme alla visione tri quadri dimensionale del mio DNA, una freccetta indicante “Continua” (non lampeggiava né splendeva), riuscì, ugualmente ad incuriosire la mia ormai prossima rassegnazione.

-«Manca poco alle venti.

Manca poco.

Manca.

Però manca».

-«Ecco le birre Signor Bruno e Signor Ignazio.

La nostra Signora Vi chiede di scusarla, poiché il recente conflitto mondiale le sta procurando molto lavoro supplementare.

Accogliere tanti in così breve tempo necessita grande organizzazione e professionalità.

Posso bere con voi?

Un boccale di birra popolare?

Salute.

Hic!»

-«Petrus cosa significano tutti questi bip che sentiamo?»

-«Energie finite, terminate.

Segnali di arrivi: Un bip, una fine. Hic!

Prego, signor Bruno, spostiamoci nell’angolo bar dove ci sono due vostri amici che mi hanno pregato di potervi incontrare prima del passaggio di là.

Hic!»

Dissi: «Manca poco, è tardi.» poi aggiunsi «Chi sono?» e quasi meccanicamente feci clic sulla freccetta, non lampeggiante e non splendente, che indicava “Continua”.

Il clic aprì una finestra di presentazione della logica in ragione della quale era stato messo a punto il programma relativo agli arrivi: “… l’efficiente tecnologia elaborata ed in seguito trasportata fino a noi da opportunistiche appendici umane, decide arrivi e partenze sulla base di speciali analisi dei campioni di DNA.

Essi vengono diversificati con probabilistici fattori di rischio indicati da generalizzati rapporti statistici (ambientali ereditari assicurativi sociali asociali climatici tellurici professionali), e quindi inseriti in un unico complesso disegno di arrivi e partenze adeguato alle direttive inflazionistiche, finanziarie, multinazionali, politiche, ed ambientali che, comunque rispettoso dei diritti delle minoranze linguistiche e religiose, opera in assoluta indipendenza da gerarchie, titoli nobiliari, accademici, professionali -veri o falsi-, da corruzioni o da inganni.

Così decidendo in maniera indiscriminata ecc. …”

Per fuggire dal saccente pragmatismo di quelle astruse alchimie, accettai l’invito di Petrus, ritenendo che per me sarebbe stato più piacevole spendermi insieme ad amici, tra birre e canzoni. -«Andiamo Petrus.

Tu vieni Ignazio?»

-«Se mi è consentito, preferirei rimanere qui, dove mi sento poco coinvolto, asettico.»

-«Puoi.

Andiamo Petrus.»

è bello dopo un lungo periodo di assenza, tornare a casa, a condizione che i luoghi e le persone abbiano conservato almeno una goccia dei sentieri d’acqua che avevano infiammato, prima che partissimo, i nostri sentimenti.

Riprovare a leggere al lume della lampada verde, quasi mia coetanea, dopo violenze di neon internazionali sbattuti oltre i filtri di lenti brunite!

Lo paragono alla vincita di un bonus da utilizzare quale recupero per i giorni gettati in inutili sfide.

Il feudo abbandonato libera proprie energie ed accetta confronti, pur senza pretese di successi.

Non sempre è così.

Tornassi ora, dopo una lunga assenza, le mie Pinete (non erano mie), i miei Canneti (non erano miei), il mio Castello (non era mio), mi procurerebbero solo dolore e delusione.

Seguendo Petrus mi preparavo alla spiacevole eventualità di aprire la porta su una scena differente da quella del mio ricordo.

Con cautela, con la discrezione di chi non intendeva disturbare, mossi, lentamente, la maniglia, e spinsi.

Nulla era diverso.

Nulla.

Quasi si fosse trattato di un’antica scultura.

Il pianoforte, le luci, il lampadario, le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, le rustiche grotte dei desideri con al centro la chitarra rossa di Elvis, i trecento quasi invisibili ciondoli tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) che io, anni prima, avevo interpretato come ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.

La fantasia della fantasia.

Le più belle scelte, messe in ordine dalla più eccentrica stravaganza.

Al centro del soffitto l’antico lampadario a cinquanta bracci, di una mescola ottenuta con sabbia e petrolio, ancora troneggiava, aprendo la porta, riflesso nello stesso specchio, irregolare, ambrato.

Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale, continuava a sbalordirmi come la prima volta.

I due amici che mi stavano aspettando, due cari compagni, non si erano accorti del mio ingresso e più innamorati di mai, nella naturalezza del tenero sentimento che li univa, seguitavano a creare atmosfere musicali difficili da dimenticare.

Lui, con l’immancabile ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) al bavero, e lei con l’identico ventaglio giapponese che aveva nel giorno del loro ricongiungimento.

 

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

 

 

IL DISPARI 20240506

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Nona puntata

Parte seconda

CAPITOLO SECONDO

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.
A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?
Gas, acqua, luce, finestre, spazzatura, garage.
Ritirare i depositi dai conti bancari postali azionari, oppure effettuare una fuga in taxi per una foto in autoscatto sul ponte del Castello Aragonese, all’ombra dell’ultimo pino, tra le canne del vigneto, sulla cresta del monte Epomeo? Telefonare?
Incontrare?
Lasciare biglietti?
Spiegando, allarmando, creando apprensioni?
Troppe cose, troppe azioni, troppe persone, troppi affetti, fino alle ore venti.
Non un minuto oltre.
Ei, Ignazio, mio gemello, non immaginava il destino comune del nostro prossimo percorso.
«Aiutami» erano state le sue prime parole «Aiutami» e fu subito pronto, non chiese spiegazioni, nessuna titubanza, allorché vide le mie dita affusolate cingergli il collo, il mio corpo armonioso muovere verso l’uscita, ed udì la mia voce profonda dire «Andiamo. Non aspettiamo oltre. Ora o le venti, è uguale. Andiamo
Non chiusi la porta, spensi solo la luce.

IL DISPARI 20240506 DILA APS 

Parte terza
 
CAPITOLO PRIMO

Toc toc.
Pausa.
Toc toc toc.
Crcrrrrrrrrr
Signor Bruno!»
Ciao Petrus, come stai?»
Grazie, bene, come un vecchietto. Entrate presto, fuori è pericoloso
Pericoloso?»
Forse non lo sapete ancora, di là è scoppiata una guerra nucleare. Potrebbero arrivare delle radiazioni fin quassù.»
Non sei per nulla cambiato, mattacchione.»
Il signore è Vostro amico? Sì?
Prego entrate… Signor…?»
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro… grazie
Aurora c’è?»
Certo per Voi, Signor Bruno, c’è sempre.
Vado a chiamarla.
Intanto gradite una birra ghiacciata? La solita popolare?»
Grazie ma non ghiacciata… inizia a darmi problemini… fredda, popolare… anche per Ignazio. Vero? E tu non bevi un boccale con noi?»
Certo!
Se Vi è gradito, certo.
Vengo subito, accomodatevi, siete a casa Vostra. Sapete bene quanto Vi stimi la nostra “Signora”.
Vado e vengo. Subito.»
Non correre Petrus, non abbiamo fretta, siamo in anticipo.»
Appena Petrus si allontanò, Ignazio disse:
Siamo? Perché siamo? Io, sono convocato. Io sono.»

IL DISPARI 20240506 DILA APS

L’assegnazione dei personaggi agli interpreti è un’arte che solo l’esperienza insegna.
Il ruolo del burbero, del tirchio, del bell’Antonio, della serva, non vengono sempre carpiti con immediatezza da tutti i figuranti.
Si è bravi generici quando si è propensi all’adattabilità.
Chi soffia nel flauto ne cava le note.
Conoscevo il luogo nei dettagli.
La facciata della vecchia villa schiusa dal cancello di ferro battuto, la sala d’attesa con l’angolo bar: divani di pelle nera e pianoforte sulla pedana semi tonda.
La terrazza dalla bella vista sulle cascate sul monte e verso le foreste.
Sapevo bene che nessuno avrebbe osato fermare i miei passi.
Ero in anticipo.
Ero un amico.
Di Aurora.
La “Signora”.
Ansioso irrequieto schizzato nevrotico, mi dimenavo come un leone in gabbia durante lo spettacolo circense della vigilia di Natale.
Ero anche certo che in nessuno si sarebbe mai, neppure lontanamente, insinuato il sospetto che le mie palesi curiosità fossero, in qualche modo, substrato d’indagini negative, oppure, peggio, potessero essere di contrasto alla migliore immagine del perfetto regno diligentemente diretto dalla Donna Guascona, Aurora, la Signora.
Avevo tempo, potevo farlo, mi spinsi oltre il cartello “Uffici, Vietato Entrare”
Vieni con me e taci» così intesi rispondere al silenzio inquietato di Ignazio.
In epoche recenti, il nobile vezzo antico dell’esplorazione, è “scompisciato” in una grande collettiva scientifica analisi di percorsi (variabili, variati, allusivi) tra “supposte supposizioni”.
Per scoprire l’Antartide, il bel sistema mondo visivo attuale ne assegna la ricerca in porzioni, non superiori ad un metro quadrato, a favore di ciascuno dei milioni di prezzolati assistenti degli assistenti dei ricercatori assistiti.
I dominatori dei laboratori vincenti, chiedono ottanta zecchini, per una manciata di polveri medicamentose.
Le puttane di Venezia la davano per meno al Grande Casanova.
Altra razza altra gente.
Non avrei mai immaginato che fosse possibile rendere funzionale un centro operativo come quello presente nei locali delimitati dal cartello “Uffici ecc…”.
Dimensioni enormi.
Assolutamente unico.
Non siate tristi piccoli fiori di loto dagli enormi occhi a mandorla, artefici di tante applicazioni tecnologiche, in quanto il vostro impegno al banco di lavoro non è mai responsabile per gli utilizzi del grammo di silicio che intrappolate ed irreggimentate.
Lì, nei locali “Uffici. Vietato Entrare.”, né granelli di polvere, né minimi corpi estranei avrebbero potuto intrufolarsi più avanti degli innumerevoli sbarramenti chimici nucleari biologici.
Concepiti per rimanere immacolati, gli ambienti si aprirono, accogliendoci, immediatamente dopo che alcuni specifici addetti ebbero provveduto a sterilizzare completamente ogni parte del nostro corpo, seguendo un elaborato procedimento senza dubbio previsto dal protocollo d’accesso.
Lì dentro tutti i cablaggi si visualizzavano mediante raggi laser diversificati per bande cromatiche.
Segui me. Non parlare.
Non toccare.
Non ora
«Centro elaborazione dati DNA
Entriamo.

Non ho particolare soddisfazione nella stesura di questa sezione della storia, in quanto la didascalica semplificazione che necessita la comprensione dei cardini ad essa relativi opprime fantasiosi movimenti letterari che, da sempre, considero maggiormente piacevoli delle gabbie di coerenze stilistiche che ne limitano l’espressività.
Comunque, Aurora tardava a raggiungerci e noi frattanto consentivamo che zelanti burocrati incappucciassero le nostre teste con l’ultima novità nata nel settore delle trasmissioni audio visive.
Parlo del nobile “Cip-Ciop”, commercializzato successivamente ai vari ex (tam tam telefono telefonino radiografia ecografia radar televisore infrarosso infra tutto) che erano già invecchiati da tempo.
A detta della pubblicità intergalattica: «Cip-Ciop ti fa parlare con chi vuoi e controllare visivamente anche i neuroni.
Cip-Ciop è senza fili e senza antenne.
Il rivoluzionario apparecchio, Cip-Ciop opera mediante un rivoluzionario collegamento neurologico.
Cip-Ciop, se vuoi, non parli e la tua lei ti ascolta.
Oppure, se preferisci, tu vedi lei, la vedi, e lei non lo sa.
Cip-Cip, è in vendita nei migliori negozi spaziali.
Cip-Ciop, apre il tuo futuro ».
La nuova Venere di ambiziose conquiste digitali!
Per la verità, nei locali del regno di Aurora, esso, l’aggeggio, discendente dell’illustre “tam tam”, assolveva un compito particolare: consentire la trasmissione delle informazioni tra gli stagionati impiegati fossilizzati nelle specifiche sezioni, non creando, nel contempo, spiacevoli turbolenze verso i comunicati provenienti dall’esterno.
Insomma,  con “Cip-Ciop”, i pensieri miei si sarebbero trasferiti nel cervello di colui o coloro che avrei selezionato quale ricevente, e soltanto nel loro.
Nessun altro avrebbero potuto in alcun modo intercettarli.
Al solo scopo di non deludere l’aspettativa di aiuto richiestomi in lacrime da Ignazio, feci in modo che i silici dei nostri strumenti stabilissero, unicamente tra noi due, un permanente contatto reciproco.
Lo sviluppo di un bruco in farfalla.

Continua lunedì prossimo

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Il Dispari 20240422

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo” Ottava puntata

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

I bulbi oculari mi facevano male, forse per la scarsa luce, forse per il poco sonno, forse per le tante ore trascorse a scrivere, forse per l’età, ma certamente andava ascritta al mio disordine mentale una qualche responsabilità per aver provocato il loro roteare senza punti fissi di riferimento.

Fermò le dita affusolate di mia madre, piegò verso l’alto il corpo armonico di mia sorella, e con la voce profonda di mio padre «Io sono Ignazio» disse.

-«Ignazio?»

-«Sì Ignazio»

-«E allora? Con ciò? Che cazzo significa? Basta indovinelli. Parla o vai. Ignazio, Filippo, Marco Aurelio, Giulio Cesare che me ne fotte del tuo nome!
Parla o vai.
Bevi, fuma e vai di corsa.
Non ho mai tempo per nessuno, figuriamoci oggi.
Non ne ho abbastanza neppure per me!»

-«Io sono Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.
Tuo fratello gemello.»

Scolorire al buio.
Perdere battiti cardiaci.
Stoppare il respiro.

Chiusi gli occhi e mi chiesi se credere che i sogni si generino prima dei fatti, oppure se persuadermi che ne siano una rappresentazione.
Le fantasie germogliano da oniriche trasgressioni mai metabolizzate, oppure ne costituiscono le origini?
Prima l’uovo o la gallina?
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro: il mio passato di sfrontate personificazioni dei mali del mondo.
La droga, la guerra, l’azzardo, lo stupro, si erano, tramite lui (visto da sempre quale compendio d’ogni maleficio), materializzati nella persona del traghettatore piagnucoloso che si dichiarava mio fratello e del quale mi impressionavano alcune caratteristiche fisiche: la voce profonda di mio padre le dita affusolate di mia madre ed il corpo armonioso di mia sorella.
Nel mio passato era stato un sogno, una visione?
A raccogliere i cocci di una bottiglia era la presenza di un incubo, d’una allucinazione?
Allora, quando scrivevo di Ignazio il combattente in Viet Nam, mi sfidava una forza di coesione che non si lasciava cancellare dal tempo e dalla distanza?
Il richiamo di una energia sconosciuta?

Nella situazione che stavo vivendo per il trasferimento che mi accingevo a compiere, ero oppresso dall’ossessione di pretendere una vicinanza familiare?
Ignazio, per me, padre madre sorella?
Mi chinai nell’atto di sollevarlo, ponendo i gomiti fra tronco e braccia, e quando il suo viso, assecondando i movimenti che compivo, giunse ad un palmo dalla mia bocca «Non ho fratelli» sentenziai «Non ho mai avuto gemelli, tu sei il parto della mia fantasia, tu sei mio.
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro mi appartiene.
u mi appartieni», attesi l’attimo necessario a che deglutisse l’assoluta determinazione da cui mi sentivo invaso, e stringendo i polsi fra i pugni chiusi ai lati del suo torace, con la calma della follia «Perché sei qui?» gli chiesi.

Finalmente, sul soffitto, al centro del mio mondo, accesi il faro delle grandi occasioni.

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CAPITOLO SECONDO

Non poter descrivere nei dettagli la serie di virulente emozioni che mi procurò il prosieguo dell’incontro con il mio gemello Ignazio, è il prezzo che voglio pagare per non derogare dalla militaresca sottomissione al principio di essenzialità nel quale ho deciso di rinchiudere l‘esposizione di questa storia.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora.
Non un minuto oltre».

E come potrei esaurire, con locuzioni brevemente tratteggiate, la descrizione del patos -posso dire a mala pena celato-, che lui mi aveva procurato definendo con frasi stringate la precisa e dolorosa ricostruzione dell’intrigata vicenda che aveva determinato la nostra separazione, nel 1943, tra guerra, fame, tradimenti?

Avevo ascoltato un Ignazio finalmente privo di reticenze.
Albeggiava.
Il gallo, i passeri, la fresca brezza che in tempi andati forse spegneva le lampade a petrolio sulle vie, il primo discreto avvicinarsi di un pullman di linea, il rombo soffuso del volo aereo Venezia Napoli, segnalavano con sufficiente precisione lo sviluppo delle ore.
Le quattro e venticinque.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora».

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Se mi sarà concesso, quantunque in un luogo differente e con altra penna, colmerò le tante lacune di questa ricostruzione, cimentandomi in una impresa narrativa che non potrà in quel caso essere ridotta ad un breve racconto.
Se sarà.

In sintesi, il suo racconto iniziò dall’età di cinque anni, nel 1948, quando io vivevo ad Ischia senza luce elettrica e senza acqua corrente.
Ignazio abitava, con la famiglia dalla quale a sua insaputa era stato adottato, in una sfarzosa tenuta spagnola assegnata, in segno di cameratismo, dal “Franco” allora dominante all’amico gerarca fascista che si era rifugiato sotto la sua protezione subito dopo la fuga del re dall’Italia.
Nel 1948 la balia gli svelò una prima parte del segreto: «Sei un bimbo adottato.»
Lui non capì e proseguì nella sua infanzia.
O non volle comprendere?
A me quell’anno non dissero niente.
Tutto, così, proseguì uguale a sempre.
Nella solita consuetudine.
Nel 1961, compivamo diciotto anni.
L’invecchiato comandante in esilio convocò il giovane Ignazio nello studio tappezzato da grossi volumi di libri mai letti, ed in quella occasione parato a festa con stendardi sfilacciati di una unica etnia svolazzanti tra tazzine da caffè rigorosamente nere, per comunicargli, adagiando rispettosamente la mano destra sulla banderuola che tra tutte figurava il riconoscimento per il maggiore atto di eroismo bellico, ufficialmente formalmente «Tu hai un fratello gemello.»

La frontiera nazionale del Montecarlo passa attraverso la struttura edilizia d’alcuni alberghi, cosicché ai privilegiati clienti è sufficiente spostarsi di una camera nello stesso ambito residenziale per godere degli effetti giuridici di un altro stato.
Simile trasferimento fece Ignazio.
Solo?
Con un fratello?
Io sono, lui è.
E tutto proseguì nella stessa identica ripetitività quotidiana.
A me nel 1961 non dissero nulla e nulla mutò.
Nessun particolare era rimasto inciso nei miei pensieri.

Mi chiesi quanti parenti ed amici avrebbero avuto la facoltà d’aiutarmi provvedendo alla discreta ricostruzione dei segnali che, forse, io non avevo recepito, oppure che, invece, in una ipotesi maggiormente attendibile, nessuno di loro in tanti anni si era mai proposto di far balenare davanti alla mia mente. Neppure sotto una qualsiasi forma allegorica o mediante l’ambigua divinazione di un improbabile oracolo.

La gente che mi era stata vicina, spesso amica, a volte finanche unita da un vincolo d’intimità, e che sapeva, la gente delle mie terre, delle mie case, dei miei rifugi, non aveva, fino ad allora, illuminata un’ombra sufficiente affinché potessi impossessarmi delle vicende essenziali alla comprensione di questa parte della mia storia personale!

Ignazio era stato davvero tutto nella vita: un gran colpo di sfida perenne.

Non mi svelò alcun particolare somatico o caratteriale della sua madre adottiva, neppure durante il sofferto ricordo del segreto che lei gli aveva voluto rivelare, mentre oramai le sfuggiva la vita, dicendogli «Tuo fratello è Bruno Mancini.» Poco dopo, serenamente, finì.
Sono il fratello, ma per lui non cambiò nulla.
Non ne ero a conoscenza, e per me fu ancora come prima.
Tutto uguale per noi.

Veniamo al dunque.
La sua confessione ebbe termine alle cinque e trentotto.
ra suonata la sveglia dell’inquilino, di professione muratore, che alloggiava nei locali adiacenti alla parete del mio angolo di complicate meditazioni.
Era male tarata, può darsi volontariamente, altrimenti perché avrebbe strimpellato alle cinque e trentotto?
Cinque e trenta va bene.
Cinque e trentotto non va bene.
Non collima.
Non si spiega.
Siamo tutti formalisti.
Lui disse «Sono qui perché mi hanno convocato.
Aiutami.
Voglio il tuo aiuto.»

-«Che incredibile coincidenza! Quando?»

-«Fra poco, alle venti.»

Quanto tempo occorre per arrostire una catasta di funghi campagnoli d’origine dubbia, e mangiarli tra fette di pane pugliese e litri di birra popolare?
Quanto tempo ci vuole per fare uscire dallo scroto i coglioni distrutti e sbatterli nel ventre della puttanaccia internazionale?
Per salutare gli amici?
Mortificare i nemici?
Stringere al petto la donna amata?
Bere, bere, bere, scrivere, scrivere?
Guardare le stelle?

Troppo.

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.

A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

DILA

NUSIV

 

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IL DISPARI 20240729 DILA APS

IL DISPARI 20240729 DILA APS

IL DISPARI 20240729

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Dodicesima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Lo sfoglio quotidiano di giornali previsto dalla mia ultima relativa professione, tra tante baggianate e scempiaggini bazzecole e pettegolezzi di rado, ma a volte, mi aveva concesso l’opportunità di aggiungere un tassello alla collezione delle teorie preferite.

Un fedele scudiero dei miei pensieri mi aveva fornito una lancia. Un’idea che avevo attinta dalla quinta pagina dell’organo di stampa nazionale utilizzato per il mio lavoro durante l’ultimo mese di agosto. Pareva forgiata apposta! Da quel concetto ero rimasto particolarmente colpito.

Per la sintesi e per il rigido schematismo, amalgamato ad un probabilismo assolutamente incontrollato, che esso avvalorava come imparziale strumento decisionale.

Un dotto estensore di cui non ricordo il nome, l’aveva espresso scrivendo (ed io avevo recepito il testo come la sfacciata seduzione di un tango argentino nello struggente abbandono di ogni illusione):

“…Ogni azione che compie ogni individuo, fisica mentale o di qualunque altro tipo, trasferita nel super elaboratore della natura, riduce, di una determinata percentuale, il carburante attivo (come nei video giochi) a svantaggio dello stato vitale complessivo.

In proporzione, ciò avviene anche per le parti, una o più di una, oppure infinite, che compongono il presente di chiunque (uomini, animali, vegetali, minerali ecc.).

Quindi il cuore, le ossa, no meglio, la sopravvivenza del cuore, delle ossa, insomma di ogni elemento, ad ogni azione che lo vede coinvolto, restituisce una porzione della vis vitale di sua pertinenza, fino al completo esaurimento.”

 

Due più due fa quattro.

Quattro più quattro fa otto.

Io volevo capire se un’analoga valutazione era alla base della nostra convocazione.

Ad ogni azione una diminuzione di carburante.

Ciò per ogni individuo identificato comparando il suo esclusivo DNA.

Il mio DNA identico a quello di Ignazio.

Perché coincideva l’anno il mese il giorno e l’ora delle nostre convocazioni?

Perché non supporre la…

Sììììì. Sììììì. è così. Sìììì è cosììììì.

-«Aurora. Auroraaaaaa… aiutami.

Rendi efficienti tutti i sistemi d’informazione, convoca i direttori dei reparti, i responsabili di zona, gli analisti, i tecnici e tutti i grandi burocrati.

FERMA IL TEMPO.

Ne resta poco.

Non può bastarmi.

Blocca i bip.

Fidati.

C’è un grosso sbaglio.» E lei:

-«Una sola volta ho deciso l’interruzione dello sviluppo naturale della evoluzione e, grazie a te, essa risultò provvidenziale.

Ripeterla, potrebbe significare per me l’angoscia di un irrimediabile errore.

è vero, anche i regni più antichi possono finire.

Sappi comunque che la mia decisione di dare credito alla tua sicurezza, ha origine dalla stima che ho per te, più che dal nostro affetto.

FERMATE IL TEMPO.

Per quindici minuti nessuno arrivi e nessuno parta.

Non ci siano bip.

FERMATE IL TEMPO.

Quindi, se non verificherete errori di funzionamento del nostro sistema… allora… allora nominerete un altro responsabile al mio posto.

I milioni d’anni della mia coscienza non accettano di deludere un amico.

A qualunque costo.

FERMATE IL TEMPO.

HO DETTO.»

 

Meno quindici:

 

Tornai sulla schermata che al mio arrivo avevo attivato, quasi meccanicamente, facendo clic sulla freccetta (non lampeggiante e non splendente) indicante “Continua”: e potei rileggere il messaggio allo scopo di controllare se ne risultava specificato il collaterale modello di attuazione: “L’efficiente tecnologia trasportata di là da nostre opportunistiche appendici…  ecc. ecc.”

Altro clic, ancora, altro clic e, proprio come avevo letto in quell’articolo nel mese di agosto, sullo schermo fu indicata la struttura operativa del progetto: “Ogni azione che compie ogni individuo, fisica mentale o di qualunque altro tipo, trasferita nel super elaboratore, riduce di una percentuale il carburante attivo (come nei video giochi) per una sua singola forma vitale; per una o più di una, od anche per tutte insieme.

Cioè il cuore, le ossa, no meglio, la sopravvivenza del cuore, delle ossa.

Insomma ogni elemento a seguito di ogni azione restituisce una parte della sua vis vitale, fino ad esaurimento ecc.”

 

Meno dodici:

-«Compariamo Il mio DNA e quello di Ignazio.»

-«Comparazione in atto.

Comparazione eseguita.»

-«Risultato?»

-«Perfettamente identici.»

Aurora si accostò alla mia spalla.

Meno dieci:

-«Confrontiamo, i diagrammi di decremento energetico relativo a tutte le mie funzioni, con gli stessi assegnati ad Ignazio.»

-«Elaborazione in atto.

Diagrammi elaborati.»

-«Risultato?»

-«Le loro funzioni sono assolutamente identiche nello spazio, nel tempo, e nella quantità.»

Aurora, mi respirava nei capelli.

Meno otto:

-«Analizziamo il diario di Aurora.»

-«Impossibile, è segreto.»

Aurora, la Donna Guascona, non permise la mia sconfitta, puntò l’indice contro il Capo Burocrate:

-«Prima, fermando il tempo, ho detto di farlo a qualunque costo.

Eseguite.

Nessun segreto potrà impedirmi di rispettare l’impegno assunto.

Nessuno.

Distruggete il sigillo.

Aprite il mio diario »

Il tesoriere dei segreti, scattò sull’attenti, ed ubbidì impartendo il comando.

Meno sei:

Una voce disse:

-«Diario in rete.

Diario aperto.»

 

Meno quattro:

-«Aurora, ricordi la volta che venni a presentarti “L’Appuntamento” tra l’uomo dal fiore di ginestra e la donna dalle mani ambrate? Che giorno era?»

Meno cinque:

-«Cercatelo. Ditemi la data.»

Meno quattro:

–«Ricerca in corso.

Ricerca ultimata.»

-«Risultato?»

-«Ventiquattro marzo mille novecento novanta due, ore diciotto. Annotazione: ospite Bruno.»

-«Aurora, vuoi chiedere se c’era anche Ignazio?»

-«Controllate.»

Meno tre:

-«Controllo in corso.

Controllo effettuato.»

-«Risultato?»

-«No, non c’era.»

Meno due:

-«è certo?»

-«Confermato. Non c’era.»

-«Aurora hai inteso?

Non c’era Ignazio insieme con noi quando accompagnai da te l’uomo dal fiore di ginestra e la donna dalle mani ambrate che sai considero la mia Anima e il mio Cervello.

Giusto?

Chi potrà spiegarmi perché nel diagramma del suo DNA viene scaricato questo incontro?

Ed anche nel mio?

O lui o io!»

Meno uno:

-«In quanti eravamo, Aurora? Ricorda e decidi, manca un attimo.»

STOP.

Tutto fermo.

Tutti fermi.

Si faccia avanti il responsabile.

SUBITO!!!»

Non furono parole, furono imperativi categorici ed io pensai: «Si salvi chi può, è l’ora del giudizio universale».

Un suono di ciaramelle accompagnò la mia anima deliziosa che ancora prima del verdetto, senza indugio, iniziò a declamare i versi, dedicati un tempo al nostro “Arrivederci”:

… … …

Ed oggi ascoltare

venerdì di piazze

domeniche di folle

 

e il resto,

tutto rifatto

scotto:

segna nuovo equilibrio

per non staccare stampe

da muri di nuovo imbiancati.

Sedersi su un albero,

presso un’onda chiara, scura,

ai piedi del viale del nostro viaggio, nella poltrona di fronte al fuoco, su un angolo del letto a luci ancora spente,

non oltre,

noto:

lasciamo ad altri

tratteggi di scie di lumache storie di applausi e di avventure scolpite … per Uno.

Ora se vuoi è l’ora di andare.

IL DISPARI 20240715

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Undicesima puntata

 

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

 

Ebbi forte la tentazione di effettuare un balzo ed abbracciarli con un simpatico effetto sorpresa.

Tutto ciò durò solo qualche attimo, poiché all’improvviso, guardando la mia figura nell’immenso specchio, ebbi un sussulto.

Un tremore generalizzato dalla testa ai piedi.

Gli occhi impietriti, le labbra sbiancate, la testa un macigno, il

respiro ansimante.

Pareva stessi morendo.

Sentivo un’eccitazione simile a quella che avevo vissuto nel Viet Nam, quando per sopravvivere uccidevo uomini donne bambini animali tutto quanto si muoveva uscendo da un fosso una palude un tronco d’albero.

Ma non ero io, Ignazio aveva combattuto nel Viet Nam!

Mi stava aggredendo l’ansia che anni addietro avevo percepita al tavolo da gioco “Rien ne va plus” in quell’ultimo colpo, o vincente o prodromo del proiettile terminale.

Ma non ero io, Ignazio era stato preda di ogni azzardo!

Ignazio.

E l’eroina schiaffata nella vena?

Lo stupro?

Il maledetto inganno?

Tra me e Ignazio si andavano via via cancellando i confini.

Non avendo mai chiuso tra noi due il collegamento “Cip-Ciop”, ero ancora in grado di vedere ciò che lui guardava e udire i suoi pensieri.

Ignazio, seduto al posto che avevo lasciato vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, ripeteva le stesse azioni che erano state compiute da me in precedenza, e in quel preciso momento stava fissando con curiosa attenzione la rappresentazione tridimensionale del suo DNA.

Incredibile!!

Assolutamente incredibile!

è perfettamente identico al mio!

… quindi… forse… devo controllare… subito… subito … di corsa…

-«Non farlo!» gli urlai mentalmente «Non farlo!

Non toccare niente.»

-«Aurora, Aurora aiutami» ripetei più volte con tutta la voce che avevo «Aiutami.»

La Donna guascona giunse in un attimo:

-«Come? In che modo? Certo. Che succede? Sono pronta.» -«Quanto manca?»

-«Trentacinque minuti.»

-«Cazzo! Devo sbrigarmi. Andiamo nella sala controllo.

Chiama il Capo Burocrate.

Petrus, prego, una birra ghiacciata super popolare.

Uomo dal fiore di ginestra, suona per me «indifferentemente». Signora dalle mani ambrate rinfrescami la nuca con il soffio del tuo ventaglio giapponese a strisce di bambù.

Fatemi sentire i cuori pulsare per amore.

Corriamo, corriamo.

Il tempo è tiranno.»

 

Anticipando le reazioni di loro tutti:

-«Il nostro DNA è totalmente uguale» urlai con la voce profonda di mio padre.

Io per natura non accetto gratuite caramelle, ma non sopporto neppure che mi svuotano il frigorifero senza consenso.

Il mio cervello matematico aveva suonato la carica…

«AVANTI…» per un soldato solitario contro un potere generale.

Io sono un essere.

Io sono napoletano.

Masaniello era napoletano.

I poteri sono dovunque.

Fece una brutta fine il Masaniello a Napoli, però!

Io sono napoletano.

Il mio cervello matematico e la mia anima poetica, da giovani se le erano date di santa ragione.

Paccari coltellate e sputazzate in faccia.

-«Voglio diventare un fisico nucleare»

-«Desisti, regaleremo emozioni»

-«Che vuoi regalare, non regalo niente»

-«Piccolo provincialotto»

-«Grande illusa», e via a scaricarsi le peggiori offese.

Tante se ne dissero e tante se ne dettero che non giunsero ad alcun accordo, ed ora mi guadagno da campare facendo il “Lettore di giornali in pubblico”.

Non esiste?

Forse non esisteva.

Esiste, esiste.

Mi sono inventato una libera professione con molta dignità e talento, seguendo un ragionamento diciamo “pragmatico”.

Perché, mi chiedevo, i giornali pagano la pubblicità per se stessi su altre forme di comunicazione ed anche su testate a volte acerrime concorrenti?

Risposta: per farsi leggere.

Perché, mi chiedevo, un quotidiano di tiratura nazionale viene distribuito gratis annesso ad un foglio di cronaca locale?

Per farsi leggere, rispondevo.

Per quale ragione, nel mio paese di origine, il notiziario di pettegolezzi comunali, unito ad uno storico giornale filo monarchico e ad un quotidiano politico nazionale affiliato alle gerarchie di un potente costruttore finanziere editore presidente politicante, perché mi chiedevo, tutti e tre insieme vengono venduti al prezzo di un solo?

Si sa bene che non bada a spese il potente costruttore finanziere editore presidente politicante proprietario del quotidiano politico nazionale, e che neppure sono in cerca di soldi i referenti politici dello storico vessillo monarchico.

Il notiziario locale di pettegolezzi comunali, li regala entrambi ed acquisisce nuovi lettori.

O.K.

Perché?

Risposta: vogliono essere letti…

Ed io mi sono proposto nella specifica mansione di “Lettore di giornali in pubblico”.

Il loro ufficio gestione rapporti col pubblico mi fissa un itinerario, con rotazione mensile, per la cui precisa attuazione i dirigenti addetti alla struttura finanziaria mi pagano viaggi trasferte pernottamenti cene pranzi e colazioni, scarpe nuove ogni mese, venti consumazioni al giorno ai tavoli dei bar più prestigiosi, due concerti a settimana, ventuno pacchetti di sigarette marca… (omissis)… a settimana (poi vi spiego perché), un nuovo accendino ed un orologio ogni cambio di stagione, e, considerato il disagio dei continui trasferimenti, l’Azienda mi concede una femmina a piacere ogni quindici giorni, un mese di ferie l’anno, ed il barbiere quotidiano.

La mia giornata lavorativa di solito inizia alle otto di mattina e termina alle sedici.

Al mattino, nella portineria della locanda albergo pensione residence villaggio in cui ho trascorso la notte, trovo un mucchio di giornali: stessa marca stavo per dire, stessa testata è invece corretto.

Li ripongo in una borsa busta contenitore carpetta, ne lascio fuori uno, mi reco ad una vicina fermata di autobus tram metro funicolare sciovia traghetto e, come se attendessi un particolare mezzo di trasporto, spiego il giornale in bella vista, con la prima pagina ed il titolo in perfetta evidenza, e fingo di leggere con interesse fingendo di aspettare.

-«Perbacco, i C.R.I.C. vogliono le elezioni…»

-«Come? Berlisco ha detto che…»

-«… sono una vera schifezza questi P.R.O.C.».

Coloro che mi sono vicini sbirciano, incamerano, si schierano.

Un attivista di avversa parte politica, nemico dichiarato dei padroni della testata e della sua impostazione socio economica, mi guarda e mi sfida.

Fine della prima tappa, anzi no, perché, ancora fingendo, in questo caso distrazione, lascio il giornale sulla spalla della pensilina, così che altri possano continuare sbadatamente ad appropriarsi delle notizie che mi pagano per far leggere.

Seconda tappa, estraggo dalla borsa un secondo giornale identico al primo, e mi avvio a ripetere la funzione verso il parco pubblico.

Terza sosta, identico cerimoniale ed uguale messa in scena, al bar salotto buono, poi alla mensa ferroviaria, al circolo del ludico paranormale, dei baffoni giganti, dei coglioni in motocicletta.

Alle ore sedici, stop.

Serata libera.

Domani, un nuovo itinerario, forse pomeridiano serale, con sosta a cinema o a teatro.

Domani un nuovo posto per guadagnare i miei trenta denari. Sì, è vero, ho dimenticato di chiarire che anche le sigarette fanno parte del patrimonio di furbizie utilizzate dal dirigente organizzatore, il quale, scegliendone la marca, merita una “cagnotta” (tangente?) (provvigione?) simpaticamente offerta da quell’azienda di tabacco, naturalmente all’insaputa dell’editore per il quale lavora.

Cose che capitano anche in televisione.

A me che importa?

Trenta denari e fingo di fumare (ho smesso da tre anni) perfino la paglia secca degli ex Canneti della mia ex Isola Verde.

Ho costruito questa lunga divagazione, per introdurre il sunto di un ampio e dotto saggio che il mio cervello matematico aveva fatto rimbalzare, con perfetto tempismo, non appena si era reso conto della incoerente identicità del mio DNA con quello di Ignazio.

 

IL DISPARI 20240722

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Decima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Le sensazioni furono di trovarmi ad Atene nella Placa piuttosto che nell’Acropoli, nella curva sud durante la celebre partita tra Napoli e Verona (sotto lo striscione “Giulietta è una zoccola”), nello sguaiato flusso di scioperanti incazzati, invece che al seguito di un rassicurante crocifisso esposto, durante religiosi festeggiamenti, in occasione dell’anniversario relativo alla resurrezione dell’uomo seminudo che ne aveva patita la sofferenza.

Mi sedetti alla prima postazione vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, confuso fra una quasi interminabile schiera di professionisti di ogni razza proiettati in complesse, ed apparentemente astruse analisi, utilizzando visualizzatori in grado di introdurli in dimensioni temporali e spaziali prive di ogni limite.

Seguendo una semplice informazione, digitai un clic che consentiva l’accesso a tutte le possibili informazioni            -scientifiche, grafiche, genetiche, storiche, ed altre ancora-, riguardanti la complessa struttura fisica, chimica e biologica, sia della totalità e sia dei particolari riferibili al mio DNA.

-«Eccolo».

Nell’ottocento, per non andare oltre e scomodare così l’archeologia del sociale, quasi nessuno sarebbe stato in grado di riconoscere fisicamente il Grande Capo di un paese limitrofo: «Chi sei?» «Sono il Re dei Canneti.» «Dimostralo.»

E che vuoi dimostrare!

Il Re dei Canneti bisognava si affidasse ad un amico comune, un messaggero di professione, un principotto viaggiatore, una rinomata donna di compagnia notturna, cinquecento fucilieri in divisa giallo – rossa (Romani Papalini), nero – azzurra (Longobardi di Moratti), gialla o verde (Padani per Bossi), celeste cielo (Brigate Maradona).

Nell’ottocento, meno di duecento anni fa, i riconoscimenti si perfezionavano attraverso conoscenze di terzi.

C’è sempre stato un poi a tutto, e il poi di questa gestione dei rapporti personali si andò evolvendo con devastante, collettiva, sistematica, indolore, subdola, lenta classificazione ed appropriazione pubblica di minime peculiarità personali.

I documenti di riconoscimento o le impronte digitali possono agevolmente servire da esempio.

Una minima oggi una minima domani una minima dopodomani, dopo duecento anni io tu lei noi voi essi colui coloro costoro chi altro non so, siamo stati infine schedati ed incatenati con il nostro DNA, non falsificabile, non ripetibile, indiscutibile.

Le foto tessere, i gruppi sanguigni, i riconoscimenti vocali, olfattivi, il neo sulla guancia destra, sono ormai strumenti di controllo relegati nelle bacheche dedicate ai nobili ante – nati.

La nuova agnizione avviene mediante il personalissimo,

affidabilissimo DNA.

Io sono un DNA.

Tu sei un altro DNA.

Ripeto “Nessun uomo è paragonabile ad una donna.

Non c’è uomo simile ad un altro uomo.

Non esistono due gravidanze uguali.

Nelle belle famiglie campagnole il gatto era gatto.

L’agnello, agnello.

Il cavallo, cavallo.”

-«Eccolo. Arriva.»

Sul visore invisibile, le immagini si materializzarono simili ad

ectoplasmi, pura luce in movimento… ma non voglio dilungarmi su queste particolari teorie teorio teoritu teorilui… l’effetto collaterale di un loro rinvio sine die, mi consente di ritornare alla rotella essenziale per liberare dalla clandestinità il ricamo filigranato che ho celato fino a questo momento.

-«Eccolo, arriva, ci siamo».

Insieme ad una catena incomprensibile di simboli numeri sigle spazi vuoti tratti trattini tratteggi tortuose concezioni, insieme alla visione tri quadri dimensionale del mio DNA, una freccetta indicante “Continua” (non lampeggiava né splendeva), riuscì, ugualmente ad incuriosire la mia ormai prossima rassegnazione.

-«Manca poco alle venti.

Manca poco.

Manca.

Però manca».

-«Ecco le birre Signor Bruno e Signor Ignazio.

La nostra Signora Vi chiede di scusarla, poiché il recente conflitto mondiale le sta procurando molto lavoro supplementare.

Accogliere tanti in così breve tempo necessita grande organizzazione e professionalità.

Posso bere con voi?

Un boccale di birra popolare?

Salute.

Hic!»

-«Petrus cosa significano tutti questi bip che sentiamo?»

-«Energie finite, terminate.

Segnali di arrivi: Un bip, una fine. Hic!

Prego, signor Bruno, spostiamoci nell’angolo bar dove ci sono due vostri amici che mi hanno pregato di potervi incontrare prima del passaggio di là.

Hic!»

Dissi: «Manca poco, è tardi.» poi aggiunsi «Chi sono?» e quasi meccanicamente feci clic sulla freccetta, non lampeggiante e non splendente, che indicava “Continua”.

Il clic aprì una finestra di presentazione della logica in ragione della quale era stato messo a punto il programma relativo agli arrivi: “… l’efficiente tecnologia elaborata ed in seguito trasportata fino a noi da opportunistiche appendici umane, decide arrivi e partenze sulla base di speciali analisi dei campioni di DNA.

Essi vengono diversificati con probabilistici fattori di rischio indicati da generalizzati rapporti statistici (ambientali ereditari assicurativi sociali asociali climatici tellurici professionali), e quindi inseriti in un unico complesso disegno di arrivi e partenze adeguato alle direttive inflazionistiche, finanziarie, multinazionali, politiche, ed ambientali che, comunque rispettoso dei diritti delle minoranze linguistiche e religiose, opera in assoluta indipendenza da gerarchie, titoli nobiliari, accademici, professionali -veri o falsi-, da corruzioni o da inganni.

Così decidendo in maniera indiscriminata ecc. …”

Per fuggire dal saccente pragmatismo di quelle astruse alchimie, accettai l’invito di Petrus, ritenendo che per me sarebbe stato più piacevole spendermi insieme ad amici, tra birre e canzoni. -«Andiamo Petrus.

Tu vieni Ignazio?»

-«Se mi è consentito, preferirei rimanere qui, dove mi sento poco coinvolto, asettico.»

-«Puoi.

Andiamo Petrus.»

è bello dopo un lungo periodo di assenza, tornare a casa, a condizione che i luoghi e le persone abbiano conservato almeno una goccia dei sentieri d’acqua che avevano infiammato, prima che partissimo, i nostri sentimenti.

Riprovare a leggere al lume della lampada verde, quasi mia coetanea, dopo violenze di neon internazionali sbattuti oltre i filtri di lenti brunite!

Lo paragono alla vincita di un bonus da utilizzare quale recupero per i giorni gettati in inutili sfide.

Il feudo abbandonato libera proprie energie ed accetta confronti, pur senza pretese di successi.

Non sempre è così.

Tornassi ora, dopo una lunga assenza, le mie Pinete (non erano mie), i miei Canneti (non erano miei), il mio Castello (non era mio), mi procurerebbero solo dolore e delusione.

Seguendo Petrus mi preparavo alla spiacevole eventualità di aprire la porta su una scena differente da quella del mio ricordo.

Con cautela, con la discrezione di chi non intendeva disturbare, mossi, lentamente, la maniglia, e spinsi.

Nulla era diverso.

Nulla.

Quasi si fosse trattato di un’antica scultura.

Il pianoforte, le luci, il lampadario, le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, le rustiche grotte dei desideri con al centro la chitarra rossa di Elvis, i trecento quasi invisibili ciondoli tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) che io, anni prima, avevo interpretato come ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.

La fantasia della fantasia.

Le più belle scelte, messe in ordine dalla più eccentrica stravaganza.

Al centro del soffitto l’antico lampadario a cinquanta bracci, di una mescola ottenuta con sabbia e petrolio, ancora troneggiava, aprendo la porta, riflesso nello stesso specchio, irregolare, ambrato.

Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale, continuava a sbalordirmi come la prima volta.

I due amici che mi stavano aspettando, due cari compagni, non si erano accorti del mio ingresso e più innamorati di mai, nella naturalezza del tenero sentimento che li univa, seguitavano a creare atmosfere musicali difficili da dimenticare.

Lui, con l’immancabile ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) al bavero, e lei con l’identico ventaglio giapponese che aveva nel giorno del loro ricongiungimento.

 

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

 

 

IL DISPARI 20240506

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Nona puntata

Parte seconda

CAPITOLO SECONDO

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.
A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?
Gas, acqua, luce, finestre, spazzatura, garage.
Ritirare i depositi dai conti bancari postali azionari, oppure effettuare una fuga in taxi per una foto in autoscatto sul ponte del Castello Aragonese, all’ombra dell’ultimo pino, tra le canne del vigneto, sulla cresta del monte Epomeo? Telefonare?
Incontrare?
Lasciare biglietti?
Spiegando, allarmando, creando apprensioni?
Troppe cose, troppe azioni, troppe persone, troppi affetti, fino alle ore venti.
Non un minuto oltre.
Ei, Ignazio, mio gemello, non immaginava il destino comune del nostro prossimo percorso.
«Aiutami» erano state le sue prime parole «Aiutami» e fu subito pronto, non chiese spiegazioni, nessuna titubanza, allorché vide le mie dita affusolate cingergli il collo, il mio corpo armonioso muovere verso l’uscita, ed udì la mia voce profonda dire «Andiamo. Non aspettiamo oltre. Ora o le venti, è uguale. Andiamo
Non chiusi la porta, spensi solo la luce.

IL DISPARI 20240506 DILA APS 

Parte terza
 
CAPITOLO PRIMO

Toc toc.
Pausa.
Toc toc toc.
Crcrrrrrrrrr
Signor Bruno!»
Ciao Petrus, come stai?»
Grazie, bene, come un vecchietto. Entrate presto, fuori è pericoloso
Pericoloso?»
Forse non lo sapete ancora, di là è scoppiata una guerra nucleare. Potrebbero arrivare delle radiazioni fin quassù.»
Non sei per nulla cambiato, mattacchione.»
Il signore è Vostro amico? Sì?
Prego entrate… Signor…?»
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro… grazie
Aurora c’è?»
Certo per Voi, Signor Bruno, c’è sempre.
Vado a chiamarla.
Intanto gradite una birra ghiacciata? La solita popolare?»
Grazie ma non ghiacciata… inizia a darmi problemini… fredda, popolare… anche per Ignazio. Vero? E tu non bevi un boccale con noi?»
Certo!
Se Vi è gradito, certo.
Vengo subito, accomodatevi, siete a casa Vostra. Sapete bene quanto Vi stimi la nostra “Signora”.
Vado e vengo. Subito.»
Non correre Petrus, non abbiamo fretta, siamo in anticipo.»
Appena Petrus si allontanò, Ignazio disse:
Siamo? Perché siamo? Io, sono convocato. Io sono.»

IL DISPARI 20240506 DILA APS

L’assegnazione dei personaggi agli interpreti è un’arte che solo l’esperienza insegna.
Il ruolo del burbero, del tirchio, del bell’Antonio, della serva, non vengono sempre carpiti con immediatezza da tutti i figuranti.
Si è bravi generici quando si è propensi all’adattabilità.
Chi soffia nel flauto ne cava le note.
Conoscevo il luogo nei dettagli.
La facciata della vecchia villa schiusa dal cancello di ferro battuto, la sala d’attesa con l’angolo bar: divani di pelle nera e pianoforte sulla pedana semi tonda.
La terrazza dalla bella vista sulle cascate sul monte e verso le foreste.
Sapevo bene che nessuno avrebbe osato fermare i miei passi.
Ero in anticipo.
Ero un amico.
Di Aurora.
La “Signora”.
Ansioso irrequieto schizzato nevrotico, mi dimenavo come un leone in gabbia durante lo spettacolo circense della vigilia di Natale.
Ero anche certo che in nessuno si sarebbe mai, neppure lontanamente, insinuato il sospetto che le mie palesi curiosità fossero, in qualche modo, substrato d’indagini negative, oppure, peggio, potessero essere di contrasto alla migliore immagine del perfetto regno diligentemente diretto dalla Donna Guascona, Aurora, la Signora.
Avevo tempo, potevo farlo, mi spinsi oltre il cartello “Uffici, Vietato Entrare”
Vieni con me e taci» così intesi rispondere al silenzio inquietato di Ignazio.
In epoche recenti, il nobile vezzo antico dell’esplorazione, è “scompisciato” in una grande collettiva scientifica analisi di percorsi (variabili, variati, allusivi) tra “supposte supposizioni”.
Per scoprire l’Antartide, il bel sistema mondo visivo attuale ne assegna la ricerca in porzioni, non superiori ad un metro quadrato, a favore di ciascuno dei milioni di prezzolati assistenti degli assistenti dei ricercatori assistiti.
I dominatori dei laboratori vincenti, chiedono ottanta zecchini, per una manciata di polveri medicamentose.
Le puttane di Venezia la davano per meno al Grande Casanova.
Altra razza altra gente.
Non avrei mai immaginato che fosse possibile rendere funzionale un centro operativo come quello presente nei locali delimitati dal cartello “Uffici ecc…”.
Dimensioni enormi.
Assolutamente unico.
Non siate tristi piccoli fiori di loto dagli enormi occhi a mandorla, artefici di tante applicazioni tecnologiche, in quanto il vostro impegno al banco di lavoro non è mai responsabile per gli utilizzi del grammo di silicio che intrappolate ed irreggimentate.
Lì, nei locali “Uffici. Vietato Entrare.”, né granelli di polvere, né minimi corpi estranei avrebbero potuto intrufolarsi più avanti degli innumerevoli sbarramenti chimici nucleari biologici.
Concepiti per rimanere immacolati, gli ambienti si aprirono, accogliendoci, immediatamente dopo che alcuni specifici addetti ebbero provveduto a sterilizzare completamente ogni parte del nostro corpo, seguendo un elaborato procedimento senza dubbio previsto dal protocollo d’accesso.
Lì dentro tutti i cablaggi si visualizzavano mediante raggi laser diversificati per bande cromatiche.
Segui me. Non parlare.
Non toccare.
Non ora
«Centro elaborazione dati DNA
Entriamo.

Non ho particolare soddisfazione nella stesura di questa sezione della storia, in quanto la didascalica semplificazione che necessita la comprensione dei cardini ad essa relativi opprime fantasiosi movimenti letterari che, da sempre, considero maggiormente piacevoli delle gabbie di coerenze stilistiche che ne limitano l’espressività.
Comunque, Aurora tardava a raggiungerci e noi frattanto consentivamo che zelanti burocrati incappucciassero le nostre teste con l’ultima novità nata nel settore delle trasmissioni audio visive.
Parlo del nobile “Cip-Ciop”, commercializzato successivamente ai vari ex (tam tam telefono telefonino radiografia ecografia radar televisore infrarosso infra tutto) che erano già invecchiati da tempo.
A detta della pubblicità intergalattica: «Cip-Ciop ti fa parlare con chi vuoi e controllare visivamente anche i neuroni.
Cip-Ciop è senza fili e senza antenne.
Il rivoluzionario apparecchio, Cip-Ciop opera mediante un rivoluzionario collegamento neurologico.
Cip-Ciop, se vuoi, non parli e la tua lei ti ascolta.
Oppure, se preferisci, tu vedi lei, la vedi, e lei non lo sa.
Cip-Cip, è in vendita nei migliori negozi spaziali.
Cip-Ciop, apre il tuo futuro ».
La nuova Venere di ambiziose conquiste digitali!
Per la verità, nei locali del regno di Aurora, esso, l’aggeggio, discendente dell’illustre “tam tam”, assolveva un compito particolare: consentire la trasmissione delle informazioni tra gli stagionati impiegati fossilizzati nelle specifiche sezioni, non creando, nel contempo, spiacevoli turbolenze verso i comunicati provenienti dall’esterno.
Insomma,  con “Cip-Ciop”, i pensieri miei si sarebbero trasferiti nel cervello di colui o coloro che avrei selezionato quale ricevente, e soltanto nel loro.
Nessun altro avrebbero potuto in alcun modo intercettarli.
Al solo scopo di non deludere l’aspettativa di aiuto richiestomi in lacrime da Ignazio, feci in modo che i silici dei nostri strumenti stabilissero, unicamente tra noi due, un permanente contatto reciproco.
Lo sviluppo di un bruco in farfalla.

Continua lunedì prossimo

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Il Dispari 20240422

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo” Ottava puntata

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

I bulbi oculari mi facevano male, forse per la scarsa luce, forse per il poco sonno, forse per le tante ore trascorse a scrivere, forse per l’età, ma certamente andava ascritta al mio disordine mentale una qualche responsabilità per aver provocato il loro roteare senza punti fissi di riferimento.

Fermò le dita affusolate di mia madre, piegò verso l’alto il corpo armonico di mia sorella, e con la voce profonda di mio padre «Io sono Ignazio» disse.

-«Ignazio?»

-«Sì Ignazio»

-«E allora? Con ciò? Che cazzo significa? Basta indovinelli. Parla o vai. Ignazio, Filippo, Marco Aurelio, Giulio Cesare che me ne fotte del tuo nome!
Parla o vai.
Bevi, fuma e vai di corsa.
Non ho mai tempo per nessuno, figuriamoci oggi.
Non ne ho abbastanza neppure per me!»

-«Io sono Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.
Tuo fratello gemello.»

Scolorire al buio.
Perdere battiti cardiaci.
Stoppare il respiro.

Chiusi gli occhi e mi chiesi se credere che i sogni si generino prima dei fatti, oppure se persuadermi che ne siano una rappresentazione.
Le fantasie germogliano da oniriche trasgressioni mai metabolizzate, oppure ne costituiscono le origini?
Prima l’uovo o la gallina?
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro: il mio passato di sfrontate personificazioni dei mali del mondo.
La droga, la guerra, l’azzardo, lo stupro, si erano, tramite lui (visto da sempre quale compendio d’ogni maleficio), materializzati nella persona del traghettatore piagnucoloso che si dichiarava mio fratello e del quale mi impressionavano alcune caratteristiche fisiche: la voce profonda di mio padre le dita affusolate di mia madre ed il corpo armonioso di mia sorella.
Nel mio passato era stato un sogno, una visione?
A raccogliere i cocci di una bottiglia era la presenza di un incubo, d’una allucinazione?
Allora, quando scrivevo di Ignazio il combattente in Viet Nam, mi sfidava una forza di coesione che non si lasciava cancellare dal tempo e dalla distanza?
Il richiamo di una energia sconosciuta?

Nella situazione che stavo vivendo per il trasferimento che mi accingevo a compiere, ero oppresso dall’ossessione di pretendere una vicinanza familiare?
Ignazio, per me, padre madre sorella?
Mi chinai nell’atto di sollevarlo, ponendo i gomiti fra tronco e braccia, e quando il suo viso, assecondando i movimenti che compivo, giunse ad un palmo dalla mia bocca «Non ho fratelli» sentenziai «Non ho mai avuto gemelli, tu sei il parto della mia fantasia, tu sei mio.
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro mi appartiene.
u mi appartieni», attesi l’attimo necessario a che deglutisse l’assoluta determinazione da cui mi sentivo invaso, e stringendo i polsi fra i pugni chiusi ai lati del suo torace, con la calma della follia «Perché sei qui?» gli chiesi.

Finalmente, sul soffitto, al centro del mio mondo, accesi il faro delle grandi occasioni.

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

CAPITOLO SECONDO

Non poter descrivere nei dettagli la serie di virulente emozioni che mi procurò il prosieguo dell’incontro con il mio gemello Ignazio, è il prezzo che voglio pagare per non derogare dalla militaresca sottomissione al principio di essenzialità nel quale ho deciso di rinchiudere l‘esposizione di questa storia.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora.
Non un minuto oltre».

E come potrei esaurire, con locuzioni brevemente tratteggiate, la descrizione del patos -posso dire a mala pena celato-, che lui mi aveva procurato definendo con frasi stringate la precisa e dolorosa ricostruzione dell’intrigata vicenda che aveva determinato la nostra separazione, nel 1943, tra guerra, fame, tradimenti?

Avevo ascoltato un Ignazio finalmente privo di reticenze.
Albeggiava.
Il gallo, i passeri, la fresca brezza che in tempi andati forse spegneva le lampade a petrolio sulle vie, il primo discreto avvicinarsi di un pullman di linea, il rombo soffuso del volo aereo Venezia Napoli, segnalavano con sufficiente precisione lo sviluppo delle ore.
Le quattro e venticinque.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora».

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Se mi sarà concesso, quantunque in un luogo differente e con altra penna, colmerò le tante lacune di questa ricostruzione, cimentandomi in una impresa narrativa che non potrà in quel caso essere ridotta ad un breve racconto.
Se sarà.

In sintesi, il suo racconto iniziò dall’età di cinque anni, nel 1948, quando io vivevo ad Ischia senza luce elettrica e senza acqua corrente.
Ignazio abitava, con la famiglia dalla quale a sua insaputa era stato adottato, in una sfarzosa tenuta spagnola assegnata, in segno di cameratismo, dal “Franco” allora dominante all’amico gerarca fascista che si era rifugiato sotto la sua protezione subito dopo la fuga del re dall’Italia.
Nel 1948 la balia gli svelò una prima parte del segreto: «Sei un bimbo adottato.»
Lui non capì e proseguì nella sua infanzia.
O non volle comprendere?
A me quell’anno non dissero niente.
Tutto, così, proseguì uguale a sempre.
Nella solita consuetudine.
Nel 1961, compivamo diciotto anni.
L’invecchiato comandante in esilio convocò il giovane Ignazio nello studio tappezzato da grossi volumi di libri mai letti, ed in quella occasione parato a festa con stendardi sfilacciati di una unica etnia svolazzanti tra tazzine da caffè rigorosamente nere, per comunicargli, adagiando rispettosamente la mano destra sulla banderuola che tra tutte figurava il riconoscimento per il maggiore atto di eroismo bellico, ufficialmente formalmente «Tu hai un fratello gemello.»

La frontiera nazionale del Montecarlo passa attraverso la struttura edilizia d’alcuni alberghi, cosicché ai privilegiati clienti è sufficiente spostarsi di una camera nello stesso ambito residenziale per godere degli effetti giuridici di un altro stato.
Simile trasferimento fece Ignazio.
Solo?
Con un fratello?
Io sono, lui è.
E tutto proseguì nella stessa identica ripetitività quotidiana.
A me nel 1961 non dissero nulla e nulla mutò.
Nessun particolare era rimasto inciso nei miei pensieri.

Mi chiesi quanti parenti ed amici avrebbero avuto la facoltà d’aiutarmi provvedendo alla discreta ricostruzione dei segnali che, forse, io non avevo recepito, oppure che, invece, in una ipotesi maggiormente attendibile, nessuno di loro in tanti anni si era mai proposto di far balenare davanti alla mia mente. Neppure sotto una qualsiasi forma allegorica o mediante l’ambigua divinazione di un improbabile oracolo.

La gente che mi era stata vicina, spesso amica, a volte finanche unita da un vincolo d’intimità, e che sapeva, la gente delle mie terre, delle mie case, dei miei rifugi, non aveva, fino ad allora, illuminata un’ombra sufficiente affinché potessi impossessarmi delle vicende essenziali alla comprensione di questa parte della mia storia personale!

Ignazio era stato davvero tutto nella vita: un gran colpo di sfida perenne.

Non mi svelò alcun particolare somatico o caratteriale della sua madre adottiva, neppure durante il sofferto ricordo del segreto che lei gli aveva voluto rivelare, mentre oramai le sfuggiva la vita, dicendogli «Tuo fratello è Bruno Mancini.» Poco dopo, serenamente, finì.
Sono il fratello, ma per lui non cambiò nulla.
Non ne ero a conoscenza, e per me fu ancora come prima.
Tutto uguale per noi.

Veniamo al dunque.
La sua confessione ebbe termine alle cinque e trentotto.
ra suonata la sveglia dell’inquilino, di professione muratore, che alloggiava nei locali adiacenti alla parete del mio angolo di complicate meditazioni.
Era male tarata, può darsi volontariamente, altrimenti perché avrebbe strimpellato alle cinque e trentotto?
Cinque e trenta va bene.
Cinque e trentotto non va bene.
Non collima.
Non si spiega.
Siamo tutti formalisti.
Lui disse «Sono qui perché mi hanno convocato.
Aiutami.
Voglio il tuo aiuto.»

-«Che incredibile coincidenza! Quando?»

-«Fra poco, alle venti.»

Quanto tempo occorre per arrostire una catasta di funghi campagnoli d’origine dubbia, e mangiarli tra fette di pane pugliese e litri di birra popolare?
Quanto tempo ci vuole per fare uscire dallo scroto i coglioni distrutti e sbatterli nel ventre della puttanaccia internazionale?
Per salutare gli amici?
Mortificare i nemici?
Stringere al petto la donna amata?
Bere, bere, bere, scrivere, scrivere?
Guardare le stelle?

Troppo.

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.

A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

DILA

NUSIV

 

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IL DISPARI 20240715 DILA APS

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IL DISPARI 20240715

IL DISPARI 20240715 DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Undicesima puntata

 Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

Ebbi forte la tentazione di effettuare un balzo ed abbracciarli con un simpatico effetto sorpresa.

Tutto ciò durò solo qualche attimo, poiché all’improvviso, guardando la mia figura nell’immenso specchio, ebbi un sussulto.

Un tremore generalizzato dalla testa ai piedi.

Gli occhi impietriti, le labbra sbiancate, la testa un macigno, il

respiro ansimante.

Pareva stessi morendo.

Sentivo un’eccitazione simile a quella che avevo vissuto nel Viet Nam, quando per sopravvivere uccidevo uomini donne bambini animali tutto quanto si muoveva uscendo da un fosso una palude un tronco d’albero.

Ma non ero io, Ignazio aveva combattuto nel Viet Nam!

Mi stava aggredendo l’ansia che anni addietro avevo percepita al tavolo da gioco “Rien ne va plus” in quell’ultimo colpo, o vincente o prodromo del proiettile terminale.

Ma non ero io, Ignazio era stato preda di ogni azzardo!

Ignazio.

E l’eroina schiaffata nella vena?

Lo stupro?

Il maledetto inganno?

Tra me e Ignazio si andavano via via cancellando i confini.

Non avendo mai chiuso tra noi due il collegamento “Cip-Ciop”, ero ancora in grado di vedere ciò che lui guardava e udire i suoi pensieri.

Ignazio, seduto al posto che avevo lasciato vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, ripeteva le stesse azioni che erano state compiute da me in precedenza, e in quel preciso momento stava fissando con curiosa attenzione la rappresentazione tridimensionale del suo DNA.

Incredibile!!

Assolutamente incredibile!

è perfettamente identico al mio!

… quindi… forse… devo controllare… subito… subito … di corsa…

-«Non farlo!» gli urlai mentalmente «Non farlo!

Non toccare niente.»

-«Aurora, Aurora aiutami» ripetei più volte con tutta la voce che avevo «Aiutami.»

IL DISPARI 20240715 DILA APS

La Donna guascona giunse in un attimo:

-«Come? In che modo? Certo. Che succede? Sono pronta.» -«Quanto manca?»

-«Trentacinque minuti.»

-«Cazzo! Devo sbrigarmi. Andiamo nella sala controllo.

Chiama il Capo Burocrate.

Petrus, prego, una birra ghiacciata super popolare.

Uomo dal fiore di ginestra, suona per me «indifferentemente». Signora dalle mani ambrate rinfrescami la nuca con il soffio del tuo ventaglio giapponese a strisce di bambù.

Fatemi sentire i cuori pulsare per amore.

Corriamo, corriamo.

Il tempo è tiranno.»

 

Anticipando le reazioni di loro tutti:

-«Il nostro DNA è totalmente uguale» urlai con la voce profonda di mio padre.

Io per natura non accetto gratuite caramelle, ma non sopporto neppure che mi svuotano il frigorifero senza consenso.

Il mio cervello matematico aveva suonato la carica…

«AVANTI…» per un soldato solitario contro un potere generale.

Io sono un essere.

Io sono napoletano.

Masaniello era napoletano.

I poteri sono dovunque.

Fece una brutta fine il Masaniello a Napoli, però!

Io sono napoletano.

Il mio cervello matematico e la mia anima poetica, da giovani se le erano date di santa ragione.

Paccari coltellate e sputazzate in faccia.

-«Voglio diventare un fisico nucleare»

-«Desisti, regaleremo emozioni»

-«Che vuoi regalare, non regalo niente»

-«Piccolo provincialotto»

-«Grande illusa», e via a scaricarsi le peggiori offese.

IL DISPARI 20240715 DILA APS

Tante se ne dissero e tante se ne dettero che non giunsero ad alcun accordo, ed ora mi guadagno da campare facendo il “Lettore di giornali in pubblico”.

Non esiste?

Forse non esisteva.

Esiste, esiste.

Mi sono inventato una libera professione con molta dignità e talento, seguendo un ragionamento diciamo “pragmatico”.

Perché, mi chiedevo, i giornali pagano la pubblicità per se stessi su altre forme di comunicazione ed anche su testate a volte acerrime concorrenti?

Risposta: per farsi leggere.

Perché, mi chiedevo, un quotidiano di tiratura nazionale viene distribuito gratis annesso ad un foglio di cronaca locale?

Per farsi leggere, rispondevo.

Per quale ragione, nel mio paese di origine, il notiziario di pettegolezzi comunali, unito ad uno storico giornale filo monarchico e ad un quotidiano politico nazionale affiliato alle gerarchie di un potente costruttore finanziere editore presidente politicante, perché mi chiedevo, tutti e tre insieme vengono venduti al prezzo di un solo?

Si sa bene che non bada a spese il potente costruttore finanziere editore presidente politicante proprietario del quotidiano politico nazionale, e che neppure sono in cerca di soldi i referenti politici dello storico vessillo monarchico.

Il notiziario locale di pettegolezzi comunali, li regala entrambi ed acquisisce nuovi lettori.

O.K.

Perché?

Risposta: vogliono essere letti…

Ed io mi sono proposto nella specifica mansione di “Lettore di giornali in pubblico”.

Il loro ufficio gestione rapporti col pubblico mi fissa un itinerario, con rotazione mensile, per la cui precisa attuazione i dirigenti addetti alla struttura finanziaria mi pagano viaggi trasferte pernottamenti cene pranzi e colazioni, scarpe nuove ogni mese, venti consumazioni al giorno ai tavoli dei bar più prestigiosi, due concerti a settimana, ventuno pacchetti di sigarette marca… (omissis)… a settimana (poi vi spiego perché), un nuovo accendino ed un orologio ogni cambio di stagione, e, considerato il disagio dei continui trasferimenti, l’Azienda mi concede una femmina a piacere ogni quindici giorni, un mese di ferie l’anno, ed il barbiere quotidiano.

La mia giornata lavorativa di solito inizia alle otto di mattina e termina alle sedici.

Al mattino, nella portineria della locanda albergo pensione residence villaggio in cui ho trascorso la notte, trovo un mucchio di giornali: stessa marca stavo per dire, stessa testata è invece corretto.

Li ripongo in una borsa busta contenitore carpetta, ne lascio fuori uno, mi reco ad una vicina fermata di autobus tram metro funicolare sciovia traghetto e, come se attendessi un particolare mezzo di trasporto, spiego il giornale in bella vista, con la prima pagina ed il titolo in perfetta evidenza, e fingo di leggere con interesse fingendo di aspettare.

-«Perbacco, i C.R.I.C. vogliono le elezioni…»

-«Come? Berlisco ha detto che…»

-«… sono una vera schifezza questi P.R.O.C.».

Coloro che mi sono vicini sbirciano, incamerano, si schierano.

Un attivista di avversa parte politica, nemico dichiarato dei padroni della testata e della sua impostazione socio economica, mi guarda e mi sfida.

Fine della prima tappa, anzi no, perché, ancora fingendo, in questo caso distrazione, lascio il giornale sulla spalla della pensilina, così che altri possano continuare sbadatamente ad appropriarsi delle notizie che mi pagano per far leggere.

Seconda tappa, estraggo dalla borsa un secondo giornale identico al primo, e mi avvio a ripetere la funzione verso il parco pubblico.

Terza sosta, identico cerimoniale ed uguale messa in scena, al bar salotto buono, poi alla mensa ferroviaria, al circolo del ludico paranormale, dei baffoni giganti, dei coglioni in motocicletta.

Alle ore sedici, stop.

Serata libera.

Domani, un nuovo itinerario, forse pomeridiano serale, con sosta a cinema o a teatro.

Domani un nuovo posto per guadagnare i miei trenta denari. Sì, è vero, ho dimenticato di chiarire che anche le sigarette fanno parte del patrimonio di furbizie utilizzate dal dirigente organizzatore, il quale, scegliendone la marca, merita una “cagnotta” (tangente?) (provvigione?) simpaticamente offerta da quell’azienda di tabacco, naturalmente all’insaputa dell’editore per il quale lavora.

Cose che capitano anche in televisione.

A me che importa?

Trenta denari e fingo di fumare (ho smesso da tre anni) perfino la paglia secca degli ex Canneti della mia ex Isola Verde.

Ho costruito questa lunga divagazione, per introdurre il sunto di un ampio e dotto saggio che il mio cervello matematico aveva fatto rimbalzare, con perfetto tempismo, non appena si era reso conto della incoerente identicità del mio DNA con quello di Ignazio.

IL DISPARI 20240715 DILA APS

IL DISPARI 20240722

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Decima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Le sensazioni furono di trovarmi ad Atene nella Placa piuttosto che nell’Acropoli, nella curva sud durante la celebre partita tra Napoli e Verona (sotto lo striscione “Giulietta è una zoccola”), nello sguaiato flusso di scioperanti incazzati, invece che al seguito di un rassicurante crocifisso esposto, durante religiosi festeggiamenti, in occasione dell’anniversario relativo alla resurrezione dell’uomo seminudo che ne aveva patita la sofferenza.

Mi sedetti alla prima postazione vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, confuso fra una quasi interminabile schiera di professionisti di ogni razza proiettati in complesse, ed apparentemente astruse analisi, utilizzando visualizzatori in grado di introdurli in dimensioni temporali e spaziali prive di ogni limite.

Seguendo una semplice informazione, digitai un clic che consentiva l’accesso a tutte le possibili informazioni            -scientifiche, grafiche, genetiche, storiche, ed altre ancora-, riguardanti la complessa struttura fisica, chimica e biologica, sia della totalità e sia dei particolari riferibili al mio DNA.

-«Eccolo».

Nell’ottocento, per non andare oltre e scomodare così l’archeologia del sociale, quasi nessuno sarebbe stato in grado di riconoscere fisicamente il Grande Capo di un paese limitrofo: «Chi sei?» «Sono il Re dei Canneti.» «Dimostralo.»

E che vuoi dimostrare!

Il Re dei Canneti bisognava si affidasse ad un amico comune, un messaggero di professione, un principotto viaggiatore, una rinomata donna di compagnia notturna, cinquecento fucilieri in divisa giallo – rossa (Romani Papalini), nero – azzurra (Longobardi di Moratti), gialla o verde (Padani per Bossi), celeste cielo (Brigate Maradona).

Nell’ottocento, meno di duecento anni fa, i riconoscimenti si perfezionavano attraverso conoscenze di terzi.

C’è sempre stato un poi a tutto, e il poi di questa gestione dei rapporti personali si andò evolvendo con devastante, collettiva, sistematica, indolore, subdola, lenta classificazione ed appropriazione pubblica di minime peculiarità personali.

I documenti di riconoscimento o le impronte digitali possono agevolmente servire da esempio.

Una minima oggi una minima domani una minima dopodomani, dopo duecento anni io tu lei noi voi essi colui coloro costoro chi altro non so, siamo stati infine schedati ed incatenati con il nostro DNA, non falsificabile, non ripetibile, indiscutibile.

Le foto tessere, i gruppi sanguigni, i riconoscimenti vocali, olfattivi, il neo sulla guancia destra, sono ormai strumenti di controllo relegati nelle bacheche dedicate ai nobili ante – nati.

La nuova agnizione avviene mediante il personalissimo,

affidabilissimo DNA.

Io sono un DNA.

Tu sei un altro DNA.

Ripeto “Nessun uomo è paragonabile ad una donna.

Non c’è uomo simile ad un altro uomo.

Non esistono due gravidanze uguali.

Nelle belle famiglie campagnole il gatto era gatto.

L’agnello, agnello.

Il cavallo, cavallo.”

-«Eccolo. Arriva.»

Sul visore invisibile, le immagini si materializzarono simili ad

ectoplasmi, pura luce in movimento… ma non voglio dilungarmi su queste particolari teorie teorio teoritu teorilui… l’effetto collaterale di un loro rinvio sine die, mi consente di ritornare alla rotella essenziale per liberare dalla clandestinità il ricamo filigranato che ho celato fino a questo momento.

-«Eccolo, arriva, ci siamo».

Insieme ad una catena incomprensibile di simboli numeri sigle spazi vuoti tratti trattini tratteggi tortuose concezioni, insieme alla visione tri quadri dimensionale del mio DNA, una freccetta indicante “Continua” (non lampeggiava né splendeva), riuscì, ugualmente ad incuriosire la mia ormai prossima rassegnazione.

-«Manca poco alle venti.

Manca poco.

Manca.

Però manca».

-«Ecco le birre Signor Bruno e Signor Ignazio.

La nostra Signora Vi chiede di scusarla, poiché il recente conflitto mondiale le sta procurando molto lavoro supplementare.

Accogliere tanti in così breve tempo necessita grande organizzazione e professionalità.

Posso bere con voi?

Un boccale di birra popolare?

Salute.

Hic!»

-«Petrus cosa significano tutti questi bip che sentiamo?»

-«Energie finite, terminate.

Segnali di arrivi: Un bip, una fine. Hic!

Prego, signor Bruno, spostiamoci nell’angolo bar dove ci sono due vostri amici che mi hanno pregato di potervi incontrare prima del passaggio di là.

Hic!»

Dissi: «Manca poco, è tardi.» poi aggiunsi «Chi sono?» e quasi meccanicamente feci clic sulla freccetta, non lampeggiante e non splendente, che indicava “Continua”.

Il clic aprì una finestra di presentazione della logica in ragione della quale era stato messo a punto il programma relativo agli arrivi: “… l’efficiente tecnologia elaborata ed in seguito trasportata fino a noi da opportunistiche appendici umane, decide arrivi e partenze sulla base di speciali analisi dei campioni di DNA.

Essi vengono diversificati con probabilistici fattori di rischio indicati da generalizzati rapporti statistici (ambientali ereditari assicurativi sociali asociali climatici tellurici professionali), e quindi inseriti in un unico complesso disegno di arrivi e partenze adeguato alle direttive inflazionistiche, finanziarie, multinazionali, politiche, ed ambientali che, comunque rispettoso dei diritti delle minoranze linguistiche e religiose, opera in assoluta indipendenza da gerarchie, titoli nobiliari, accademici, professionali -veri o falsi-, da corruzioni o da inganni.

Così decidendo in maniera indiscriminata ecc. …”

Per fuggire dal saccente pragmatismo di quelle astruse alchimie, accettai l’invito di Petrus, ritenendo che per me sarebbe stato più piacevole spendermi insieme ad amici, tra birre e canzoni. -«Andiamo Petrus.

Tu vieni Ignazio?»

-«Se mi è consentito, preferirei rimanere qui, dove mi sento poco coinvolto, asettico.»

-«Puoi.

Andiamo Petrus.»

è bello dopo un lungo periodo di assenza, tornare a casa, a condizione che i luoghi e le persone abbiano conservato almeno una goccia dei sentieri d’acqua che avevano infiammato, prima che partissimo, i nostri sentimenti.

Riprovare a leggere al lume della lampada verde, quasi mia coetanea, dopo violenze di neon internazionali sbattuti oltre i filtri di lenti brunite!

Lo paragono alla vincita di un bonus da utilizzare quale recupero per i giorni gettati in inutili sfide.

Il feudo abbandonato libera proprie energie ed accetta confronti, pur senza pretese di successi.

Non sempre è così.

Tornassi ora, dopo una lunga assenza, le mie Pinete (non erano mie), i miei Canneti (non erano miei), il mio Castello (non era mio), mi procurerebbero solo dolore e delusione.

Seguendo Petrus mi preparavo alla spiacevole eventualità di aprire la porta su una scena differente da quella del mio ricordo.

Con cautela, con la discrezione di chi non intendeva disturbare, mossi, lentamente, la maniglia, e spinsi.

Nulla era diverso.

Nulla.

Quasi si fosse trattato di un’antica scultura.

Il pianoforte, le luci, il lampadario, le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, le rustiche grotte dei desideri con al centro la chitarra rossa di Elvis, i trecento quasi invisibili ciondoli tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) che io, anni prima, avevo interpretato come ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.

La fantasia della fantasia.

Le più belle scelte, messe in ordine dalla più eccentrica stravaganza.

Al centro del soffitto l’antico lampadario a cinquanta bracci, di una mescola ottenuta con sabbia e petrolio, ancora troneggiava, aprendo la porta, riflesso nello stesso specchio, irregolare, ambrato.

Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale, continuava a sbalordirmi come la prima volta.

I due amici che mi stavano aspettando, due cari compagni, non si erano accorti del mio ingresso e più innamorati di mai, nella naturalezza del tenero sentimento che li univa, seguitavano a creare atmosfere musicali difficili da dimenticare.

Lui, con l’immancabile ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) al bavero, e lei con l’identico ventaglio giapponese che aveva nel giorno del loro ricongiungimento.

 

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

 

 

IL DISPARI 20240506

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Nona puntata

Parte seconda

CAPITOLO SECONDO

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.
A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?
Gas, acqua, luce, finestre, spazzatura, garage.
Ritirare i depositi dai conti bancari postali azionari, oppure effettuare una fuga in taxi per una foto in autoscatto sul ponte del Castello Aragonese, all’ombra dell’ultimo pino, tra le canne del vigneto, sulla cresta del monte Epomeo? Telefonare?
Incontrare?
Lasciare biglietti?
Spiegando, allarmando, creando apprensioni?
Troppe cose, troppe azioni, troppe persone, troppi affetti, fino alle ore venti.
Non un minuto oltre.
Ei, Ignazio, mio gemello, non immaginava il destino comune del nostro prossimo percorso.
«Aiutami» erano state le sue prime parole «Aiutami» e fu subito pronto, non chiese spiegazioni, nessuna titubanza, allorché vide le mie dita affusolate cingergli il collo, il mio corpo armonioso muovere verso l’uscita, ed udì la mia voce profonda dire «Andiamo. Non aspettiamo oltre. Ora o le venti, è uguale. Andiamo
Non chiusi la porta, spensi solo la luce.

IL DISPARI 20240506 DILA APS 

Parte terza
 
CAPITOLO PRIMO

Toc toc.
Pausa.
Toc toc toc.
Crcrrrrrrrrr
Signor Bruno!»
Ciao Petrus, come stai?»
Grazie, bene, come un vecchietto. Entrate presto, fuori è pericoloso
Pericoloso?»
Forse non lo sapete ancora, di là è scoppiata una guerra nucleare. Potrebbero arrivare delle radiazioni fin quassù.»
Non sei per nulla cambiato, mattacchione.»
Il signore è Vostro amico? Sì?
Prego entrate… Signor…?»
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro… grazie
Aurora c’è?»
Certo per Voi, Signor Bruno, c’è sempre.
Vado a chiamarla.
Intanto gradite una birra ghiacciata? La solita popolare?»
Grazie ma non ghiacciata… inizia a darmi problemini… fredda, popolare… anche per Ignazio. Vero? E tu non bevi un boccale con noi?»
Certo!
Se Vi è gradito, certo.
Vengo subito, accomodatevi, siete a casa Vostra. Sapete bene quanto Vi stimi la nostra “Signora”.
Vado e vengo. Subito.»
Non correre Petrus, non abbiamo fretta, siamo in anticipo.»
Appena Petrus si allontanò, Ignazio disse:
Siamo? Perché siamo? Io, sono convocato. Io sono.»

IL DISPARI 20240506 DILA APS

L’assegnazione dei personaggi agli interpreti è un’arte che solo l’esperienza insegna.
Il ruolo del burbero, del tirchio, del bell’Antonio, della serva, non vengono sempre carpiti con immediatezza da tutti i figuranti.
Si è bravi generici quando si è propensi all’adattabilità.
Chi soffia nel flauto ne cava le note.
Conoscevo il luogo nei dettagli.
La facciata della vecchia villa schiusa dal cancello di ferro battuto, la sala d’attesa con l’angolo bar: divani di pelle nera e pianoforte sulla pedana semi tonda.
La terrazza dalla bella vista sulle cascate sul monte e verso le foreste.
Sapevo bene che nessuno avrebbe osato fermare i miei passi.
Ero in anticipo.
Ero un amico.
Di Aurora.
La “Signora”.
Ansioso irrequieto schizzato nevrotico, mi dimenavo come un leone in gabbia durante lo spettacolo circense della vigilia di Natale.
Ero anche certo che in nessuno si sarebbe mai, neppure lontanamente, insinuato il sospetto che le mie palesi curiosità fossero, in qualche modo, substrato d’indagini negative, oppure, peggio, potessero essere di contrasto alla migliore immagine del perfetto regno diligentemente diretto dalla Donna Guascona, Aurora, la Signora.
Avevo tempo, potevo farlo, mi spinsi oltre il cartello “Uffici, Vietato Entrare”
Vieni con me e taci» così intesi rispondere al silenzio inquietato di Ignazio.
In epoche recenti, il nobile vezzo antico dell’esplorazione, è “scompisciato” in una grande collettiva scientifica analisi di percorsi (variabili, variati, allusivi) tra “supposte supposizioni”.
Per scoprire l’Antartide, il bel sistema mondo visivo attuale ne assegna la ricerca in porzioni, non superiori ad un metro quadrato, a favore di ciascuno dei milioni di prezzolati assistenti degli assistenti dei ricercatori assistiti.
I dominatori dei laboratori vincenti, chiedono ottanta zecchini, per una manciata di polveri medicamentose.
Le puttane di Venezia la davano per meno al Grande Casanova.
Altra razza altra gente.
Non avrei mai immaginato che fosse possibile rendere funzionale un centro operativo come quello presente nei locali delimitati dal cartello “Uffici ecc…”.
Dimensioni enormi.
Assolutamente unico.
Non siate tristi piccoli fiori di loto dagli enormi occhi a mandorla, artefici di tante applicazioni tecnologiche, in quanto il vostro impegno al banco di lavoro non è mai responsabile per gli utilizzi del grammo di silicio che intrappolate ed irreggimentate.
Lì, nei locali “Uffici. Vietato Entrare.”, né granelli di polvere, né minimi corpi estranei avrebbero potuto intrufolarsi più avanti degli innumerevoli sbarramenti chimici nucleari biologici.
Concepiti per rimanere immacolati, gli ambienti si aprirono, accogliendoci, immediatamente dopo che alcuni specifici addetti ebbero provveduto a sterilizzare completamente ogni parte del nostro corpo, seguendo un elaborato procedimento senza dubbio previsto dal protocollo d’accesso.
Lì dentro tutti i cablaggi si visualizzavano mediante raggi laser diversificati per bande cromatiche.
Segui me. Non parlare.
Non toccare.
Non ora
«Centro elaborazione dati DNA
Entriamo.

Non ho particolare soddisfazione nella stesura di questa sezione della storia, in quanto la didascalica semplificazione che necessita la comprensione dei cardini ad essa relativi opprime fantasiosi movimenti letterari che, da sempre, considero maggiormente piacevoli delle gabbie di coerenze stilistiche che ne limitano l’espressività.
Comunque, Aurora tardava a raggiungerci e noi frattanto consentivamo che zelanti burocrati incappucciassero le nostre teste con l’ultima novità nata nel settore delle trasmissioni audio visive.
Parlo del nobile “Cip-Ciop”, commercializzato successivamente ai vari ex (tam tam telefono telefonino radiografia ecografia radar televisore infrarosso infra tutto) che erano già invecchiati da tempo.
A detta della pubblicità intergalattica: «Cip-Ciop ti fa parlare con chi vuoi e controllare visivamente anche i neuroni.
Cip-Ciop è senza fili e senza antenne.
Il rivoluzionario apparecchio, Cip-Ciop opera mediante un rivoluzionario collegamento neurologico.
Cip-Ciop, se vuoi, non parli e la tua lei ti ascolta.
Oppure, se preferisci, tu vedi lei, la vedi, e lei non lo sa.
Cip-Cip, è in vendita nei migliori negozi spaziali.
Cip-Ciop, apre il tuo futuro ».
La nuova Venere di ambiziose conquiste digitali!
Per la verità, nei locali del regno di Aurora, esso, l’aggeggio, discendente dell’illustre “tam tam”, assolveva un compito particolare: consentire la trasmissione delle informazioni tra gli stagionati impiegati fossilizzati nelle specifiche sezioni, non creando, nel contempo, spiacevoli turbolenze verso i comunicati provenienti dall’esterno.
Insomma,  con “Cip-Ciop”, i pensieri miei si sarebbero trasferiti nel cervello di colui o coloro che avrei selezionato quale ricevente, e soltanto nel loro.
Nessun altro avrebbero potuto in alcun modo intercettarli.
Al solo scopo di non deludere l’aspettativa di aiuto richiestomi in lacrime da Ignazio, feci in modo che i silici dei nostri strumenti stabilissero, unicamente tra noi due, un permanente contatto reciproco.
Lo sviluppo di un bruco in farfalla.

Continua lunedì prossimo

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Il Dispari 20240422

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo” Ottava puntata

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

I bulbi oculari mi facevano male, forse per la scarsa luce, forse per il poco sonno, forse per le tante ore trascorse a scrivere, forse per l’età, ma certamente andava ascritta al mio disordine mentale una qualche responsabilità per aver provocato il loro roteare senza punti fissi di riferimento.

Fermò le dita affusolate di mia madre, piegò verso l’alto il corpo armonico di mia sorella, e con la voce profonda di mio padre «Io sono Ignazio» disse.

-«Ignazio?»

-«Sì Ignazio»

-«E allora? Con ciò? Che cazzo significa? Basta indovinelli. Parla o vai. Ignazio, Filippo, Marco Aurelio, Giulio Cesare che me ne fotte del tuo nome!
Parla o vai.
Bevi, fuma e vai di corsa.
Non ho mai tempo per nessuno, figuriamoci oggi.
Non ne ho abbastanza neppure per me!»

-«Io sono Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.
Tuo fratello gemello.»

Scolorire al buio.
Perdere battiti cardiaci.
Stoppare il respiro.

Chiusi gli occhi e mi chiesi se credere che i sogni si generino prima dei fatti, oppure se persuadermi che ne siano una rappresentazione.
Le fantasie germogliano da oniriche trasgressioni mai metabolizzate, oppure ne costituiscono le origini?
Prima l’uovo o la gallina?
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro: il mio passato di sfrontate personificazioni dei mali del mondo.
La droga, la guerra, l’azzardo, lo stupro, si erano, tramite lui (visto da sempre quale compendio d’ogni maleficio), materializzati nella persona del traghettatore piagnucoloso che si dichiarava mio fratello e del quale mi impressionavano alcune caratteristiche fisiche: la voce profonda di mio padre le dita affusolate di mia madre ed il corpo armonioso di mia sorella.
Nel mio passato era stato un sogno, una visione?
A raccogliere i cocci di una bottiglia era la presenza di un incubo, d’una allucinazione?
Allora, quando scrivevo di Ignazio il combattente in Viet Nam, mi sfidava una forza di coesione che non si lasciava cancellare dal tempo e dalla distanza?
Il richiamo di una energia sconosciuta?

Nella situazione che stavo vivendo per il trasferimento che mi accingevo a compiere, ero oppresso dall’ossessione di pretendere una vicinanza familiare?
Ignazio, per me, padre madre sorella?
Mi chinai nell’atto di sollevarlo, ponendo i gomiti fra tronco e braccia, e quando il suo viso, assecondando i movimenti che compivo, giunse ad un palmo dalla mia bocca «Non ho fratelli» sentenziai «Non ho mai avuto gemelli, tu sei il parto della mia fantasia, tu sei mio.
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro mi appartiene.
u mi appartieni», attesi l’attimo necessario a che deglutisse l’assoluta determinazione da cui mi sentivo invaso, e stringendo i polsi fra i pugni chiusi ai lati del suo torace, con la calma della follia «Perché sei qui?» gli chiesi.

Finalmente, sul soffitto, al centro del mio mondo, accesi il faro delle grandi occasioni.

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

CAPITOLO SECONDO

Non poter descrivere nei dettagli la serie di virulente emozioni che mi procurò il prosieguo dell’incontro con il mio gemello Ignazio, è il prezzo che voglio pagare per non derogare dalla militaresca sottomissione al principio di essenzialità nel quale ho deciso di rinchiudere l‘esposizione di questa storia.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora.
Non un minuto oltre».

E come potrei esaurire, con locuzioni brevemente tratteggiate, la descrizione del patos -posso dire a mala pena celato-, che lui mi aveva procurato definendo con frasi stringate la precisa e dolorosa ricostruzione dell’intrigata vicenda che aveva determinato la nostra separazione, nel 1943, tra guerra, fame, tradimenti?

Avevo ascoltato un Ignazio finalmente privo di reticenze.
Albeggiava.
Il gallo, i passeri, la fresca brezza che in tempi andati forse spegneva le lampade a petrolio sulle vie, il primo discreto avvicinarsi di un pullman di linea, il rombo soffuso del volo aereo Venezia Napoli, segnalavano con sufficiente precisione lo sviluppo delle ore.
Le quattro e venticinque.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora».

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Se mi sarà concesso, quantunque in un luogo differente e con altra penna, colmerò le tante lacune di questa ricostruzione, cimentandomi in una impresa narrativa che non potrà in quel caso essere ridotta ad un breve racconto.
Se sarà.

In sintesi, il suo racconto iniziò dall’età di cinque anni, nel 1948, quando io vivevo ad Ischia senza luce elettrica e senza acqua corrente.
Ignazio abitava, con la famiglia dalla quale a sua insaputa era stato adottato, in una sfarzosa tenuta spagnola assegnata, in segno di cameratismo, dal “Franco” allora dominante all’amico gerarca fascista che si era rifugiato sotto la sua protezione subito dopo la fuga del re dall’Italia.
Nel 1948 la balia gli svelò una prima parte del segreto: «Sei un bimbo adottato.»
Lui non capì e proseguì nella sua infanzia.
O non volle comprendere?
A me quell’anno non dissero niente.
Tutto, così, proseguì uguale a sempre.
Nella solita consuetudine.
Nel 1961, compivamo diciotto anni.
L’invecchiato comandante in esilio convocò il giovane Ignazio nello studio tappezzato da grossi volumi di libri mai letti, ed in quella occasione parato a festa con stendardi sfilacciati di una unica etnia svolazzanti tra tazzine da caffè rigorosamente nere, per comunicargli, adagiando rispettosamente la mano destra sulla banderuola che tra tutte figurava il riconoscimento per il maggiore atto di eroismo bellico, ufficialmente formalmente «Tu hai un fratello gemello.»

La frontiera nazionale del Montecarlo passa attraverso la struttura edilizia d’alcuni alberghi, cosicché ai privilegiati clienti è sufficiente spostarsi di una camera nello stesso ambito residenziale per godere degli effetti giuridici di un altro stato.
Simile trasferimento fece Ignazio.
Solo?
Con un fratello?
Io sono, lui è.
E tutto proseguì nella stessa identica ripetitività quotidiana.
A me nel 1961 non dissero nulla e nulla mutò.
Nessun particolare era rimasto inciso nei miei pensieri.

Mi chiesi quanti parenti ed amici avrebbero avuto la facoltà d’aiutarmi provvedendo alla discreta ricostruzione dei segnali che, forse, io non avevo recepito, oppure che, invece, in una ipotesi maggiormente attendibile, nessuno di loro in tanti anni si era mai proposto di far balenare davanti alla mia mente. Neppure sotto una qualsiasi forma allegorica o mediante l’ambigua divinazione di un improbabile oracolo.

La gente che mi era stata vicina, spesso amica, a volte finanche unita da un vincolo d’intimità, e che sapeva, la gente delle mie terre, delle mie case, dei miei rifugi, non aveva, fino ad allora, illuminata un’ombra sufficiente affinché potessi impossessarmi delle vicende essenziali alla comprensione di questa parte della mia storia personale!

Ignazio era stato davvero tutto nella vita: un gran colpo di sfida perenne.

Non mi svelò alcun particolare somatico o caratteriale della sua madre adottiva, neppure durante il sofferto ricordo del segreto che lei gli aveva voluto rivelare, mentre oramai le sfuggiva la vita, dicendogli «Tuo fratello è Bruno Mancini.» Poco dopo, serenamente, finì.
Sono il fratello, ma per lui non cambiò nulla.
Non ne ero a conoscenza, e per me fu ancora come prima.
Tutto uguale per noi.

Veniamo al dunque.
La sua confessione ebbe termine alle cinque e trentotto.
ra suonata la sveglia dell’inquilino, di professione muratore, che alloggiava nei locali adiacenti alla parete del mio angolo di complicate meditazioni.
Era male tarata, può darsi volontariamente, altrimenti perché avrebbe strimpellato alle cinque e trentotto?
Cinque e trenta va bene.
Cinque e trentotto non va bene.
Non collima.
Non si spiega.
Siamo tutti formalisti.
Lui disse «Sono qui perché mi hanno convocato.
Aiutami.
Voglio il tuo aiuto.»

-«Che incredibile coincidenza! Quando?»

-«Fra poco, alle venti.»

Quanto tempo occorre per arrostire una catasta di funghi campagnoli d’origine dubbia, e mangiarli tra fette di pane pugliese e litri di birra popolare?
Quanto tempo ci vuole per fare uscire dallo scroto i coglioni distrutti e sbatterli nel ventre della puttanaccia internazionale?
Per salutare gli amici?
Mortificare i nemici?
Stringere al petto la donna amata?
Bere, bere, bere, scrivere, scrivere?
Guardare le stelle?

Troppo.

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.

A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

DILA

NUSIV

 

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IL DISPARI 20240722 DILA APS

IL DISPARI 20240722 DILA APS

IL DISPARI 20240722

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Decima puntata

Parte terza

CAPITOLO PRIMO

Le sensazioni furono di trovarmi ad Atene nella Placa piuttosto che nell’Acropoli, nella curva sud durante la celebre partita tra Napoli e Verona (sotto lo striscione “Giulietta è una zoccola”), nello sguaiato flusso di scioperanti incazzati, invece che al seguito di un rassicurante crocifisso esposto, durante religiosi festeggiamenti, in occasione dell’anniversario relativo alla resurrezione dell’uomo seminudo che ne aveva patita la sofferenza.

Mi sedetti alla prima postazione vacante nell’arena delle futuribili tecnologie, confuso fra una quasi interminabile schiera di professionisti di ogni razza proiettati in complesse, ed apparentemente astruse analisi, utilizzando visualizzatori in grado di introdurli in dimensioni temporali e spaziali prive di ogni limite.

Seguendo una semplice informazione, digitai un clic che consentiva l’accesso a tutte le possibili informazioni            -scientifiche, grafiche, genetiche, storiche, ed altre ancora-, riguardanti la complessa struttura fisica, chimica e biologica, sia della totalità e sia dei particolari riferibili al mio DNA.

-«Eccolo».

Nell’ottocento, per non andare oltre e scomodare così l’archeologia del sociale, quasi nessuno sarebbe stato in grado di riconoscere fisicamente il Grande Capo di un paese limitrofo: «Chi sei?» «Sono il Re dei Canneti.» «Dimostralo.»

E che vuoi dimostrare!

Il Re dei Canneti bisognava si affidasse ad un amico comune, un messaggero di professione, un principotto viaggiatore, una rinomata donna di compagnia notturna, cinquecento fucilieri in divisa giallo – rossa (Romani Papalini), nero – azzurra (Longobardi di Moratti), gialla o verde (Padani per Bossi), celeste cielo (Brigate Maradona).

Nell’ottocento, meno di duecento anni fa, i riconoscimenti si perfezionavano attraverso conoscenze di terzi.

C’è sempre stato un poi a tutto, e il poi di questa gestione dei rapporti personali si andò evolvendo con devastante, collettiva, sistematica, indolore, subdola, lenta classificazione ed appropriazione pubblica di minime peculiarità personali.

I documenti di riconoscimento o le impronte digitali possono agevolmente servire da esempio.

Una minima oggi una minima domani una minima dopodomani, dopo duecento anni io tu lei noi voi essi colui coloro costoro chi altro non so, siamo stati infine schedati ed incatenati con il nostro DNA, non falsificabile, non ripetibile, indiscutibile.

Le foto tessere, i gruppi sanguigni, i riconoscimenti vocali, olfattivi, il neo sulla guancia destra, sono ormai strumenti di controllo relegati nelle bacheche dedicate ai nobili ante – nati.

La nuova agnizione avviene mediante il personalissimo,

affidabilissimo DNA.

Io sono un DNA.

Tu sei un altro DNA.

Ripeto “Nessun uomo è paragonabile ad una donna.

Non c’è uomo simile ad un altro uomo.

Non esistono due gravidanze uguali.

Nelle belle famiglie campagnole il gatto era gatto.

L’agnello, agnello.

Il cavallo, cavallo.”

-«Eccolo. Arriva.»

Sul visore invisibile, le immagini si materializzarono simili ad

ectoplasmi, pura luce in movimento… ma non voglio dilungarmi su queste particolari teorie teorio teoritu teorilui… l’effetto collaterale di un loro rinvio sine die, mi consente di ritornare alla rotella essenziale per liberare dalla clandestinità il ricamo filigranato che ho celato fino a questo momento.

-«Eccolo, arriva, ci siamo».

Insieme ad una catena incomprensibile di simboli numeri sigle spazi vuoti tratti trattini tratteggi tortuose concezioni, insieme alla visione tri quadri dimensionale del mio DNA, una freccetta indicante “Continua” (non lampeggiava né splendeva), riuscì, ugualmente ad incuriosire la mia ormai prossima rassegnazione.

-«Manca poco alle venti.

Manca poco.

Manca.

Però manca».

-«Ecco le birre Signor Bruno e Signor Ignazio.

La nostra Signora Vi chiede di scusarla, poiché il recente conflitto mondiale le sta procurando molto lavoro supplementare.

Accogliere tanti in così breve tempo necessita grande organizzazione e professionalità.

Posso bere con voi?

Un boccale di birra popolare?

Salute.

Hic!»

-«Petrus cosa significano tutti questi bip che sentiamo?»

-«Energie finite, terminate.

Segnali di arrivi: Un bip, una fine. Hic!

Prego, signor Bruno, spostiamoci nell’angolo bar dove ci sono due vostri amici che mi hanno pregato di potervi incontrare prima del passaggio di là.

Hic!»

Dissi: «Manca poco, è tardi.» poi aggiunsi «Chi sono?» e quasi meccanicamente feci clic sulla freccetta, non lampeggiante e non splendente, che indicava “Continua”.

Il clic aprì una finestra di presentazione della logica in ragione della quale era stato messo a punto il programma relativo agli arrivi: “… l’efficiente tecnologia elaborata ed in seguito trasportata fino a noi da opportunistiche appendici umane, decide arrivi e partenze sulla base di speciali analisi dei campioni di DNA.

Essi vengono diversificati con probabilistici fattori di rischio indicati da generalizzati rapporti statistici (ambientali ereditari assicurativi sociali asociali climatici tellurici professionali), e quindi inseriti in un unico complesso disegno di arrivi e partenze adeguato alle direttive inflazionistiche, finanziarie, multinazionali, politiche, ed ambientali che, comunque rispettoso dei diritti delle minoranze linguistiche e religiose, opera in assoluta indipendenza da gerarchie, titoli nobiliari, accademici, professionali -veri o falsi-, da corruzioni o da inganni.

Così decidendo in maniera indiscriminata ecc. …”

Per fuggire dal saccente pragmatismo di quelle astruse alchimie, accettai l’invito di Petrus, ritenendo che per me sarebbe stato più piacevole spendermi insieme ad amici, tra birre e canzoni. -«Andiamo Petrus.

Tu vieni Ignazio?»

-«Se mi è consentito, preferirei rimanere qui, dove mi sento poco coinvolto, asettico.»

-«Puoi.

Andiamo Petrus.»

è bello dopo un lungo periodo di assenza, tornare a casa, a condizione che i luoghi e le persone abbiano conservato almeno una goccia dei sentieri d’acqua che avevano infiammato, prima che partissimo, i nostri sentimenti.

Riprovare a leggere al lume della lampada verde, quasi mia coetanea, dopo violenze di neon internazionali sbattuti oltre i filtri di lenti brunite!

Lo paragono alla vincita di un bonus da utilizzare quale recupero per i giorni gettati in inutili sfide.

Il feudo abbandonato libera proprie energie ed accetta confronti, pur senza pretese di successi.

Non sempre è così.

Tornassi ora, dopo una lunga assenza, le mie Pinete (non erano mie), i miei Canneti (non erano miei), il mio Castello (non era mio), mi procurerebbero solo dolore e delusione.

Seguendo Petrus mi preparavo alla spiacevole eventualità di aprire la porta su una scena differente da quella del mio ricordo.

Con cautela, con la discrezione di chi non intendeva disturbare, mossi, lentamente, la maniglia, e spinsi.

Nulla era diverso.

Nulla.

Quasi si fosse trattato di un’antica scultura.

Il pianoforte, le luci, il lampadario, le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, le rustiche grotte dei desideri con al centro la chitarra rossa di Elvis, i trecento quasi invisibili ciondoli tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) che io, anni prima, avevo interpretato come ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.

La fantasia della fantasia.

Le più belle scelte, messe in ordine dalla più eccentrica stravaganza.

Al centro del soffitto l’antico lampadario a cinquanta bracci, di una mescola ottenuta con sabbia e petrolio, ancora troneggiava, aprendo la porta, riflesso nello stesso specchio, irregolare, ambrato.

Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale, continuava a sbalordirmi come la prima volta.

I due amici che mi stavano aspettando, due cari compagni, non si erano accorti del mio ingresso e più innamorati di mai, nella naturalezza del tenero sentimento che li univa, seguitavano a creare atmosfere musicali difficili da dimenticare.

Lui, con l’immancabile ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) al bavero, e lei con l’identico ventaglio giapponese che aveva nel giorno del loro ricongiungimento.

 

Per me, erano stati la mia Anima e il mio Cervello.

 

 

IL DISPARI 20240506

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Nona puntata

Parte seconda

CAPITOLO SECONDO

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.
A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?
Gas, acqua, luce, finestre, spazzatura, garage.
Ritirare i depositi dai conti bancari postali azionari, oppure effettuare una fuga in taxi per una foto in autoscatto sul ponte del Castello Aragonese, all’ombra dell’ultimo pino, tra le canne del vigneto, sulla cresta del monte Epomeo? Telefonare?
Incontrare?
Lasciare biglietti?
Spiegando, allarmando, creando apprensioni?
Troppe cose, troppe azioni, troppe persone, troppi affetti, fino alle ore venti.
Non un minuto oltre.
Ei, Ignazio, mio gemello, non immaginava il destino comune del nostro prossimo percorso.
«Aiutami» erano state le sue prime parole «Aiutami» e fu subito pronto, non chiese spiegazioni, nessuna titubanza, allorché vide le mie dita affusolate cingergli il collo, il mio corpo armonioso muovere verso l’uscita, ed udì la mia voce profonda dire «Andiamo. Non aspettiamo oltre. Ora o le venti, è uguale. Andiamo
Non chiusi la porta, spensi solo la luce.

IL DISPARI 20240506 DILA APS 

Parte terza
 
CAPITOLO PRIMO

Toc toc.
Pausa.
Toc toc toc.
Crcrrrrrrrrr
Signor Bruno!»
Ciao Petrus, come stai?»
Grazie, bene, come un vecchietto. Entrate presto, fuori è pericoloso
Pericoloso?»
Forse non lo sapete ancora, di là è scoppiata una guerra nucleare. Potrebbero arrivare delle radiazioni fin quassù.»
Non sei per nulla cambiato, mattacchione.»
Il signore è Vostro amico? Sì?
Prego entrate… Signor…?»
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro… grazie
Aurora c’è?»
Certo per Voi, Signor Bruno, c’è sempre.
Vado a chiamarla.
Intanto gradite una birra ghiacciata? La solita popolare?»
Grazie ma non ghiacciata… inizia a darmi problemini… fredda, popolare… anche per Ignazio. Vero? E tu non bevi un boccale con noi?»
Certo!
Se Vi è gradito, certo.
Vengo subito, accomodatevi, siete a casa Vostra. Sapete bene quanto Vi stimi la nostra “Signora”.
Vado e vengo. Subito.»
Non correre Petrus, non abbiamo fretta, siamo in anticipo.»
Appena Petrus si allontanò, Ignazio disse:
Siamo? Perché siamo? Io, sono convocato. Io sono.»

IL DISPARI 20240506 DILA APS

L’assegnazione dei personaggi agli interpreti è un’arte che solo l’esperienza insegna.
Il ruolo del burbero, del tirchio, del bell’Antonio, della serva, non vengono sempre carpiti con immediatezza da tutti i figuranti.
Si è bravi generici quando si è propensi all’adattabilità.
Chi soffia nel flauto ne cava le note.
Conoscevo il luogo nei dettagli.
La facciata della vecchia villa schiusa dal cancello di ferro battuto, la sala d’attesa con l’angolo bar: divani di pelle nera e pianoforte sulla pedana semi tonda.
La terrazza dalla bella vista sulle cascate sul monte e verso le foreste.
Sapevo bene che nessuno avrebbe osato fermare i miei passi.
Ero in anticipo.
Ero un amico.
Di Aurora.
La “Signora”.
Ansioso irrequieto schizzato nevrotico, mi dimenavo come un leone in gabbia durante lo spettacolo circense della vigilia di Natale.
Ero anche certo che in nessuno si sarebbe mai, neppure lontanamente, insinuato il sospetto che le mie palesi curiosità fossero, in qualche modo, substrato d’indagini negative, oppure, peggio, potessero essere di contrasto alla migliore immagine del perfetto regno diligentemente diretto dalla Donna Guascona, Aurora, la Signora.
Avevo tempo, potevo farlo, mi spinsi oltre il cartello “Uffici, Vietato Entrare”
Vieni con me e taci» così intesi rispondere al silenzio inquietato di Ignazio.
In epoche recenti, il nobile vezzo antico dell’esplorazione, è “scompisciato” in una grande collettiva scientifica analisi di percorsi (variabili, variati, allusivi) tra “supposte supposizioni”.
Per scoprire l’Antartide, il bel sistema mondo visivo attuale ne assegna la ricerca in porzioni, non superiori ad un metro quadrato, a favore di ciascuno dei milioni di prezzolati assistenti degli assistenti dei ricercatori assistiti.
I dominatori dei laboratori vincenti, chiedono ottanta zecchini, per una manciata di polveri medicamentose.
Le puttane di Venezia la davano per meno al Grande Casanova.
Altra razza altra gente.
Non avrei mai immaginato che fosse possibile rendere funzionale un centro operativo come quello presente nei locali delimitati dal cartello “Uffici ecc…”.
Dimensioni enormi.
Assolutamente unico.
Non siate tristi piccoli fiori di loto dagli enormi occhi a mandorla, artefici di tante applicazioni tecnologiche, in quanto il vostro impegno al banco di lavoro non è mai responsabile per gli utilizzi del grammo di silicio che intrappolate ed irreggimentate.
Lì, nei locali “Uffici. Vietato Entrare.”, né granelli di polvere, né minimi corpi estranei avrebbero potuto intrufolarsi più avanti degli innumerevoli sbarramenti chimici nucleari biologici.
Concepiti per rimanere immacolati, gli ambienti si aprirono, accogliendoci, immediatamente dopo che alcuni specifici addetti ebbero provveduto a sterilizzare completamente ogni parte del nostro corpo, seguendo un elaborato procedimento senza dubbio previsto dal protocollo d’accesso.
Lì dentro tutti i cablaggi si visualizzavano mediante raggi laser diversificati per bande cromatiche.
Segui me. Non parlare.
Non toccare.
Non ora
«Centro elaborazione dati DNA
Entriamo.

Non ho particolare soddisfazione nella stesura di questa sezione della storia, in quanto la didascalica semplificazione che necessita la comprensione dei cardini ad essa relativi opprime fantasiosi movimenti letterari che, da sempre, considero maggiormente piacevoli delle gabbie di coerenze stilistiche che ne limitano l’espressività.
Comunque, Aurora tardava a raggiungerci e noi frattanto consentivamo che zelanti burocrati incappucciassero le nostre teste con l’ultima novità nata nel settore delle trasmissioni audio visive.
Parlo del nobile “Cip-Ciop”, commercializzato successivamente ai vari ex (tam tam telefono telefonino radiografia ecografia radar televisore infrarosso infra tutto) che erano già invecchiati da tempo.
A detta della pubblicità intergalattica: «Cip-Ciop ti fa parlare con chi vuoi e controllare visivamente anche i neuroni.
Cip-Ciop è senza fili e senza antenne.
Il rivoluzionario apparecchio, Cip-Ciop opera mediante un rivoluzionario collegamento neurologico.
Cip-Ciop, se vuoi, non parli e la tua lei ti ascolta.
Oppure, se preferisci, tu vedi lei, la vedi, e lei non lo sa.
Cip-Cip, è in vendita nei migliori negozi spaziali.
Cip-Ciop, apre il tuo futuro ».
La nuova Venere di ambiziose conquiste digitali!
Per la verità, nei locali del regno di Aurora, esso, l’aggeggio, discendente dell’illustre “tam tam”, assolveva un compito particolare: consentire la trasmissione delle informazioni tra gli stagionati impiegati fossilizzati nelle specifiche sezioni, non creando, nel contempo, spiacevoli turbolenze verso i comunicati provenienti dall’esterno.
Insomma,  con “Cip-Ciop”, i pensieri miei si sarebbero trasferiti nel cervello di colui o coloro che avrei selezionato quale ricevente, e soltanto nel loro.
Nessun altro avrebbero potuto in alcun modo intercettarli.
Al solo scopo di non deludere l’aspettativa di aiuto richiestomi in lacrime da Ignazio, feci in modo che i silici dei nostri strumenti stabilissero, unicamente tra noi due, un permanente contatto reciproco.
Lo sviluppo di un bruco in farfalla.

Continua lunedì prossimo

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Il Dispari 20240422

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo” Ottava puntata

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

I bulbi oculari mi facevano male, forse per la scarsa luce, forse per il poco sonno, forse per le tante ore trascorse a scrivere, forse per l’età, ma certamente andava ascritta al mio disordine mentale una qualche responsabilità per aver provocato il loro roteare senza punti fissi di riferimento.

Fermò le dita affusolate di mia madre, piegò verso l’alto il corpo armonico di mia sorella, e con la voce profonda di mio padre «Io sono Ignazio» disse.

-«Ignazio?»

-«Sì Ignazio»

-«E allora? Con ciò? Che cazzo significa? Basta indovinelli. Parla o vai. Ignazio, Filippo, Marco Aurelio, Giulio Cesare che me ne fotte del tuo nome!
Parla o vai.
Bevi, fuma e vai di corsa.
Non ho mai tempo per nessuno, figuriamoci oggi.
Non ne ho abbastanza neppure per me!»

-«Io sono Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.
Tuo fratello gemello.»

Scolorire al buio.
Perdere battiti cardiaci.
Stoppare il respiro.

Chiusi gli occhi e mi chiesi se credere che i sogni si generino prima dei fatti, oppure se persuadermi che ne siano una rappresentazione.
Le fantasie germogliano da oniriche trasgressioni mai metabolizzate, oppure ne costituiscono le origini?
Prima l’uovo o la gallina?
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro: il mio passato di sfrontate personificazioni dei mali del mondo.
La droga, la guerra, l’azzardo, lo stupro, si erano, tramite lui (visto da sempre quale compendio d’ogni maleficio), materializzati nella persona del traghettatore piagnucoloso che si dichiarava mio fratello e del quale mi impressionavano alcune caratteristiche fisiche: la voce profonda di mio padre le dita affusolate di mia madre ed il corpo armonioso di mia sorella.
Nel mio passato era stato un sogno, una visione?
A raccogliere i cocci di una bottiglia era la presenza di un incubo, d’una allucinazione?
Allora, quando scrivevo di Ignazio il combattente in Viet Nam, mi sfidava una forza di coesione che non si lasciava cancellare dal tempo e dalla distanza?
Il richiamo di una energia sconosciuta?

Nella situazione che stavo vivendo per il trasferimento che mi accingevo a compiere, ero oppresso dall’ossessione di pretendere una vicinanza familiare?
Ignazio, per me, padre madre sorella?
Mi chinai nell’atto di sollevarlo, ponendo i gomiti fra tronco e braccia, e quando il suo viso, assecondando i movimenti che compivo, giunse ad un palmo dalla mia bocca «Non ho fratelli» sentenziai «Non ho mai avuto gemelli, tu sei il parto della mia fantasia, tu sei mio.
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro mi appartiene.
u mi appartieni», attesi l’attimo necessario a che deglutisse l’assoluta determinazione da cui mi sentivo invaso, e stringendo i polsi fra i pugni chiusi ai lati del suo torace, con la calma della follia «Perché sei qui?» gli chiesi.

Finalmente, sul soffitto, al centro del mio mondo, accesi il faro delle grandi occasioni.

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

CAPITOLO SECONDO

Non poter descrivere nei dettagli la serie di virulente emozioni che mi procurò il prosieguo dell’incontro con il mio gemello Ignazio, è il prezzo che voglio pagare per non derogare dalla militaresca sottomissione al principio di essenzialità nel quale ho deciso di rinchiudere l‘esposizione di questa storia.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora.
Non un minuto oltre».

E come potrei esaurire, con locuzioni brevemente tratteggiate, la descrizione del patos -posso dire a mala pena celato-, che lui mi aveva procurato definendo con frasi stringate la precisa e dolorosa ricostruzione dell’intrigata vicenda che aveva determinato la nostra separazione, nel 1943, tra guerra, fame, tradimenti?

Avevo ascoltato un Ignazio finalmente privo di reticenze.
Albeggiava.
Il gallo, i passeri, la fresca brezza che in tempi andati forse spegneva le lampade a petrolio sulle vie, il primo discreto avvicinarsi di un pullman di linea, il rombo soffuso del volo aereo Venezia Napoli, segnalavano con sufficiente precisione lo sviluppo delle ore.
Le quattro e venticinque.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora».

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Se mi sarà concesso, quantunque in un luogo differente e con altra penna, colmerò le tante lacune di questa ricostruzione, cimentandomi in una impresa narrativa che non potrà in quel caso essere ridotta ad un breve racconto.
Se sarà.

In sintesi, il suo racconto iniziò dall’età di cinque anni, nel 1948, quando io vivevo ad Ischia senza luce elettrica e senza acqua corrente.
Ignazio abitava, con la famiglia dalla quale a sua insaputa era stato adottato, in una sfarzosa tenuta spagnola assegnata, in segno di cameratismo, dal “Franco” allora dominante all’amico gerarca fascista che si era rifugiato sotto la sua protezione subito dopo la fuga del re dall’Italia.
Nel 1948 la balia gli svelò una prima parte del segreto: «Sei un bimbo adottato.»
Lui non capì e proseguì nella sua infanzia.
O non volle comprendere?
A me quell’anno non dissero niente.
Tutto, così, proseguì uguale a sempre.
Nella solita consuetudine.
Nel 1961, compivamo diciotto anni.
L’invecchiato comandante in esilio convocò il giovane Ignazio nello studio tappezzato da grossi volumi di libri mai letti, ed in quella occasione parato a festa con stendardi sfilacciati di una unica etnia svolazzanti tra tazzine da caffè rigorosamente nere, per comunicargli, adagiando rispettosamente la mano destra sulla banderuola che tra tutte figurava il riconoscimento per il maggiore atto di eroismo bellico, ufficialmente formalmente «Tu hai un fratello gemello.»

La frontiera nazionale del Montecarlo passa attraverso la struttura edilizia d’alcuni alberghi, cosicché ai privilegiati clienti è sufficiente spostarsi di una camera nello stesso ambito residenziale per godere degli effetti giuridici di un altro stato.
Simile trasferimento fece Ignazio.
Solo?
Con un fratello?
Io sono, lui è.
E tutto proseguì nella stessa identica ripetitività quotidiana.
A me nel 1961 non dissero nulla e nulla mutò.
Nessun particolare era rimasto inciso nei miei pensieri.

Mi chiesi quanti parenti ed amici avrebbero avuto la facoltà d’aiutarmi provvedendo alla discreta ricostruzione dei segnali che, forse, io non avevo recepito, oppure che, invece, in una ipotesi maggiormente attendibile, nessuno di loro in tanti anni si era mai proposto di far balenare davanti alla mia mente. Neppure sotto una qualsiasi forma allegorica o mediante l’ambigua divinazione di un improbabile oracolo.

La gente che mi era stata vicina, spesso amica, a volte finanche unita da un vincolo d’intimità, e che sapeva, la gente delle mie terre, delle mie case, dei miei rifugi, non aveva, fino ad allora, illuminata un’ombra sufficiente affinché potessi impossessarmi delle vicende essenziali alla comprensione di questa parte della mia storia personale!

Ignazio era stato davvero tutto nella vita: un gran colpo di sfida perenne.

Non mi svelò alcun particolare somatico o caratteriale della sua madre adottiva, neppure durante il sofferto ricordo del segreto che lei gli aveva voluto rivelare, mentre oramai le sfuggiva la vita, dicendogli «Tuo fratello è Bruno Mancini.» Poco dopo, serenamente, finì.
Sono il fratello, ma per lui non cambiò nulla.
Non ne ero a conoscenza, e per me fu ancora come prima.
Tutto uguale per noi.

Veniamo al dunque.
La sua confessione ebbe termine alle cinque e trentotto.
ra suonata la sveglia dell’inquilino, di professione muratore, che alloggiava nei locali adiacenti alla parete del mio angolo di complicate meditazioni.
Era male tarata, può darsi volontariamente, altrimenti perché avrebbe strimpellato alle cinque e trentotto?
Cinque e trenta va bene.
Cinque e trentotto non va bene.
Non collima.
Non si spiega.
Siamo tutti formalisti.
Lui disse «Sono qui perché mi hanno convocato.
Aiutami.
Voglio il tuo aiuto.»

-«Che incredibile coincidenza! Quando?»

-«Fra poco, alle venti.»

Quanto tempo occorre per arrostire una catasta di funghi campagnoli d’origine dubbia, e mangiarli tra fette di pane pugliese e litri di birra popolare?
Quanto tempo ci vuole per fare uscire dallo scroto i coglioni distrutti e sbatterli nel ventre della puttanaccia internazionale?
Per salutare gli amici?
Mortificare i nemici?
Stringere al petto la donna amata?
Bere, bere, bere, scrivere, scrivere?
Guardare le stelle?

Troppo.

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.

A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

DILA

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I MIEI COMPAGNI DI VIAGGIO

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Un altro validissimo collaboratore e mio affettuoso compagno artistico è SERGIO CINTURA, napoletano purosangue e trapiantato in Sardegna da moltissimi anni.

La conoscenza, come del resto la maggior parte dei contatti, avvenne on line verso la metà degli anni 2000.

Nacquero diverse canzoni in parte cantate dallo stesso Sergio ed altre da Manuela Giudice, dalla figlia, da Alberto Calì e da Dario Rustichelli.

Qualche titolo? NU BENE CHE FA MALE (Somma – Calì – Cintura) che uscì dopo qualche anno dall’invio del mio testo, cantata anche da Mila Siervo; FIGLIA ‘E STA CITTA’ cantata da Maria Rosaria Vardi; CORE MIO SENZA ‘E TE; COME FOSSI POESIA e tantissime altre, alcune ballabili che spesso vengono trasmesse dalle varie emittenti in collegamento con me.

Avemmo anche modo di conoscerci da vicino.

Mi fece visita qui a casa mia insieme ad Alberto Calì e trascorremmo un ottimo pomeriggio insieme.

Una sua canzone è stata tra le 80 finaliste nazionali del concorso “Sanremo Famosi ’92”.

Fu presente al Primo Festival Autori sempre a Sanremo, nel ’94, così come a Taormina alla manifestazione nazionale “Non solo Musica” diretta da Daniele Piombi.

Nel Festival Internazionale di canzoni per bambini “Verdinote ’94” presentato da Maria Teresa Ruta raggiunge il terzo posto mentre nel ” Verdinote ’95 ” con la canzone “Come sarà il mio albero che crescerà” (interpretata da Marisol Lallai) vince il “Premio natura ecologica ed ambiente” ed il Festival era condotto da Ramona Dell’Abate, alla quale ha fatto dono del CD “Domani”, compilation nazionale comprendente il suo brano “Profumo” interpretato da Giuseppe Nonnis.

Gli ho chiesto una sintesi del suo percorso ed immediatamente Sergio me l’ha inviato, eccolo:

“Mi chiamo Sergio Cintura e sono autore e compositore musicale.
La mia passione per la musica risale a tanti anni fa, quando i contenuti dei grandi autori e le melodie dei compositori più noti mi facevano sognare ad occhi aperti.
Oggi ho fatto di questa passione un’attività divertente e ricca di soddisfazioni e che condivido con interpreti, musicisti ed amici.”

Ognuno ha il suo carattere e sicuramente Sergio è tra quelli che si rendono sempre disponibili, un vero amico sul quale poter contare in qualsiasi momento.

Tra i miei compagni di viaggio è uno dei più simpatici, con la battuta sempre pronta ed incline a non montarsi la testa, come spesso accade per altri, naturalmente anche le nostre canzoni avrebbero meritato qualcosa in più, ma qualche brano è apparso nei primissimi posto nelle classiche mondiali e ciò ci ripaga per quanto prodotto.

Ad Majora semper!

 LUCIANO SOMMA

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Ramona Dell’Abate – Sergio Cintura

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Sergio Cintura

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Sergio Cintura

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I MIEI COMPAGNI DI VIAGGIO

Tra i miei compagni di viaggio più assidui sicuramente vi è il poeta GIUSEPPE SANTAGATA detto Peppe, oltre che grande amico mio parente acquisito avendo sposato una cugina di mia moglie.

Nato nel 1930 ci ha lasciati a soli 56 anni nel 1986.

Tantissime le trasmissioni fatte in tandem per un lunghissimo periodo, oltre ad emittenti Napoletane anche spesso ospiti insieme a RADIO ISCHIA e  RADIO ISOLA VERDE.

Veniva anche lui a villeggiare ad Ischia, ci accomunava. tra l’altro, la passione per la pesca che ci vedeva spesso di primo mattino sulla scogliera d’Ischia Ponte sotto il Castello Aragonese.

In quei giorni abbiamo sempre mangiato del pesce freschissimo che il generoso mare ci faceva pescare e le nostre moglie cucinare…

Frequentavamo insieme il Salotto Tolino in Via Amato di Montecassino, la Domenica vi era riunione di poeti, scrittori, cantanti, giornalisti e la moglie di Salvatore Tolino, Donna Regina, preparava per tutti un ottimo, ed indimenticabile, caffè.

Si presentavano in anteprima libri, canzoni, articoli.

Uscì anche un’antologia con foto ed aneddoti curata dalla Professoressa Ada Sibilio Murolo.

Tornando a Peppe Santagata stampò un libro dal titolo SINCERAMENTE, gli scrissi la prefazione, dove seppure numericamente esigue le poesie inserite furono scritte con grande profondità ispirativa ed ottima ritmica.

Facemmo alcuni viaggi insieme, essendo entrambi iscritti all’ASSOCIAZIONE POETI DIALETTALI di Roma, che ne organizzava due all’anno, a mia memoria Massalubrense, Grottaferrata, Procida, Greci, io con mia moglie lui da solo perché la cugina di mia moglie non amava viaggiare.

Come raccontato in un articolo precedente in un’ospitata a RADIO ANTENNA VERDE il proprietario Cesare ci fece bere del vino locale squisito che però dopo poco fece i suoi effetti, terminammo la trasmissione piuttosto brilli e all’indomani gli amici della spiaggia dei pescatori sottolinearono le tante battute dette suggerite dai fumi dell’alcool.

Purtroppo Peppe soffriva da molti anni d’una malattia cardiaca, qualche mese prima della dipartita si recò in una clinica a Parigi e sembrava guarito, purtroppo dopo un mese circa, eravamo alla vigilia di Natale del 1985, ebbe un malore fatale.

Il suo ricordo è per me incancellabile, un amico fraterno come lui non è facile trovarlo come non è facile accettarne la scomparsa.

LUCIANO SOMMA

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20240627 DILA ASP

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I MIEI COMPAGNI DI VIAGGIO
GIANNI DRUDI

Uno dei miei più prestigiosi compagni di viaggio e collaboratore è indubbiamente GIANNI DRUDI col quale ho scritto per anni un considerevole numero di canzoni.

La maggior parte dei brani sono delle edizioni AGOS di Vignola, tutti motivi allegri che hanno allietato, ed allietano, i villeggianti d’estate sulle varie spiagge Italiane e straniere.

Tanto per citare solo qualche titolo: PATATE E BACCALA’ (incisa anche da Alain Bideaux in Francia col titolo RIRE RIRE RIRE, CAFFÈ CAFFÈ – CAFFÈ CAFFÈ AQUA GYM – E MALEDICO ME – EL TRUCANDERO – FENOMENALE – FALLO DANCE – JAMBE’- NINO IL BAGNINO.

Ecco un accenno sul suo nutritissimo curriculum pubblicato dalle edizioni ITALIAN WAY MUSIC di MILANO.
La sua carriera artistica inizia a metà degli anni ‘80 quando incide il suo primo “45 giri“ dal titolo “Come stai” e partecipa alla trasmissione “Disco inverno“ RAI DUE .
Poi è ospite al “Girofestival“ su RaiTre con la canzone “La Pantera”, che diventa sigla della trasmissione.
Con “Roma di notte“, è invitato al programma televisivo “Jean’s Due“ condotto da un giovanissimo Fabio Fazio su Rai Tre.
Nel 1992 arriva su Italia Uno, nella mitica “Mai dire TV“ condotta dalla simpatica “Gialappa’s Band“, con la canzone “Fiky Fiky“ che gli dà la popolarità nazionale.
Per diverse settimane GIANNI DRUDI è nei primi posti delle classifiche dei dischi più venduti, con l’album “C’e’ chi Cucca chi no!”.
VENDE 300 mila Copie.
Partecipa alle trasmissioni televisive “Superclassifica Show“, “Il Maurizio Costanzo Show“, “Bella Estate Rai Uno“ , “Mai Dire Goal”, etc.
Lo stesso anno vince il PREMIO RINO GAETANO, su RAI UNO.
Con la Ricordi International esce il nuovo CD dal titolo “Il goliardico Drudi” e nasce la collaborazione con il famoso paroliere Luciano Beretta, (autore dei grandi successi di Celentano) “Com’ è Bello Lavarsi”, “Tiramisu’ la Banana!”, L’Uccello!

Gianni Drudi, compone nuove canzoni ed originali balli di aggregazione: “Il Ballo del Pinguino”, “VENDE 200 mila Copie”, poi “Facciamo Baracca“, “Agguanta la Mela”, “Dogy Dance”, “La Tana del Re”, Ciapa la galeina, Mister Bagnino, etc.

LUCIANO SOMMA

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Direttore Gaetano Di Meglio

Pagina a cura di Bruno Mancini

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